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Á pieds joints dans le thème

"La mia esperienza mi porta ad affermare che la scuola non ama lo sport. Infatti fa pochissimo per promuoverlo, dedica due ore settimanali alla cosiddetta ‘Educazione fisica’, che non è sport ma movimento e non perde l'occasione per considerare la pratica sportiva seria come una distrazione dall'unico ed alto compito degli adolescenti: studiare."
Questo provocatorio incipit di un articolo di un genitore di tre figli sportivi ci consente di entrare veramente à pieds joints dans le thème: i rapporti tra la scuola e lo sport, e ancora quale il ruolo educativo dell'ormai ex educazione fisica, ora scienze motorie e sportive, e delle discipline sportive in genere.
Un tema stimolante, che traversa ogni ordine di istituzione scolastica e che coinvolge gli adulti della scuola non solo in quanto insegnanti, ma anche in quanto genitori.
In questo supplemento la sperimentata, ma forse un po' rigida e paludata, scansione degli articoli nelle sezioni Repères, Pratiques e Rubriques, che vedeva gli argomenti prima inquadrati da riflessioni di tipo teorico, poi esemplificati dalla presentazione di attività didattiche ed esperienze educative è sovvertita, abbiamo preferito iniziare con una parte introduttiva che si pone l'obiettivo di mettere a fuoco il problema, i rapporti tra la scuola e lo sport, con testimonianze, riflessioni, valutazioni di chi, giovane o adulto, tra l'impegno scolastico e l'impegno sportivo si è trovato a volte a dover scegliere. À pieds joints dans le thème dunque per incuriosire, in qualche misura provocare il lettore, proponendogli innanzitutto una visione esperienziale del problema con le contraddizioni e le enfasi che i fatti di vita portano con sé, nella dimensione educativa in particolare.
Speriamo di essere riusciti nell'intento.

Giovanna Sampietro


Studio o sport?
Studio e sport!

Non è facile dedicarsi contemporaneamente a due attività impegnative come lo sport a livello agonistico e lo studio universitario. Esse si conciliano bene, secondo la mia esperienza, quando lo sport viene praticato a livello amatoriale, senza alcuna pretesa di risultati. In questo caso, l'allenamento diventa un piacevole momento di stacco dall'attività intellettuale e permette di riprendere quest'ultima con maggiore energia. Così è stato anche per me fino a quando ho frequentato il Liceo scientifico: ero sì iscritta ad una società di atletica leggera e partecipavo a numerose gare, ma ancora lontana dall'essere una vera agonista. Tutto cominciò quasi per gioco. Avevo partecipato ad alcune gare di corsa dei Campionati Studenteschi e, visti i risultati ottenuti e l'entusiasmo che mi sosteneva nel dedicarmi all'attività fisica, decisi che la corsa poteva diventare qualcosa di più di una semplice sgambata pomeridiana. Iniziai a seguire un programma di allenamento più specifico e ad entrare gradualmente nel mondo della competizione. Durante i due anni in cui ho praticato atletica leggera e corsa in montagna sono comunque riuscita senza troppe difficoltà a dedicare il giusto tempo allo studio e all'impegno sportivo. Le gare erano sì un momento importante, ma non ancora a tal punto da coinvolgermi totalmente. Adesso che pratico lo sci alpinismo come atleta professionista appartenente al Centro Sportivo dell'Esercito, so che la partecipazione alle gare diventa il momento in cui si raccolgono i frutti delle lunghe ore di allenamento, esattamente come quando, nel sostenere un esame, si dà prova delle conoscenze acquisite nel periodo di preparazione. Affrontare una gara o sostenere un esame sono momenti che richiedono entrambi una grande concentrazione e coinvolgono emotivamente a tal punto da generare una situazione di “stress”: l'abilità dell'atleta o dello studente è proprio quella di riuscire a gestire e controllare le proprie tensioni per raggiungere gli obiettivi con successo. Per questo motivo, essere atleta e allo stesso tempo studente significa trovarsi continuamente in competizione con se stessi e gli altri sia sul piano fisico, sia su quello mentale. Per quanto mi riguarda, ho ormai imparato che quando concentro le maggiori energie su una delle due attività, l'altra rimane inevitabilmente penalizzata. Quella di un atleta è inoltre una condizione particolare: è ormai scientificamente accertato che l'umore e gli stati d'animo vengono condizionati dai carichi di allenamento. Avverto una notevole differenza, ad esempio, tra l'applicarmi nello studio quando sono fisicamente riposata o durante i periodi di “carico”, ossia quando le sedute di allenamento vengono svolte due volte al giorno. Soprattutto, cambia qualcosa dentro di me nei periodi di forma atletica, in cui si riescono a raggiungere le migliori performance agonistiche, ma nello stesso tempo si è molto vulnerabili psicologicamente e fisicamente più deboli. Quando ritorno a casa stanca dopo un'intensa attività, specie se anaerobica, incontro grandi difficoltà a concentrarmi. In questi momenti preferisco, allora, dedicarmi ad attività più leggere e piacevoli come la lettura di qualche buon libro non troppo impegnativo.
Attualmente sono iscritta, presso la Facoltà di Lingue dell'Università di Torino, al Corso di Laurea in Scienze del Turismo. Non avendo l'obbligo di frequenza, riesco a preparare gli esami senza dover soggiornare a Torino: questo è indubbiamente un grosso vantaggio. Nei periodi di gare, però, ricerco la massima concentrazione per i miei impegni agonistici, pertanto sostengo gli esami durante le sessioni che non interferiscono col calendario delle competizioni.
Nonostante le difficoltà che si possono incontrare nel conciliare attività fisica e intellettuale, ora sarebbe per me impensabile abbandonarne una delle due. Infatti, anche senza dover preparare un esame, sento la necessità di documentarmi, conoscere, apprendere continuamente. E ho soprattutto imparato che l'esercizio intellettuale stimola la capacità di concentrazione. In gara, i risultati sono indubbiamente frutto dell'allenamento, ma a parità di preparazione atletica la differenza è data dalla capacità di concentrazione mentale. Non è un caso che siano sempre più numerose le pubblicazioni di psicologia dello sport dedicate appunto alla preparazione mentale per affrontare l'attività agonistica. Questi argomenti andrebbero, a mio parere, trattati e approfonditi anche nelle scuole di ogni ordine e grado per rivalutare la cultura dello sport pulito tra i giovani. La giusta miscela di studio e sport non può che portare ad una condizione di vita e ad un equilibrio ottimali, senza necessariamente sfociare nell'agonismo.

