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Una
contemporaneità breve
Storia della Valle d’Aosta
contemporanea 1919 *1945 - L’ultimo libro di Elio Riccarand
Finalmente abbiamo una storia chiara e ordinata di un
periodo critico per la Valle d’Aosta, quello che va dalla fine della
prima guerra mondiale alla fine della seconda. Con la sua Storia della
Valle d’Aosta contemporanea Elio Riccarand ha fatto un ottimo
lavoro di sintesi, raccogliendo tutta la documentazione disponibile e
organizzandola in maniera didascalica, in modo da farne un manuale adatto
a circolare nelle scuole. Ma, cosa che più conta, il suo lavoro,
come quello che matura da una lunga riflessione e recepisce i risultati
di una ricerca di diversi decenni, scatena tutta una serie di interrogativi.
Vorrei dare un contributo alla discussione sul libro esponendo le prime
riflessioni che mi ha suggerito la sua lettura.
Mi pare che nessuno di quelli che hanno recensito la Storia della Valle
d’Aosta contemporanea si sia chiesto il perché di un titolo
come questo per una storia che va dal 1919 al 1945 (e non, come generalmente
si intende quando si parla di storia contemporanea, dalla Restaurazione
ai giorni nostri: 1815-2000). Riccarand, nella sua Nota introduttiva,
non dà ragione di questa severa decurtazione cronologica; non lo
fa neanche Marco Brunazzi nella sua Prefazione.
Questa "contemporaneità" che si riduce a 27 anni della
prima metà del secolo scorso merita un po' di attenzione: cos'è
successo di così importante in quel quarto di secolo; e cosa non
è successo nel restante secolo e mezzo?
Per semplificare dividiamo il problema in due parti, e incominciamo da
quello che "manca" a valle (1945-2000): perché Riccarand
si è fermato alla fine della II Guerra mondiale e non ha raccontato
la contemporaneità più vicina a noi?
Un suggerimento ci può venire dal titolo di un saggio di E. Martial
(contenuto nel noto volume sulla Valle d’Aosta curato da S. Woolf)
che suona Un dopoguerra lungo cinquant'anni. È una formulazione
molto felice: lascia intravedere che la storia valdostana dalla fine della
guerra ad oggi non è che lo svolgimento delle premesse poste con
straordinaria chiarezza e energia nel breve arco di tempo che va dalla
Dichiarazione di Chivasso (dicembre 1943) ai Decreti luogotenenziali (settembre
1945).
La storia si è effettivamente fermata a quella data: gli istituti
posti in essere successivamente, le stesse imponenti realizzazioni del
regime di autonomia, la rotazione, per ragioni anagrafiche, del personale
politico, non hanno un carattere evolutivo. La Valle d’Aosta, nella
misura in cui è cambiata, lo ha fatto a rimorchio degli eventi
nazionali e mondiali. Perché una così scarsa immaginazione
istituzionale? cosa ha impedito (per citare un caso che conosco da vicino)
che cinquant'anni di politica linguistica di forte impegno avessero ricadute
sensibili sulla pratica linguistica corrente? Questo è un bel campo
di ricerca per contemporaneisti e sociologi.
Quanto alla lacuna a monte (1815-1918), le giustificazioni abbondano.
Courmayeur, 1931.
Lezione in una classe della scuola elementare sotto i ritratti del Duce
e della famiglia Reale
Fondo Michele Retegno
Istituto Storico della Resistenza di Aosta
Ma credo che la ragione principale per cui la Valle d’Aosta
è arrivata così tardi all'appuntamento con la contemporaneità
consista nella mancata assunzione, da parte delle élite (tranne
belle o discusse eccezioni, come L.-N. Bich, F. Farinet) del ruolo che
spettava loro di diritto (e di dovere), quello di investire le loro risorse
economiche e intellettuali nella modernizzazione del Pays, prevenendo,
o meglio governando, gli investimenti stranieri. Perché questo
non è avvenuto? Perché il capitale, privato prima e poi
statale, ha "colonizzato" la Valle d’Aosta? Perché
le banche valdostane, che raccoglievano i risparmi dei contadini e degli
emigrati, hanno investito i depositi in sciagurate speculazioni fuori
Valle? Era questa povera di risorse, o le sue élite incapaci di
imprenditorialità?
