IL MATERIALE PLASTICO
Dal punto di vista chimico, tutte le plastiche sono composti organici e contengono principalmente carbonio, idrogeno e - in parte - ossigeno.
LE MATERIE SINTETICHE
di Anton Thumiger
La prima materia plastica artificiale nacque nel 1865. In realtà non era completamente sintetica, poiché veniva prodotta modificando la cellulosa, il costituente principale del legno. Venne chiamata Parkesina, dal nome del suo inventore, l'inglese Parkes, e divenne poi famosa come celluloide, in una formulazione leggermente diversa messa a punto negli Stati Uniti, che si affermò come supporto per pellicole fotografiche. Da allora la chimica delle plastiche si è sviluppata incredibilmente, tanto che oggi vengono prodotte industrialmente circa 10000 plastiche differenti.
Le materie plastiche hanno molti vantaggi; in genere sono resistenti ma leggere, sono buoni isolanti termici ed elettrici, si deteriorano molto lentamente e sono resistenti ad agenti chimici come acidi, alcali, ossidanti. Rispetto ad altri materiali, come vetro e metallo, sono decisamente economiche da produrre; una bottiglia in plastica costa all'industria assai meno di una bottiglia di vetro o di una lattina di alluminio. Inoltre, avendo una struttura chimica modulare, è possibile ottenerne diverse con una grande varietà di caratteristiche chimiche e fisiche semplicemente variando la natura dalla unità fondamentale che le costituisce.
Dal punto di vista chimico, tutte le plastiche sono composti organici, ossia composti complessi del carbonio; contengono principalmente carbonio e idrogeno, e, a seconda del tipo considerato, anche ossigeno (es. poliesteri come il PET), cloro (PVC), azoto (poliammidi, come il Nylon) o fluoro (teflon). Ciò che tutte queste sostanze diverse hanno in comune è l'essere dei polimeri, cioè le loro molecole (anche molto grandi) sono formate dalla ripetizione di piccole unità fondamentali. Possiamo pensare una molecola di polimero come una catena, i cui anelli (o unità di ripetizione) sono tutti identici piccoli gruppi di atomi. Il concetto di costruire grandi molecole assemblando piccoli mattoni fondamentali non riguarda solo i materiali sintetici; lo ritroviamo in natura, in qualunque cellula vivente. Nei polimeri di origine biologica si può osservare una complessità di gran lunga maggiore rispetto alle materie plastiche artificiali; nelle proteine o negli acidi nucleici (es. DNA), presenti in tutte le cellule, gli anelli della catena non sono infatti tutti uguali fra loro. Ad esempio ogni proteina è formata da una ben definita sequenza di aminoacidi, e contiene quindi un certo grado di informazione. Polimeri naturali formati tutti da unità identiche sono invece per esempio l'amido e la cellulosa, entrambi costituiti dalla stessa unità fondamentale, lo zucchero glucosio. L'amido costituisce una riserva di energia nelle piante, mentre la cellulosa è il materiale con cui sono costruite le pareti delle cellule vegetali. Essi sono i parenti naturali delle materie plastiche di sintesi.
Per l'ambiente naturale, la differenza tra un polimero vegetale come la cellulosa ed uno sintetico (ad esempio il polistirene con cui sono fatti i bicchieri usa-e-getta) sta nel fatto che, mentre il primo è biodegradabile, il secondo è un materiale completamente estraneo al mondo vivente e non può essere demolito da nessun organismo. Gli oggetti in plastica che ci circondano nella nostra vita quotidiana sono destinati a durare per molto tempo prima di scomparire; in pratica l'unica maniera in cui un sacchetto di plastica per la spesa può disfarsi è una lenta foto-degradazione, ossia una rottura delle catene polimeriche ad opera della luce solare (in particolare, dei raggi ultravioletti). L'ingiallimento o la fragilità del materiale sono i primi sintomi di questo deperimento, che richiede però molto tempo per completarsi.
Inoltre, le plastiche sono prodotte a partire dal petrolio o dal gas naturale, due fonti di energia e materie prime non rinnovabili. Si stima che le richieste dell'industria delle plastiche assorbano circa l'8% di tutto il petrolio estratto nel mondo.
La sintesi di una materia plastica inizia nel settore petrolchimico, dove a partire dagli idrocarburi (sostanze che contengono solo carbonio e idrogeno) estratti dal petrolio vengono preparati i monomeri, una o più sostanze dalla cui reazione si origineranno tutti gli anelli della catena polimerica. Nel caso più semplice il monomero è uno solo e la sua struttura coinciderà praticamente con quella dell'anello o unità di ripetizione della catena. I processi petrolchimici di cracking provvedono a rompere le lunghe catene degli idrocarburi pesanti e a formare le molecole leggere (come ad esempio l'etilene) necessarie all'industria delle plastiche.
La plastica vera e propria nasce quindi dalla polimerizzazione, ossia da una reazione che unisce fra loro monomeri identici a formare lunghe catene. Dal monomero etilene si ottiene polietilene (ad alta densità, HDPE, se le catene sono lineari; a bassa densità, LDPE, con catene ramificate); dal cloruro di vinile, il polivinil cloruro (PVC); da glicole etilenico e acido tereftalico, il polietilentereftalato (PET). E così via.
Prima della lavorazione, il materiale grezzo ottenuto dalla fase di polimerizzazione viene mescolato con piccole quantità di coloranti e di additivi che gli conferiscono il colore e le proprietà desiderate. Gli additivi possono servire ad esempio per rendere la plastica più lavorabile a caldo (plastificanti), o a renderla più resistente alla luce solare (additivi che assorbono i raggi ultravioletti). Composti come i plastificanti vengono poi in genere rilasciati lentamente dal materiale; l'odore di 'plastica' degli oggetti nuovi (ad es. l'interno di una automobile) è in realtà dovuto al plastificante, ancora presente in quantità significativa. Nel considerare la tossicità del prodotto finito, o l'impatto di una plastica sull'ambiente, questi additivi vanno ovviamente considerati; ad es. gli ftalati, usati come plastificanti del PVC, sono dannosi per la salute. Nel 1999 l'UE ha vietato l'uso di ftalati nei giocattoli per la prima infanzia. Inoltre, gli additivi sono composti non biodegradabili che finiscono per accumularsi nell'ambiente.