Chiara Raso

Un fantastico gioco

Quattordici anni non ancora compiuti, alle spalle il ricordo di troppe gare di sci di fondo che di dar buoni risultati sembrava non ne volessero saperne. Quattordici anni e nel cuore la tristezza di chi ha deciso di dedicarsi allo studio dopo aver fallito nello sport.
Nonostante la mia costanza negli allenamenti le gare sembrava dovessero essere sempre decise da episodi imprevedibili. Avevo solo dieci anni quando un incauto turista attraversò la pista di Cogne durante il mio transito in occasione di una gara regionale, mi scontrai con questo sconosciuto e persi tre posizioni in classifica a soli trecento metri dall’arrivo. Il massimo della delusione l’ho raggiunto l’anno successivo ai Campionati nazionali di categoria ragazzi, quando in seguito a una deludente prova individuale ero pronto a riscattarmi in staffetta. Dopo una splendida rimonta mi trovai ad affrontare una lunga serie di discese che mi videro pesantemente penalizzato a causa di un’errata scelta dei materiali.
Oggi ho ventidue anni e vedo altri ragazzi che, come me allora, vivono in modo angosciante lo sport che è nato come un gioco, un divertente confronto con gli altri. Ho dovuto allontanarmi dallo sport per capirlo davvero, durante gli anni passati all’Institut agricole régional ho imparato a vivere l’attività fisica come uno svago.
Durante la pausa pranzo ho affrontato memorabili partite di calcio, pallacanestro e pallavolo, faticando e divertendomi, dimenticando per mezz’ora le interrogazioni che mi attendevano nel pomeriggio. Grazie all’aiuto di Alberto Stella, assistente studenti ed appassionato fondista, ho avuto la possibilità di continuare a sciare dopo cena, usufruendo di varie piste di fondo illuminate. Queste esperienze mi hanno insegnato a vivere lo sci e lo sport in generale per quel fantastico gioco che è.
Sono poi tornato alle gare, questa volta su una pista di atletica, ed è stato amore a prima vista, inoltre ho avuto la fortuna di incontrare una persona del calibro di Lyana Calvesi, fenomenale eterna ragazza capace di dedicare la sua vita all’atletica senza mai smettere di divertirsi. Assieme a suo marito Eddy Ottoz, campione nello sport come nella vita, mi ha ospitato a casa sua per un anno permettendomi di dedicare all’atletica tutto il tempo necessario all’ottenimento di buoni risultati, e così è stato.
Erano gli ultimi giorni di un giugno particolarmente caldo, avevo appena sostenuto le prove scritte all’esame di maturità e nella mia mente iniziava a farsi sentire la preoccupazione per l’esame orale del lunedì successivo, ma quel venerdì sera, all’Arena di Milano, ogni dubbio scomparve, lasciandomi solo con la pista. Ricordo lo sparo, il rumore dei chiodi sulla gomma bollente, il mio respiro e quello dei miei avversari. Dopo quegli ottocento metri che mi videro qualificato per la finale dell’indomani iniziai a credere che nello sport si possa vincere divertendosi, perché in quei due giri di pista, io avevo giocato con i miei avversari e i mesi precedenti di allenamento, le fatiche ed il freddo invernale sembravano ricordi di altri tempi. La finale non mi vide tra i protagonisti, ma che importa, io la mia impresa l’avevo già fatta, ero entrato a far parte degli uomini da temere, i finalisti nazionali.
Al momento della scelta post-diploma il mio cuore mi ha guidato verso la Scuola universitaria interfacoltà in scienze motorie di Torino. Unendo il mio percorso formativo alla mia passione, ho imparato con entusiasmo l’anatomia e la fisiologia umana, i metodi di allenamento e le modificazioni che avvengono nel nostro corpo, gli aspetti psicologici, didattici e metodologici. Durante questo triennio a Torino mi sono dedicato agli sport più diversi, ho imparato a conoscerli e ad insegnarli, mi sono confrontato con persone che hanno dedicato la loro vita allo studio dell’attività fisica. A Torino ho avuto la possibilità di allenarmi con atleti di livello superiore come Livio Sciandra, campione italiano 2003 sugli 800 m piani, e sono cresciuto con loro fino a conquistare la mia prima medaglia di bronzo nazionale, ai Campionati italiani Indor promesse sui 1 000 m piani.
Come studente in scienze motorie ho imparato a conoscere a fondo problemi come l’abbandono giovanile o il doping, ho potuto conoscere l’opinione di personaggi come Gioachino Kratter o Nunzio Nicosia, punti di riferimento nazionali nell’ambito dello sport e del fitness.
Fare movimento fa bene al corpo e alla mente, questo è ovvio, quello che è meno ovvio ma altrettanto importante è che il divertimento nel fare lo sport che si ama non deve mai mancare altrimenti si corre il rischio di finire in una spirale di professionismo che esalta i risultati ma distrugge le persone.
Io come altri posso studiare lo sport, altre persone ne possono parlare, ma viverlo sulla propria pelle è l’emozione più grande. Ci si confronta con gli altri, si prova gioia, si soffre, ma si esce comunque vincenti perché nello sport più puro la vittoria sta nell’aver dato tutto nell’avvincente e spietata gara che è la vita.

