“Ancora oggi a parlare di tubercolosi, se ne sta parlando da decenni, è mai possibile che non si riesca ad eliminare una volta per tutte!” E’ una frase ancora ricorrente anche nella nostra realtà che purtroppo nasconde diverse verità.
Si parla di questa malattia perché ancora oggi nel mondo, nella Comunità Europea, in Italia e in Valle d’Aosta la
tubercolosi bovina una presenza molto reale. “Mal comune mezzo gaudio!” potrà dire qualcuno…
Direi di no, anche perché nella nostra piccola realtà dopo una lenta discesa degli indici di prevalenza (numero di allevamenti in revoca di qualifica presenti all’interno dell’intero anno solare), arrivati sotto l’1% agli inizi del nuovo secolo, ci siamo trovati man mano a vedere questo indicatore salire sempre di più fino a giungere a quota 2,34% nell’anno 2007 e a quota 3,30% nel 2008.
Questo significa che nel 2007 avevamo quasi 30 allevamenti infetti e che nel 2008 abbiamo superato la soglia delle 40 aziende bloccate per la tubercolosi. In Italia nella classifica della prevalenza di questa malattia, riferita all’anno 2007, al di sopra di noi troviamo solo la Sicilia con un tasso superiore al 5%, tutte le altre regioni sono sotto l’1%, tra queste, diverse regioni sono a soglia zero.
Per ottenere la certificazione comunitaria di territorio ufficialmente indenne per tubercolosi bisogna arrivare ad avere solo lo 0,1% annuale di presenza di questa patologia e mantenere questa soglia per sei anni consecutivi.
In Italia sono già diverse le regioni ad avere ottenuto o in procinto di ottenere questo traguardo. Per la nostra regione tutto questo si traduce nell’avere non più di un allevamento all’anno revocato di tubercolosi.
I “decenni” citati nella frase di apertura ci fanno capire che ci troviamo di fronte ad una malattia complessa, sostenuta da un germe molto subdolo, difficile da evidenziare e debellare in modo efficace e duraturo.
L’analisi dei dati su base decennale, non solo della nostra regione, evidenzia infatti che la curva della malattia ha un aspetto cosiddetto a “dente di sega”: scende per qualche anno poi improvvisamente si rialza, per poi ridiscendere pian piano e rialzarsi con cicli generalmente di circa cinque-sei anni.
Non siamo di fronte ad un germe come quello della brucellosi, per fare un esempio, che una volta attecchito sull’animale dà origine quasi subito ad una sintomatologia conclamata, come l’aborto o un calo delle produzioni zootecniche, e che viene passato da un animale all’altro in modo rapido, coinvolgendo in poco tempo quasi tutto l’allevamento.
Ci troviamo di fronte ad un germe, il
Micobacterium Bovis (M. Bovis), che anche fuori dal suo ospite abituale, il bovino, resiste molto bene e per parecchio tempo nell’ambiente. Si
trasmette generalmente per contatto per via respiratoria (inalando il batterio) o per
via digerente (mangiando il germe, ad esempio attraverso il latte).
Una volta penetrato nell’ospite generalmente produce all’inizio dell’infezione il cosiddetto
Complesso Primario (CP), un piccolo tubercolo che tende ad ingrossarsi con l’andare del tempo, contenente il germe e quindi già potenzialmente infettivo se, per esempio, contenuto nel polmone o nella mammella.
L’aggravamento della malattia porta a forme più diffuse (Complesso Post Primario e Generalizzazioni), che molte volte però non risultano evidenti come sintomatologia e non fanno minimamente pensare che l’animale possa albergare una forma di tubercolosi diffusa che può, in questo caso, anche colpire più organi.
In questi ultimi casi l’animale risulta essere altamente infettivo, sia verso gli altri animali che condividono la stalla, i pascoli o l’alpeggio, ma anche per l’uomo che risulta purtroppo essere sensibile a questo germe.
La tubercolosi infatti rientra in un cosiddetto “piano di eradicazione”, come anche la brucellosi, perché risulta essere una zoonosi, cioè malattia che si trasmette dall’animale all’uomo e viceversa, essendo il fine ultimo di questi programmi proprio la prevenzione della salute dell’uomo.