Nel 1919 si trovano finalmente riuniti tutti gli ingredienti per la modernizzazione
della Valle d’Aosta: la grande industria invasiva, l'immigrazione/emigrazione
(due fenomeni collegati ma forse non interdipendenti come si è
scritto), i partiti di massa (socialista, fascista, popolare). Riccarand
racconta efficacemente questo momento; in particolare mette a fuoco, come
non lo si è fatto finora, il livello di organizzazione e di consapevolezza
del movimento operaio.
Al laboratorio politico-sociale molto vivace che si sta costituendo mette
fine la vittoria del movimento fascista. Anche in questo caso la Valle
d’Aosta è trascinata dagli avvenimenti extramurali.
Sul Ventennio, l'inventariazione fattuale di Riccarand è utilissima:
trasformazione demografica, investimenti pubblici, progettualità
territoriale, edilizia pubblica e privata, cambiamenti degli standard
di vita. Il giudizio di Riccarand, non sulla dittatura fascista (su cui
c'è poco da innovare), ma sull'interazione fascismo/Valle d’Aosta,
concorda con quanto anticipato da W. Adler già nel 1980 e ribadito,
con un certo supporto documentale, dal sottoscritto nel '99 nel suo Prefetti
e fascismo nella Provincia d'Aosta.
Il regime fascista, conferma Riccarand, innerva progressivamente il tessuto
valdostano; non esiste una rete di oppositori né ci sono segni
di un'incompatibilità precostituita tra fascismo e ceti dirigenti
locali; il fascismo non si presenta con i tratti del persecutore, anzi
dà atto dei sentimenti di "purissima italianità"
dei valdostani, che ritiene meritevoli di un intervento che ripari i torti
fatti loro dal regime liberale (i valdostani corrispondono con massicce,
per quanto epidermiche, manifestazioni di consenso). Non agiscono in Valle
d’Aosta figure come Giunta a Trieste o Starace a Bolzano; gli episodi
di teppismo fascista, tra il '22 e il '26, non colpiscono la valdostanità
in quanto tale.
È però vero che già a partire dall'agosto 1943 gli
antifascisti da lunga data e i neo-antifascisti ricostruiranno una storia
della Valle d’Aosta fascista in termini nettamente persecutori,
aggiungendo elementi leggendari, come quello dei ventimila cognomi valdostani
italianizzati. Questa ricostruzione si rivelerà funzionale al blanchissage
di una borghesia locale fondamentalmente trasformista, di volta in volta
liberale, fascista, all'occorrenza annessionista, e finalmente antifascista
après coup. I casi particolari di un Anselme Réan, che nutre
una fiducia cieca in Mussolini taumaturgo, o di un César Chabloz,
ora respinto ora attirato dalla sirena fascista (finirà per cedere
e per strafare, come succede in questi casi), rischiano di mettere in
ombra l'atteggiamento di tutto un ceto. Un atteggiamento, va detto, che
non è stato privo di buoni frutti. Pigliamo un esempio dalla letteratura:
nelle Voci del Buthier, il grande romanzo di Robert Diémoz (1924-1998),
la figura negativa della storia, il dispotico "pescecane" Antoine
Freppaz, si redime diventando podestà del suo comune, amministrandolo
con dedizione e prudenza, e riacquistando paradossalmente la fiducia dei
suoi concittadini con il buon impiego di uno strumento che è espressione
di un regime detestato.
Tullio Omezzoli
E’ nato in Liguria nel 1943.
Ha lavorato soprattutto sul terreno della sociolinguistica e, in campo
storico,
sulle relazioni tra fascismo e minoranze in Italia.
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