Jean Paul Chadel

Deux heures interminables

Quand je pense aux leçons d’éducation physique au collège, ce ne sont jamais de beaux souvenirs : chaque semaine, pendant trois années, pour moi l’école devenait un véritable enfer.
Contrairement à mes copains, qui semblaient fréquenter l’école seulement pour les leçons de gym, moi je détestais ces deux heures interminables.
En particulier, je détestais les moments dans le vestiaire : pour moi c’était très gênant de me déshabiller en face de mes copines, qui pour la plupart exhibaient des corps (presque) parfaits.
Pour moi, qui étais (et je le suis encore) complexée, ces brefs instants étaient vraiment terribles.
Ensuite arrivait, comme toutes les fois, la leçon, la troublante leçon : le professeur exigeait toujours le maximum de chacun de nous, et pour moi, qui n’aime pas particulièrement l’activité physique, c’était difficile d’obtenir de bons résultats.
Et en voyant mes copains, très athlétiques, faire les exercices sans aucun problème, je me démoralisais.
Pas toutes les personnes aiment le sport, mais peut-être le professeur ne l’a jamais pensé : comme ça il nous obligeait à faire des exercices très complexes, des gymkhanas, vingt minutes de course, et ça n’était pas correct à mon avis.
Mais cette année, en changeant d’école, parce que je suis finalement arrivée au lycée, j’ai changé d’opinion : les leçons d’éducation physique ne sont pas si terribles que ça.
Peut-être c’est grâce au nouveau prof que j’ai commencé à aimer ces deux heures, parce que dans ma vie quotidienne je continue à ne pas aimer beaucoup le sport, sauf le snowboard : le prof nous propose des jeux amusants, des exercices intéressants, et elle ne nous oblige pas à les faire, mais généralement on les fait car nous avons tous envie de nous détendre pour éliminer tout notre stress.
Les moments dans le vestiaire sont toujours un problème, mais au moins je n’arrive pas la veille du cours de gym à inventer des excuses (comme le mal au ventre, le rhume…) pour ne pas faire de sport le lendemain.
Au collège je n’étais pas la seule à ne pas aimer du tout cette leçon, bien sûr, mais je crois que moi je la détestais plus que les autres, parce que j’avais un rapport conflictuel avec mon corps et je ne voulais pas courir, sauter et faire un tas d’autres choses devant mes copains, toujours prêts à se moquer de moi.
Donc, les leçons de gym ne sont pas pour tous des moments amusants, gais ; bien au contraire : au collège je n’ai jamais rien détesté autant de la vie scolaire que les cours d’éducation physique.

Arlène Lucianaz

Jamais sans mes skis

Le ski a commencé à faire partie de ma vie dès mon plus jeune âge : à deux ans, j’ai chaussé mes premiers petits skis ! Mon père est un moniteur, c’est donc lui qui m’a permis de connaître le “ roi des sports d’hiver ”, qui est ensuite devenu pour moi une véritable passion, si bien qu’aujourd’hui je n’arriverais pas à concevoir mon existence sans lui.
Skier signifie pratiquer un sport que j’aime, en plein air, dans un cadre splendide et sain, en compagnie d’un groupe de jeunes qui partagent avec moi une vie active et la passion pour la pratique sportive.
Ce sont des garçons et des filles avec lesquels j’ai vraiment passé beaucoup de temps, avec lesquels j’ai partagé la joie des victoires et la déception des défaites, avec lesquels j’ai appris à vivre, avec lesquels j’ai grandi.
Mais, bien sûr, le ski n’est qu’une partie, même si elle est importante, du “ tout ” qui m’entoure. L’école occupe, en effet, une part bien significative dans la vie des jeunes. En outre, je suis très ambitieuse, je prétends avoir de bonnes notes, donc je m’applique beaucoup… souvent le fait de concilier sport et étude n’a pas été facile. Les sacrifices sont nombreux et pas seulement de ma part, ma famille m’a suivie et m’a toujours soutenue. Skier à un haut niveau signifie aussi faire des compétitions presque tous les dimanches, à partir de décembre jusqu’au mois d’avril, se lever donc très tôt, s’entraîner tous les jours (sauf un jour par semaine, pour se reposer), rater de nombreux samedis d’école à cause des entraînements.
L’objectif final que j’ai atteint a été celui de passer l’examen pour devenir monitrice de ski. Malheureusement, cette année je ne vais pas pouvoir terminer la formation qui me permettrait d’enseigner.
Le bac ne me permet pas de m’absenter de l’école. Un grand nombre de professeurs ne tiennent pas compte des exigences sportives d’un élève et, en même temps, souvent les moniteurs n’acceptent pas que l’on s’absente à cause de l’école. Concilier ces deux univers est le premier pas à faire pour permettre aux élèves d’élargir leurs horizons et de multiplier leurs intérêts pour des activités situées hors de l’école, comme, par exemple, le sport.