La storia di ogni animale che si è infettato con questo germe risulta essere un qualcosa di strettamente individuale. Infatti la possibilità di trasmettere la patologia a chi ha contatti con il soggetto ammalato dipende da una serie di fattori multipli che vanno dallo stato interno del suo sistema immunitario, al quale concorrono parallelamente le condizioni di benessere e di stress individuale, alla possibilità di movimento del soggetto e quindi dai vari contatti esterni che si possono generare nelle diverse situazioni zootecniche di promiscuità favorenti il contatto tra vari animali (cambi di proprietà, affide, svernamenti, alpeggi).
La diagnosi di questa malattia, prevista dal piano di eradicazione, si basa su due pilastri: le prove sull’animale vivo e le indagini al macello.
PROVE SULL’ANIMALE VIVO
In primo luogo bisogna subito premettere che ad oggi non esiste un test diagnostico che possa dare un risultato sicuro al 100%, per nessuna malattia, né in medicina veterinaria né in medicina umana! Chiaramente un test risulta affidabile quanto più si avvicina alla soglia del 100% di soggetti che trovati positivi risultano effettivamente essere affetti dalla malattia ricercata.
Sull’animale vivo la prova ufficiale di elezione risulta essere la
intradermoreazione con la tubercolina PPD (IDT), a tale test è possibile associare da alcuni anni il
gamma interferon test (g-int).
L’uso di effettuare queste due prove congiunte, non come screening di massa ma solo in casi particolari, che ha fatto tanto discutere in questi ultimi due anni di risanamento, è stato scelto semplicemente perché le due prove eseguite insieme, eseguite all’interno di un territorio in cui la tubercolosi risulta presente, permettevano di alzare la soglia di predittività dei test in vita facendoci avvicinare di molto al famoso tetto del 100% di soggetti positivi risultati effettivamente ammalati.
Infatti la soglia massima teorica di sensibilità definita dal laboratorio ufficiale che esegue il test, l’IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (IZS PLVA), risulta essere quasi del 97%, al di sopra di queste cifre, già molto alte di per sé, per ora non si può proprio andare!
Riguardo al
g-int in particolare, tutto questo vuol dire che in riferimento ad ogni singolo allevamento in cui si è eseguito il test e non sul totale degli esami effettuati durante la campagna come erroneamente è stato detto, su 100 animali è possibile statisticamente trovare 3-4 animali positivi al test che possono non essere confermati come realmente infetti.
Il verbo usato è “possono” perché molto dipende dalla scelta di quando andare ad effettuare l’intervento usando questo tipo di test congiunto. Più è alto il sospetto che la malattia possa effettivamente esserci in un allevamento, meno il test tende per così dire a sbagliare, anche se effettivamente, per quanto riguarda la nostra passata esperienza, nel caso di uso per così dire “alla cieca” del test, cioè senza sospetti fondati di correlazioni epidemiologiche, ha dimostrato, dati alla mano, un’alta affidabilità.
Ricordo infatti che nella passata stagione è stato eseguito il test congiunto (IDT e g-int) su tutti gli allevamenti Ufficialmente Indenni di TBC che svernavano fuori valle e solo in pochissimi allevamenti si sono trovate delle singole positività in vita al g-int, risultate poi negative agli esami post mortem, facendo arrivare in questo caso la soglia teorica di sensibilità del test a oltre il 99%. Il g-int ha inoltre la particolarità di poter svelare molto prima della IDT le infezioni precoci, addirittura in un recente studio inglese del Dr. Glyn Hewinson (Departemente for Statutory and Exotic Bacterial Disease Veterinary Laboratories Agency, Addlestone, United Kindom) discusso nel convegno sulle metodiche diagnostiche della tubercolosi “Tb present trends, diagnostic advances and perspective in the European Animal Health Agenda”, svoltosi a Torino nel giugno di questo anno, si evidenziava che la maggior precocità della diagnosi del g-int rispetto alla IDT poteva raggiungere anche l’anno di tempo!
Questo particolare aspetto risulta molto utile per tenere sotto stretto controllo la malattia e il suo diffondersi sul territorio, visto l’alto grado di movimentazioni che la nostra zootecnia presenta.