Considerando infine la lavorazione di una plastica a dare il prodotto finito, bisogna distinguere tra materiali termoplastici e termoindurenti. I primi quando vengono riscaldati rammolliscono, divengono fluidi e possono essere facilmente soffiati o colati all'interno di stampi per produrre gli oggetti più diversi. A temperatura elevata infatti le lunghe molecole del materiale si muovono abbastanza da vincere le forze che le tengono unite e possono così scorrere le une sulle altre. I secondi invece quando vengono riscaldati induriscono in maniera irreversibile, perché ad alta temperatura avvengono reazioni chimiche che legano fra loro le varie catene polimeriche, le quali poi non possono più allontanarsi l'una dall'altra. La maggioranza delle plastiche appartiene al primo gruppo; questo significa che possono essere riciclate, perché qualunque oggetto può essere nuovamente fuso per riutilizzarne il materiale.

Fra i molteplici usi delle materie plastiche, quello che ne assorbe la maggior quantità (circa il 60%) è la realizzazione di imballaggi. Per questo, gran parte della plastica prodotta esaurisce presto la sua funzione, ponendo il problema dello smaltimento. Vi sono due alternative: l'incenerimento ed il riciclaggio. Nel primo caso si recupera energia, perché il calore generato nella combustione può essere utilizzato nella produzione di energia elettrica; nel secondo, si ottiene materiale per la fabbricazione di nuovi oggetti senza bisogno di ricorrere alla sintesi (e quindi al petrolio).
Oggi, a fronte di una produzione mondiale di circa 100 milioni di tonnellate annue di materie plastiche, solo l'8% di queste viene incenerito per recuperare energia, ed il 7 % riciclato. L'80% viene invece gettato nelle discariche. Per farsi un'idea della quantità, si pensi che da una tonnellata di PET si ottengono 20.000 bottiglie da due litri per uso alimentare.
Nel caso del riciclaggio, la cosa migliore è trattare separatamente le diverse materie plastiche, in modo da ottenere prodotti di materiale omogeneo (un solo polimero), con buone caratteristiche. Ad esempio, nel riciclaggio delle bottiglie alimentari (generalmente in PET) è importante separare il tappo, solitamente realizzato in una plastica diversa. Le plastiche eterogenee, ottenute miscelando polimeri diversi, possono comunque essere utilizzate per produrre oggetti d'arredo come sedie e tavoli da giardino.
La materia plastica in cui un articolo di consumo è stato realizzato può essere individuata dal simbolo (triangolo numerato) o dalla sigla stampigliati sopra l'oggetto.


PET (Polietilene tereftalato): Bottiglie di plastica per bevande

HDPE (Polietilene ad alta densità): contenitori per liquidi, uso alimentare e non

PVC (Polivinil cloruro): tubi di scarico dell'acqua

LDPE (Polietilene a bassa densità): sacchetti di plastica

PP (Polipropilene): stoviglie

PS (Polistirene): bicchieri e stoviglie di plastica, coppette dello yogurt

ALTRO: tutti i materiali plastici che non appartengono alle sei categorie precedenti.


Non sempre il riciclo rappresenta una opzione sensata; molti contenitori per cibi ad esempio andrebbero puliti accuratamente prima di essere processati, ed i costi di questa operazione la rendono impraticabile.
Una soluzione alternativa al riciclaggio e all'incenerimento consiste nel produrre materiali plastici in grado di degradarsi nell'ambiente. Possono essere materiali fotodegradabili (che vengano rapidamente demoliti dalla radiazione solare) o, ancor meglio, biodegradabili, in grado di essere digeriti dai batteri presenti nel suolo. Un esempio di tali plastiche sono i polilattidi (PLA), polimeri dell'acido lattico. L'acido lattico è facilmente ottenibile dall'amido per fermentazione; un imballaggio in PLA può essere quindi prodotto a partire da materie prime rinnovabili (amido di mais), e venire riassorbito nell'ecosistema una volta venuta meno la sua funzione, chiudendo il cerchio. Al momento, simili materiali biodegradabili costano da 2 a 10 volte più delle plastiche convenzionali, anche se ci sarebbe da obiettare che il costo di un sacchetto di polietilene non tiene conto del prezzo ambientale e di smaltimento che verrà pagato più tardi. Riguardo ai prodotti biodegradabili bisogna aggiungere che la loro digestione non può avvenire nelle condizioni di una moderna discarica, dove i rifiuti, compressi e stratificati, si trovano in assenza di ossigeno e di umidità. In questo ambiente i batteri aerobi necessari alla degradazione non hanno alcuna possibilità di crescere.
Alcune plastiche cosiddette biodegradabili sono in realtà materiali misti, ottenuti mescolando un polimero sintetico (ad es. polietilene) con quantità variabili (5-20%) di amido di mais; l'idea è che la digestione dell'amido ad opera dei batteri del suolo finisca per dissolvere il materiale in una polvere fine di plastica. Oltre al fatto che questo non comporta l'eliminazione del materiale dall'ambiente, ma solo la sua dispersione, bisogna considerare come per quanto detto sopra ciò non possa avvenire in una comune discarica.
   
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