Elena Marcoz

Dovevo scegliere

Ho iniziato da piccolo, seguito da mio zio, ex nazionale, a praticare lo sci di fondo.
Alle elementari partecipai ad alcune gare ottenendo dei discreti risultati.
In prima media, frequentavo per migliorarmi nel fondo lo sci club del mio paese, mi proposero di fare delle gare di biathlon, ed io per curiosità ed attratto dal fucile, accettai.
Eravamo in pochi a praticare questo sport, ancora poco conosciuto, e ottenni dei risultati abbastanza gratificanti.
Non abbandonai comunque lo sci di fondo. Entrai a far parte della squadra ASIVA.
Ho frequentato le scuole medie a Variney senza incontrare particolari difficoltà: i professori erano comprensivi e riuscivo comunque a conciliare i miei impegni scolastici con quelli sportivi.
I veri problemi sono iniziati in prima ragioneria, quando dovevo assentarmi per gli allenamenti con la squadra nazionale e per partecipare alle competizioni fuori Valle.
I professori ed il preside mi sollecitavano spesso a scegliere: tra la scuola e lo sport.
Io, finché ho potuto, ho cercato di recuperare, (andando anche a ripetizione) ma il primo anno non ce l’ho fatta e sono stato bocciato. Ho ripetuto, ma il problema delle assenze frequenti continuava a sussistere. Dovevo scegliere! Terminai l’anno scolastico e mi iscrissi ad una scuola privata (mi manca la maturità).
Dopo aver ottenuto dei buoni risultati sportivi in campo nazionale ed internazionale, alcuni
ex professori, incontrandomi, mi hanno detto: “L’avessimo saputo!”
Sicuramente questi complimenti mi hanno fatto piacere, ma, se avessi avuto un po’ più di comprensione da parte loro, ora avrei un titolo di studio.
A parte le tante interrogazioni al rientro da un’assenza, rimprovero alla scuola di avermi negato il permesso di rientro durante l’intervallo dopo le prime due ore di lezione mattutine con tanto di giustificazione per una visita per l’idoneità sportiva.
Sono convinto che saper insegnare sia non solo una questione di materia, ma soprattutto di buon senso. Non ci vuole molto a capirlo.

Patrick Favre


Severa con i miei figli: prima la scuola, dopo lo sport

Come insegnante mi sono trovata a dover giustificare le assenze di mio figlio Patrick, in 5° elementare, in occasione della sua partecipazione ai Giochi della gioventù di fondo.
Pensavo che quelle assenze prolungate (per motivi agonistici) venissero giustificate da qualche ente: Sci Club o ASIVA. Invece nessuno se ne fece carico, toccò alla famiglia giustificare le assenze del figlio.
Come genitore, l’ho sempre incoraggiato a non “mollare” la scuola, l’ho seguito nello studio cercando di fargli recuperare il tempo “perso” per dedicarsi alla sua attività sportiva.
Purtroppo non c’erano delle scuole strutturate in modo da permettere, a chi praticava l’agonismo, un recupero.
(In quegli anni si parlava dell’École de neige a La Thuile).
Come madre-insegnante sono stata molto severa con i miei figli (anche il secondogenito praticava biathlon), non li ho mai giustificati per non aver studiato la lezione o eseguito un compito: dovevano prendersi le loro responsabilità. Prima la scuola, dopo lo sport!
Devo dire che il secondo figlio (all’Istituto per geometri) ha avuto un’esperienza più positiva grazie alla comprensione del Preside e di quasi tutti i professori.