Molto meglio svelare subito l’infezione sul nascere che scoprirla dopo qualche anno, con tutti i danni che la malattia può avere fatto progredendo in allevamento senza dare adito a positività alle prove in vita.
Questo non perché il Veterinario Ufficiale non stia facendo correttamente il proprio lavoro ma perché la IDT da sola, non sempre riesce a svelare l’infezione, sia in fase precoce che, come è risaputo, anche in fase avanzata di malattia, quando ormai la bovina risulta essere nella cosiddetta fase “anergica”, cioè non in grado di rispondere adeguatamente allo stimolo della tubercolina.
Nello studio sulle aziende revocate per TBC nelle ultime due campagne di risanamento abbiamo potuto dimostrare che il test del g-int è stato due volte migliore rispetto alla IDT nel trovare soggetti positivi in vita, poi confermati agli esami post mortem al macello.
Inoltre il test della IDT, che si basa su un tipo particolare di reazione allergica, risulta anche essere per così dire “disturbato”, rispetto al g-int, da diversi fattori quali ad esempio il contatto del bovino con altri germi appartenenti al genere
Micobacterium come ad esempio il
Micobacterium Avium, presente generalmente nei volatili e i cosiddetti Micobatteri aspecifici che si trovano generalmente nel terreno.
In questi casi il test della IDT può dare delle risposte dubbie o positive perché risulta essere influenzato da questi micobatteri che creano le cosiddette reazioni di tipo aspecifico.
Risulta importante quindi per l’allevatore, alfine di evitare questo genere di reazioni, evitare il più possibile il contatto dei bovini con i volatili, soprattutto domestici (quindi ricordarsi: niente polli o galline in stalla!), e fare in modo di tenere sotto controllo lo stato delle infestazioni parassitarie nella sua mandria che, come è noto soprattutto per la
distomatosi e la
dicroceliosi diffusamente presenti nella nostra regione, possono concorrere a veicolare all’interno dell’organismo i micobatteri aspecifici e rendere reattivo il bovino, provocando così delle false positività alla IDT.
A questo proposito è stato intrapreso dalla nostra SC di Sanità Animale uno programma di lavoro assieme all’Università Veterinaria di Torino per lo studio della distomatosi e dicroceliosi in Valle d’Aosta per arrivare a definire delle strategie di lotta ottimali da applicare alla nostra realtà zootecnica, utili sia a preservare le produzioni animali sia a contrastare il fenomeno sopra descritto.
INDAGINI AL MACELLO
Il macello risulta essere un punto cardine per il controllo di questa malattia sia nello svelare eventuali infezioni latenti in bovini macellati regolarmente, sia nell’approfondimento della diagnosi di bovini risultati positivi alle prove in vita.
Le metodiche usate si basano sulla visita macroscopica eseguita dal Veterinario Ispettore e in caso di sospetto o ritrovamento di una lesione dell’invio successivo al laboratorio ufficiale di analisi (IZS PLVA) di una serie di campionamenti mirati per l’esecuzione di ulteriori test (istologico, PCR e esame colturale).
Nel caso di invio al laboratorio la chiusura dell’intero iter diagnostico viene fatta non prima di 60 giorni. Questo fatto è dovuto alla particolarità dei micobatteri, compreso il
M. Bovis, che impiegano molto tempo a svilupparsi nei terreni di coltura solida usati nei protocolli diagnostici dei laboratori di Torino. L’esame di riferimento, il cosiddetto “golden standard”, secondo il Centro di Referenza della Tubercolosi di Brescia risulta essere l’esame colturale. Quindi in presenza di positività al
M.Bovis a questo esame viene confermata ufficialmente la presenza dell’infezione in azienda.
DATI SULLE ULTIME CAMPAGNE SANITARIE
Per quanto riguarda i dati sui capi possiamo evidenziare, aiutandoci col grafico sotto riportato, che i bovini coinvolti nelle operazioni di bonifica sanitaria come sospetti o positivi in vita e con lesioni a macello hanno avuto una decrescita regolare fino alla penultima campagna (2007/2008), per poi risalire nel corso dell’ultima campagna.
Questa leggera impennata è stata causata in primo luogo dall’indagine dei Carabinieri del NAS di Torino svoltasi a cavallo degli anni 2008/2009 sull’intero territorio valdostano.
Il dato importante che salta all’occhio risulta essere che il numero dei capi andati al macello per problemi di tubercolosi risulta essere esiguo rispetto all’intero patrimonio bovino valdostano e comunque sempre giustificabile dal punto di vista sanitario.
Non sembra invece che tale numero possa in qualche modo giustificare presunte polemiche o preoccupazioni di depauperamento del nostro patrimonio zootecnico visto che negli stessi anni sono stati riformati dagli allevatori valdostani più di 4700 capi, in ottemperanza al piano di controllo sull’IBR.
Per quanto riguarda l’andamento delle lesioni macroscopiche riscontrate al macello risulta evidente dal grafico precedente che esse sono in fase di netta diminuzione. Anche la gravità della tipologia di lesione risulta avere un andamento favorevole come si può osservare nel grafico sottostante. In colore giallo e rosso sono riportate le lesioni di tipo più grave (generalizzazioni e complessi post primari), in blu quelle considerate in fase più recente (complessi primari) ed in verde (NVL: No Visible Lesion) i capi risultati positivi alle prove in vita ma che non hanno avuto nella visita ispettiva un riscontro di positività a livello macroscopico. Le indagini su questi ultimi capi NVL vengono comunque approfondite con gli ulteriori esami descritti nel capitolo sulle indagini al macello e molte volte si ha avuto la conferma di infezione tramite l’isolamento del germe.
Soffermandoci ancora sul dato in verde, i cosiddetti capi NVL, occorre fare ancora delle ulteriori considerazioni, visto che l’allevatore tende a interpretare questo esito come un dato di fatto che il suo animale è stato macellato ingiustamente, perché risultato poi negativo all’ispezione al macello:
1 Dal punto di vista generale questo dato sanitario ci fa affermare che siamo sulla buona strada nel processo di controllo dell’eradicazione della tubercolosi dal nostro territorio. Questa fase potrà dirsi quasi raggiunta quando la parte verde del grafico coprirà l’intera colonna, in pratica quando avremo tutti gli animali, positivi o sospetti alle prove in vita, macellati senza il riscontro di lesioni macroscopiche.
Ma, tra questi ultimi, di sicuro per qualche anno avremo ancora qualche riscontro di positività alle indagini di laboratorio. Da queste considerazioni però si capisce che ci sarà sempre un prezzo minimo da pagare in termini di perdita di capi, affinché si possa essere sicuri che l’intero processo stia andando nella giusta direzione.
Si sottolinea comunque che questo prezzo da pagare, in termini di capi macellati, risulta essere esiguo, dati alla mano come in precedenza dimostrato, rispetto all’intero patrimonio bovino valdostano, e meno doloroso per l’allevatore soprattutto se in questa fase di eradicazione la parte politica cercherà di farsi carico di assecondare al meglio questo sforzo finale per sostenere l’imprenditore zootecnico nei danni subiti, permettendo così di giungere nel minor tempo possibile all’importante traguardo di attestazione di territorio ufficialmente indenne.
2 Dal punto di vista dei singoli allevamenti l’espressione di un dubbio diagnostico da parte del Veterinario Ufficiale non deve essere considerato un atteggiamento di tipo persecutorio nei confronti del singolo allevatore, soprattutto se l’indagine ha poi portato a stabilire che l’allevamento non è risultato essere effettivamente infetto.
Tali capi risultano di fatto entrare nel conteggio ascritto alla colonna verde, ma il beneficio del dubbio diagnostico, l’imprenditore zootecnico lo deve comprendere bene, è permesso dalla legislazione in materia proprio per la complessità della malattia e per i limiti intrinseci dei metodi diagnostici già evidenziati nei precedenti capitoli.
3 Nella colonna verde degli NVL rientrano anche quei capi di aziende in revoca di qualifica, nelle quali la presenza dell’infezione è stata accertata, e che, durante le operazioni di bonifica sanitaria, in ultima analisi non hanno evidenziato una positività alle prove di laboratorio, ma che dal punto di vista epidemiologico risultavano essere fortemente sospetti di albergare l’infezione, da qui la necessità del loro allontanamento dall’azienda.