Lucia Venturini

Un tema che conosco

Quando, in una giornata come oggi, cominciano a scendere i primi fiocchi di neve, ho sempre due immagini davanti: la prima di gioia per un elemento naturale che fa parte della mia vita, la seconda di un certo disagio perché per la mia famiglia comincia il tempo più duro, quello, cioè, in cui cerchiamo di conciliare sport e scuola.
Sì, perché ho quattro figli, i due più grandi sono già maestri di sci, i primi tre hanno fatto parte (e l’ultimo è tuttora in squadra) dell’ASIVA. Ed è chiaro che tutti sono andati e vanno a scuola.
A differenza degli altri sport agonistici, quelli da neve implicano, infatti, un’attività svolta di giorno, in alta montagna, sono molto impegnativi dal punto di vista fisico e mentale.
La scuola, invece, ha altre regole, prevede una frequenza, i professori faticano ad accettare lunghe assenze e quindi vuoti da colmare, compiti ed interrogazioni da recuperare.
E questo è ovvio.
Quando Jacques (il mio primo figlio) era in nazionale, era assente da scuola da dicembre fino a Pasqua; e quando dico assente voglio dire che proprio non andava mai a scuola in quel periodo (se non ogni tanto per salutare i compagni e per vedere se il suo banco era ancora lì), e ha fatto, senza perdere un anno, il liceo classico!
La difficoltà, quindi, di conciliare i rapporti tra scuola e sport, è entrata nella mia vita in modo importante.
Poi, entrato a far parte della dirigenza dell’ASIVA, ho ancora approfondito tale tema.
Devo dire che ho dei problemi ad accettare l’idea di un super istituto-convitto solo per atleti: a parte i costi, che oggi non sarebbero sostenibili per nessuno (e non si può certo pensare che le famiglie degli atleti se ne facciano carico!), l’idea di avere un figlio che passa l’inverno in giro per l’Europa e gli altri mesi in una scuola per soli sportivi, lontano dai suoi e dagli amici più cari mi pone dei dubbi dal punto di vista educativo (che è compito della famiglia!).
Anche l’indirizzo scolastico non può essere, in tali scuole, completo e questo può penalizzare alcune caratteristiche del giovane che non sempre vuole indirizzarsi ad attività alberghiero-turistiche o linguistiche.
Così, con gli amici dell’ASIVA, abbiamo cominciato a lavorare secondo un altro indirizzo, cioè sulla possibilità di mantenere lo studente-atleta nel suo ambito scolastico (compagni, famiglia, indirizzo scolastico) con un sistema di tutoraggio, di affiancamento in itinere da parte di insegnanti sensibili e riconosciuti che accompagnano gli studenti nei loro studi e li aiutano a capire le eventuali difficoltà e a superarle.
L’amministrazione regionale punta cioè, non solo sulla buona volontà, già spesso utilizzata, degli insegnanti, ma su un’identificazione e incentivazione degli stessi all’interno dell’istituto in cui operano seguendo gli sciatori agonisti.
Questo attraverso un coordinamento delle esperienze dei ragazzi con quelle degli insegnanti, con il mantenimento di rapporti epistolari e anche informatici (computer portatili dati in uso agli atleti) e con corsi di recupero personalizzati da effettuarsi al termine dell’attività agonistica.
I costi per l’amministrazione sono molto più bassi rispetto alla gestione di una “école de neige”.
Ora, questo progetto di tutoraggio è ormai attivo da due anni, dovrà essere perfezionato ma comunque è una grande risorsa.
L’assessorato all’Istruzione ha aumentato i finanziamenti a ciò destinati per quest’anno scolastico e collabora strettamente con l’ASIVA.
Per chi abita lontano dalle sedi scolastiche, il convitto di Aosta è idoneo e il suo direttore è disponibile a seguire questi atleti.
È quindi una grande possibilità per conciliare sci e scuola in Valle, forse la migliore soluzione nella nostra realtà.
Certo, lo studente sciatore dovrà essere serio, impegnarsi più degli altri, ma a questo è già educato dalla pratica di uno sport molto selettivo, anche se si svolge nel più bel teatro del mondo.

Antonio Fosson

Tre figli studenti e sportivi

I miei tre figli sono studenti e sportivi praticanti; io sono dirigente di una società sportiva dilettantistica: sono quindi doppiamente interessato ai problemi generati dalla “convivenza” tra scuola e sport.
La mia esperienza mi porta ad affermare che la scuola non ama lo sport.
Infatti fa pochissimo per promuoverlo, dedica due ore settimanali alla cosiddetta “Educazione fisica”, che non è sport ma movimento e non perde l'occasione per considerare la pratica sportiva seria come una distrazione dall'unico ed alto compito degli adolescenti: studiare.
E la scuola non ama di conseguenza neppure la pratica sportiva e tanto meno la sostiene o incoraggia; la Scuola come istituzione non promuove la partecipazione dei propri alunni alle attività sportive (non mi riferisco, beninteso, a quei benemeriti e sottovalutati insegnanti di Educazione fisica che organizzano gruppi sportivi scolastici, promuovono la partecipazione dei ragazzi alle manifestazioni sportive e si prodigano nella ricerca di giovani volenterosi da avviare alla pratica sportiva); il Preside si interessa allo sport quando la squadra della propria scuola vince i campionati studenteschi e non sa dove mettere la coppa che gli hanno consegnato.
Nonostante il boicottaggio più o meno mascherato, però, l'attività sportiva degli adolescenti è in buona salute: molte società sportive, di tutte le discipline, si contendono i giovani, tentando, anche con attività di promozione nelle scuole elementari, di coinvolgerli e di avviarli alla pratica della propria disciplina (e qui, occorre riconoscere che i dirigenti scolastici e la scuola collaborano).
Ma scuola e società sportive hanno, o possono trovare obiettivi comuni? Il progetto formativo della scuola è antitetico rispetto a quello dello sport (perché anche questo ha, secondo me, dignità di progetto formativo)?
Io credo che le due azioni siano complementari: la scuola e lo sport sostengono gli stessi valori: il risultato si ottiene con la preparazione, l'applicazione, l'esercizio; le regole del gioco devono essere condivise ed osservate, il rispetto dell'altro è sacro (vincente o perdente), la solidarietà (soprattutto negli sport di squadra) deve essere di guida alle attività.
Alle società sportive ed agli allenatori (che non mi pare blasfemo chiamare “educatori” mancano, forse, le competenze accademiche di psicologia e di pedagogia ma, negli anni di pratica sui campi e nelle palestre, si sono costruiti un bagaglio di esperienze educative che non possono che tornare utili al comune lavoro di costruzione di individui equilibrati.
Certo, da genitore ho posto ai miei ragazzi una scala di priorità nella quale la scuola e lo studio stanno al primo posto; ma da dirigente sportivo mi sono più volte battuto con quei genitori che, per stimolare il proprio figlio ad ottenere migliori risultati scolastici gli vietano la pratica sportiva: se ben calibrate sulle potenzialità di ciascuno, le due attività convivono benissimo ed anzi, spesso un buon atleta è anche un bravo studente (e viceversa).
Senza fantasticare, sognando anche da noi le Università anglosassoni che si contendono i migliori sportivi, credo però che una seria riflessione sulla complementarità studio - pratica sportiva sia necessaria da parte di chi costruisce il percorso formativo dei nostri ragazzi.