FATTORI DI RISCHIO
Se torniamo al dato della prevalenza dell’infezione del 3,30% riferito all’anno 2008 per la nostra regione, possiamo dire che tra le cause, soggette ad uno studio particolareggiato ed approfondito, che hanno generato il diffondersi della tubercolosi nelle nostre stalle risulta esserci in primo luogo il commercio di animali, soprattutto riferito all’introduzione in azienda di nuovi acquisti.
Punto critico risultano comunque sempre essere anche tutte le condizioni di promiscuità, soprattutto riferite agli alpeggi e agli svernamenti. Sulla base di queste evidenze, risulta importante per tutta la categoria iniziare a ragionare in termini di “biosicurezza aziendale”, intesa come la capacità da parte degli allevatori di tenere sotto stretto controllo tutti i fattori che possono creare un rischio biologico alla loro azienda, cioè che permettono, se non adeguatamente contenuti, di fare penetrare in allevamento un’infezione presente sul nostro territorio.
Si ricordi che se si iniziasse effettivamente ad applicare questo principio in ognuna delle nostre aziende si verrebbe automaticamente a creare una vera e propria rete di biosicurezza estesa su tutto il nostro territorio che ci permetterebbe di controllare, in modo adeguato, non solo la tubercolosi, ma qualsiasi malattia infettiva ed infestiva!
Per quanto riguarda gli animali selvatici i dati sui controlli eseguiti dall’IZS PLVA (esami colturali e PCR) su più di 200 soggetti (camosci, caprioli e cinghiali), la maggior parte abbattuti durante il periodo della caccia, non fanno rilevare positività riferite al
M. Bovis.
E’ in corso inoltre uno studio per affinare il protocollo di comunicazione sulle malattie infettive trasmissibili all’uomo, che comprende quindi anche la tubercolosi, che coinvolge istituzionalmente il Dipartimento di Prevenzione, in particolare la SC di Sanità Animale (parte veterinaria) e la SC di Igiene e Sanità Pubblica (parte medica), alfine di controllare al meglio questo delicato aspetto della trasmissibilità della malattia, per meglio approfondire tutti gli aspetti epidemiologici in caso di focolaio accertato.
DANNI ZOOTECNICO-ECONOMICI
Nella descrizione di questo importante capitolo bisogna fare due considerazioni, una propriamente riferita alla singola unità aziendale e l’altra aperta ad un contesto più ampio quale quello dell’intero territorio regionale.
Nel momento in cui un’azienda in produzione viene a perdere la qualifica sanitaria di “allevamento ufficialmente indenne da tubercolosi“, i danni economici che ne derivano possono essere sinteticamente riassunti nei seguenti punti:
• obbligo di abbattere i capi risultati positivi;
• impossibilità di commercializzare ad un prezzo adeguato il latte prodotto, dovuto in particolare agli obblighi sulla termizzazione imposti dalla legislazione vigente;
• impossibilità alla libera commercializzazione del proprio bestiame, se non per l’uso esclusivo della macellazione;
• limiti di movimentazione del bestiame (pascolo, svernamento, alpeggio).
E’ evidente che più l’allevamento colpito è avanzato a livello zootecnico e più elevati sono i danni derivanti dalle limitazioni di cui sopra, ciò in considerazione delle elevate produzioni, del livello genetico dei capi allevati, uniti ad un’inevitabile caduta di immagine.
Resta comunque il fatto che il danno permane elevato per qualsiasi tipo di allevamento in quanto le limitazioni, conseguenti ad un episodio di infezione, vanno ad incidere su aspetti strutturali e gestionali dell’economia dell’azienda stessa, qualsiasi sia la sua tipologia produttiva.
Come abbiamo visto nel capitolo sui rischi, l’insieme di più aziende in un territorio formano una rete che viene sempre di più considerata dal legislatore comunitario come base per il controllo delle malattie in generale.
Quando un territorio ha raggiunto gli obbiettivi di accreditamento su una determinata malattia scattano automaticamente, per quel determinato contesto geografico, delle agevolazioni sulla libera circolazione dei prodotti, che si riflettono sul commercio e quindi sul portafoglio degli imprenditori zootecnici che ne fanno parte.