Mario Vietti

Un virus in famiglia

La nonna dei miei figli, Laurent, Patrick e Pilar, è Gabre Gabric. Nata a Zara e cresciuta a Chicago, rientrata in Dalmazia a 15 anni, come molti giovani dalmati si divideva tra nuoto e canottaggio, ma fu nell'atletica che si mise subito in luce nelle gare federali cui la Società Ginnastica Zara partecipava in Ancona. A soli 19 anni, nell'incontro Italia-Svizzera a Piacenza il 7 giugno 1936, Gabre stabilì il suo primo record italiano, lanciando il disco a 36 metri e 57 cm, strappando il primato proprio ad una valdostana, Vittorina Vivenza, che lo deteneva fin dal 1929 con 35,38. Gabre dal '36 al '39 lo migliorerà ben otto volte, e solo nel 1947 la torinese Edera Gentile la batterà di 19 cm. Gabre ha partecipato a due olimpiadi, Berlino 1936, dove fu decima in finale, e Londra 1948. Gareggia ancora: nel 2004, ad 87 anni, ha vinto tre medaglie d'oro ai campionati nazionali master (getto del peso, lancio del disco e del giavellotto), stabilendo tre nuovi primati di categoria.
Mio padre, Alessandro Calvesi, suo marito, non fu da meno. Era un buon ostacolista, ma fu soprattutto il più grande allenatore che il nostro paese abbia avuto. Riuscì, unico al mondo, a portare ben cinque ostacolisti nella stessa finale olimpica. Accadde a Tokyo nel 1964 e uno dei cinque era un ventenne valdostano, Eddy Ottoz, che si classificò quarto.
Eddy per potersi allenare si era trasferito, dividendosi tra Formia, dove l'inverno non esiste, e Brescia, dove poteva allenarsi sotto la guida di mio padre. In sei intense stagioni, dal 1964 al 1969, ottenne 19 volte il primato italiano dei 110 ostacoli (hs) una medaglia di bronzo nei Giochi di Città del Messico, due ori nelle Universiadi del 1965 e 1967, due negli europei del 1966 e 1969, quattro negli europei indoor.
Lo sposai nel 1969 e iniziò così un sodalizio nella vita e nello sport, che dura tuttora.
Infine, la terza generazione: i nostri tre figli. Laurent, il più noto, ha stabilito i primati italiani su tutte le distanze ad ostacoli (60 m indoor, 110, 200, 300 e 400), ed è ancora primatista mondiale dei 200 hs. Patrick ha partecipato ai mondiali di Göteborg nel 1995 e ai mondiali universitari in Giappone. Pilar ha purtroppo abbandonato l'atletica a 17 anni per problemi ad un ginocchio, dopo esser stata una speranza degli ostacoli da giovanissima e aver saltato 1,78 m in alto a 15 anni.
In tre generazioni nipoti, papà e nonna hanno partecipato a cinque olimpiadi (Laurent a Barcellona nel 1992 e Atlanta nel 1996, Eddy a Tokyo nel 1964 e Città del Messico nel 1968, Gabre a Berlino nel 1936 e a Londra nel 1948). Una curiosità: nello stesso stadio, l'Olympiastadion di Berlino, nel 1936 la nonna si classificò decima ai Giochi, il padre fece il suo primo record italiano il 30 luglio 1964, e il nipote, a trent'anni esatti, il 30 luglio 1994, stabilì il suo primo record nazionale (13”42 nei 100 hs) strappandolo al papà, che ancora lo deteneva...
Coincidenza o destino?
Difficile dirlo. Ritengo che la nostra sia una famiglia sicuramente “speciale” e in un certo senso fuori dal comune e quindi “eccezionale” perché tutti noi abbiamo scelto lo sport e lo viviamo ogni istante con forte passione. Siamo stati educati attraverso lo sport ed abbiamo educato i figli con lo sport perché lo sport è salutare e formativo.
I principi della convivenza e del rispetto delle regole si imparano tanto sul campo sportivo quanto nella vita di ogni giorno. Se impariamo a rispettare l’avversario impareremo a rispettare noi stessi.
Insegnare a giocare e a divertirsi attraverso lo sport ed insegnare lo sport attraverso il gioco e il divertimento sono i nostri fondamenti.
I giovani devono provare sia a vincere sia a perdere.
Devono essere felici con chi vince. Un sano spirito agonistico è finalizzato al miglioramento di se stessi. Vincere con i deboli non fa crescere, aiutarli sì. Perdere con i forti sprona al miglioramento.
Nell’Atletica c’è posto per tutti.
Il bimbo più gracile può individuare una specialità dove riuscire, così come pure il bimbo che è in sovrappeso uno sport in cui ritrovarsi. Dai 6 agli 11 anni, è bene imparare a correre, lanciare, saltare unicamente attraverso il gioco, mentre dai 12 ai 14 anni, è opportuno acquisire le prime nozioni tecniche, evitando così ogni specializzazione precoce, come recita anche lo statuto della società: “La società ha per finalità lo sviluppo, la diffusione, la coordinazione e la promozione dell'Atletica Leggera in tutte le sue varie componenti formative, educative, didattiche, scientifiche e le attività ad esse connesse, con il fine principale del raggiungimento del massimo livello agonistico. L'Associazione s’ispira ai principi etici di una corretta pratica sportiva e rifiuta e combatte il ricorso alla pratica del doping. Essa svolgerà anche tutte quelle attività culturali, ricreative e financo turistiche, che permetteranno ai giovani e agli adulti di aggregarsi e di crescere in armonia e rispetto reciproco.”
Dire proprio che Sport e scuola sono conciliabili. La percentuale dei ragazzi che va bene a scuola, all’interno della società CALVESI, è altissima. Solo il 2% ha qualche problema legato allo studio.
Ritengo sia importante dare sempre la precedenza agli impegni scolastici, ma mi piacerebbe ci fosse più attenzione agli impegni sportivi scolastici ed extrascolastici (perché fissare compiti in classe ed interrogazioni in concomitanza di gare scolastiche regionali e nazionali?). È auspicabile e necessaria più collaborazione con la scuola.
Anche la presenza dei genitori è importantissima. Ci sono ragazzi che da dieci anni frequentano il campo e non conosciamo ancora i loro genitori: mai visti ad una gara, ad un allenamento, ad una premiazione.
Altri genitori dovrebbero, invece, fare un passo indietro poiché sono troppo presenti: pretendono di fare gli allenatori e si intromettono, talvolta di nascosto. I risultati importanti si ottengono con lavori equilibrati e graduali. Se faccio fare a tredici anni cinque o sei allenamenti alla settimana, quanti ne dovrò fare a venti anni per garantire una progressione sicura?

Lyana Calvesi

L’Atletica Valle d'Aosta Alessandro Calvesi

Nel 1966 tre appassionati sportivi di Aosta, Franco Assale, Sergio Cadin e Bernardo Burro, costituirono l'Atletica Femminile Aosta, aprendo anche alle giovani la possibilità di praticare l'atletica leggera nel capoluogo. Per anni la nuova società operò a stretto contatto con i gruppi sportivi scolastici. All'epoca i campionati studenteschi erano più sentiti ed importanti di oggi, ed era necessaria la creazione di un sodalizio in cui le giovani atlete potessero proseguire l'attività sportiva iniziata a scuola.
Non a caso la più prestigiosa atleta valdostana, Roberta Brunet, medaglia di bronzo sui 3 000 m alle Olimpiadi di Atlanta 1996, iniziò a correre alla scuola media De Tillier, seguita dalla sua bravissima insegnante Ornella Pompei, e la sua carriera sportiva si sviluppò in seguito nell'Atletica Femminile Aosta sino a quando, messasi in luce a livello nazionale, lasciò Aosta per climi più miti ed adatti al training.
Nella seconda metà degli anni '80 Bernardo Burro lasciò la presidenza della società. Gli successe Eddy Ottoz e successivamente, nel 1994, la moglie Lyana Calvesi, che la dirige tuttora. Lyana ha portato nuova linfa, competenze ed entusiasmo, ha intitolato la società alla memoria di Alessandro Calvesi, indimenticato grande allenatore ed educatore, e l'ha portata sino ad essere la maggiore società di atletica in Valle.
Oggi l'Atletica Calvesi, come viene sinteticamente chiamata da tutti, ha oltre duecentocinquanta tesserati, segue atlete ed atleti, ed ha conseguito buoni successi in campo nazionale giovanile, poiché quella della pratica sportiva come palestra per l'educazione e la formazione dei giovani è la missione della società.

 

Voce del verbo vincere

Il pullman andava e Bobo studiava. I paradigmi dei verbi greci scorrevano nervosamente davanti ai suoi occhi, mentre oltre il finestrino scivolava il tardo pomeriggio di un sabato di febbraio. Questa sera la partita, lunedì il compito. “Da uno a dieci, quanto desideri che la tua squadra vinca questa sera?” “Dieci”. “E che lunedì il compito ti vada molto, ma molto bene?” “Dieci”. “E che questa sera l'allenatore ti faccia alzare dalla panchina delle riserve e ti metta in campo, perché la squadra sta perdendo di brutto, e tu cominci a fare un punto dopo l'altro, e alla fine si vince, e tu sei l'eroe dell'incontro?” “Undici”. O forse zero, perché al solo pensiero, Bobo sente la bocca dello stomaco serrarsi, il cuore accelerare, il respiro infittirsi.
Il fatto è che sul risultato di lunedì, come su tutta quanta la vita scolastica, Bobo sente di esercitare un notevole controllo. Si tratta di tenere il culo incollato alla sedia, e la mente imbrigliata sui libri, per tutto il tempo che ci vuole. I verbi greci sono tanti, ma ad un certo punto finiscono. E così le regole di matematica, le formule di chimica. Anche negli allenamenti Bobo ci dà giù di brutto, ma non basta: più che tanto non riesce a saltare, con più forza non riesce a colpire. Limiti fisici, invalicabili, a cui si aggiunge quella voce che sempre, nei momenti decisivi, gli sussurra: “Forse sbagli...”
“Cambieresti il tuo successo negli studi con il primato nello sport?” “Stasera sì, certo! Ma lunedì...” Forse, però, gli basterebbe che l'allenatore, e i compagni, lo conoscessero anche per quel che è a scuola, rispettassero il suo impegno, accettassero che qualche volta può essere meno concentrato sull'allenamento, o anche non esserci, per motivi scolastici. Così come vorrebbe che la scuola conoscesse la sua esperienza sportiva, la considerasse, l'apprezzasse: se ai professori potesse dire, ogni tanto, che non si è preparato perché tutto il fine settimana l'ha passato in palestra e in viaggio...; e se i compagni, ogni tanto, lo venissero a vedere... e le compagne... specialmente quella...
Ma che succede? La nebbia, fuori del finestrino, è talmente fitta che sembra essere penetrata all'interno, ed aver offuscato l'aria. Una figura maestosa sta avanzando fra i sedili del pullman, più alta del più alto giocatore, più muscolosa di quello più grosso, guardata con stupore da tutti i compagni. L'apparizione si ferma proprio davanti a Bobo, si toglie la corona d'alloro che gli cingeva il capo e la pone su quello di Bobo, come per dirgli: “Il tuo impegno sarà premiato anche nello sport. Sarai più alto e più forte degli altri. Tutti lo riconosceranno, e i giornali parleranno di te come di un vincitore di Olimpia”. Poi gli mette una mano sulla spalla, gliela stringe, come per dirgli “Sono con te”, e dolcemente lo scuote: “Bobo! Bobo! Svegliati, siamo arrivati.”