Sappiamo che l’accreditamento è un riconoscimento che viene attribuito agli allevamenti, alle Regioni ed al Territorio Nazionale. In particolare gli allevamenti sono accreditati da parte della A.S.L., invece le Regioni ed il territorio nazionale da parte della Comunità Europea attraverso specifiche decisioni della Commissione Europea.
La politica comunitaria sulla salute animale per i prossimi anni sarà sempre di più improntata sul cercare di far progredire all’unisono lo standard sanitario di una zona o di un territorio, per raggiungere, “tutti insieme” e “nel minor tempo possibile”, non solo lo status di singolo “Allevamento Ufficialmente Indenne” ma anche lo status ampliato di “Territorio Ufficialmente Indenne”.
Si capisce benissimo che in una rete territoriale di questo genere bastano pochi allevamenti che non si curano di lavorare per questo obiettivo comune, per mandare all’aria il lavoro serio di tutti.
Le conseguenze di non saper arrivare in tempo utile a raggiungere questo obbiettivo potrebbero essere veramente molto pesanti in termini economici. In termini pratici potremo vederci calare dall’alto barriere all’export di prodotti come la nostra Fontina o la nostra carne, fino all’impossibilità di commercializzazione dei nostri animali vivi, si parla in questo caso di “regionalizzazione”.
Come unico sbocco possibile ci rimarrebbe solo il nostro mercato interno regionale, che non potrebbe chiaramente sostenere l’intero consumo dei prodotti oggi commercializzati dall’intero settore.
Al contrario l’accreditamento di un determinato territorio permette agli allevatori dello stesso di avvalersi di tale qualifica per valorizzare i loro prodotti. I prodotti di origine animale di un territorio, di una Regione, ad esempio accreditata per TBC, potrebbero suscitare l’interesse di altri Stati membri che già dovessero aver raggiunto l’obbiettivo dell’accreditamento su base nazionale, favorendo così lo scambio di essi.
Ricordiamoci che già ora effettuiamo esportazioni in Stati Uniti, Russia, Cina e Giappone e che per ora viene richiesto, per esempio per la TBC, solamente lo stato sanitario di ufficialmente indenne di ogni singolo allevamento produttore. Ma questi stessi stati potrebbero richiederci, in un prossimo domani, lo stato sanitario dell’intera regione.
Non essendo noi in possesso di questo requisito non saremo più in grado di effettuare l’esportazione richiesta!
E’ importante cominciare quindi a ragionare seriamente su tutte queste considerazioni per non trovarsi a breve a dover subire delle scelte pesanti imposte da una situazione venutasi a creare su cui si poteva ampiamente mettere mano in tempo utile.
Per far fronte nel miglior modo possibile a questa malattia, ancora purtroppo presente nella nostra realtà, bisogna dunque in sintesi saper intervenire, in primis dal punto di vista politico, a 360 gradi, con un ampio raggio di azione, che possa andare oltre al proprio “singolo orticello”, cercando di perseverare a:
1) mantenere una sinergia tra tecnici e allevatori, avendo ben chiari i compiti e le responsabilità di ognuno di loro;
2) aprirsi ai nuovi concetti sopra esposti in termini soprattutto di biosicurezza e lavoro di rete di territorio, sia dal punto di vista sanitario che commerciale;
3) saper dimostrare, dati alla mano, al Ministero della Salute e alla Comunità Europea che stiamo lavorando nella direzione giusta.
Solo allora potremo pensare di vedere allentate tutte quelle misure sanitarie coercitive imposte per legge che oggi fanno mal vedere a molti allevatori il lavoro svolto dal Servizio Veterinario Pubblico, permettendo all’intero settore di crescere sia dal punto di vista commerciale che sanitario, al riparo il più possibile dalle varie crisi di mercato e di rendere tutta la nostra filiera zooecnica sempre più trasparente al consumatore finale che, in fin dei conti, risulta essere l’attore finale che dovrebbe essere in grado di premiare un mercato sempre più virtuoso, in termini di genuinità e salubrità dei prodotti, cosa che a noi non manca affatto.