Roberto Arbaney

Cicatrici sulle ginocchia

Alzi la mano chi tra voi non ha una cicatrice sulle ginocchia. Ricordo di infanzia, probabilmente non sarà l’unica, ma se provate a rammentare come ve la siete procurata allora tutto diventa più difficile. È successo giocando a nascondino? A rubabandiera? Probabilmente semplicemente rotolando nei prati: cicatrici e lividi ovunque.
Sono ormai diversi anni che mi aggiro tra i banchi della scuola valdostana, anzi tra le palestre.
Ho avuto la fortuna di iniziare quando potevamo lavorare con un collega. Uscita dall’ISEF dove cercavo di adeguarmi ai colpi di tamburello e le punte tese (non era facile arrivando dallo sci) ho iniziato a proporre ai miei alunni le capovolte, i volteggi al cavallo frammezzo, teso, ribaltato, pertiche, quadro svedese e tanto ancora.
Eccoli pronti per poter “partire per primi” e dopo un rimbalzo sulla pedana eseguire un “salto mortale” o un ribaltato.
Se si diceva loro di flettere il capo in avanti lo facevano.
Adesso? Adesso no. Per lo stesso esercizio sono in riga sul fondo della palestra e si guardano spaventati. “Non vado prima io, mi ammazzo!”.
Sembrano schierati davanti ad un plotone di esecuzione. “Avanti” cerco di incoraggiarli, “tutti devono provare!” “io non riesco!”: certo ha provato una volta e nell’era del consumismo una volta è troppo.
Come, scherzando, dico loro: nello “sport dei diti”, la play station, sono bravissimi ma non sanno più fare un salto a piedi pari.
Cominciano anche a chiedermi “posso andare a bagnarmi? ho preso una botta” “va bene”… ma siamo a Villeneuve, non a Lourdes, è possibile che una bottarella spaventi così tanto?
Intanto la segreteria mi chiama per firmare la denuncia di infortunio.
Leggo il responso del pronto soccorso: “leggera ecchimosi dolorante al tatto” uhm…? Livido? Oggi si va in pronto soccorso per un livido?
Eppure queste mamme premurose, dopo la prima lezione al quadro svedese, inventano diagnosi di “vertigini” così “quella pazza” non fa salire mia figlia su quell’attrezzo posta a 8 000 m da terra.
Calcolo l’altezza dei materassi rispetto ai piedi: 1 m.
Ok basta quadro svedese, basta pertiche (tanto non sale più nessuno!), basta “salti mortali” (leggi capovolte senza mani con la pedana). Basta!
Obiettivi minimi: saper mettere durante la deambulazione un piede dopo l’altro.
Scusate l’ironia, ma dove sono finiti gli schemi motori di base? Dov’è il cortile? Per favore ridate la libertà alla motricità, ridate ai ragazzi la “settimana”, i “10 fratelli”, le capriole e la corsa nei prati.
Forse non avranno un perfetto stile libero in acqua, forse non eseguiranno il terzo tempo a pallacanestro ma riconosceranno la destra dalla sinistra e sapranno scrivere seguendo la riga sul quaderno; ritroveranno il gusto dell’arrampicarsi su un albero.
Vi fa paura che lo faccia vostro figlio?
Personalmente mi terrorizza l’arrendevolezza dei loro occhi di fronte alla nuova esperienza.
Giulia piange e io insisto, insisto ancora, non deve diventare Yuri Chechi, vorrei solo che prendesse coscienza che può, può fare, può provare, dovrà affrontare tante difficoltà nella vita e deve trovare la fiducia in se stessa.
No, non è in crisi l’educazione fisica. In crisi è la forza di volontà, la sfida con se stessi, il desiderio dell’esperienza.
Oggi cedo alla richiesta: “prof, possiamo giocare a calcio?”.
Fine anni 80 voleva dire non occuparsi più dei ragazzi; in un attimo squadre fatte, maglie buttate a terra a segnare le porte: GIOCO! È passato un quarto d’ora e il capitano ancora non c’è, le porte non sono regolamentari e il pallone non è abbastanza rotondo.
Suona la campanella, ora di matematica, “passo la palla” al collega. No comment!

Elena Barmasse

couriel