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Rischi naturali e cultura della sicurezza:
riflessioni sull'alluvione 2000

A un anno dall'alluvione che ha colpito la Valle d'Aosta portando distruzioi e lutti, alcune riflessioni sul rapporto esistente tra i rischi naturali e l'operato dell'uomo nella nostra società.

L’evento alluvionale dell’ottobre 2000 ed i suoi principali effetti

A causa di una situazione meteorologica caratterizzata da intense e persistenti precipitazioni sull’arco alpino occidentale, nel periodo compreso tra il 12 ed il 16 ottobre 2000, i massimi di precipitazione registrati in alcuni settori del territorio valdostano hanno raggiunto punte di oltre 500 mm in 36 ore: vale a dire che in 36 ore, su ogni metro quadrato di terreno si sono depositati 500 litri di acqua.
Per dare un’idea dell’intensità del fenomeno, basti pensare che la quantità di pioggia che cade mediamente in un anno sulla città di Aosta è spesso inferiore ai 500 mm.
Contemporaneamente, nelle giornate tra il 14 ed il 15 ottobre si verificava un rialzo altitudinale della isoterma 0°C, con la conseguenza che le precipitazioni liquide provocavano, in quota, lo scioglimento del manto nevoso che si era accumulato nei giorni precedenti.
Il notevole apporto idrico meteorico e di fusione provocava condizioni di saturazione idrica del terreno, con la conseguente genesi di fenomeni di dissesto di origine alluvionale e gravitativa.
Intense precipitazioni producono due tipi di effetti: a breve termine, si hanno gli effetti legati alle esondazioni mentre a medio-lungo termine si producono i fenomeni franosi.

Lo sviluppo e le risorse naturali sono incompatibili?

L’impatto dell’alluvione dell’ottobre 2000 sul territorio valdostano e sui suoi abitanti, dopo una prima fase di choc, ha portato con sé l’inevitabile strascico di polemiche che sempre fa seguito a questi eventi.
Ma, polemiche a parte, di fronte a tali catastrofi naturali, ciascuno di noi si pone alcune domande: siamo (a dispetto del progresso tecnologico) del tutto indifesi di fronte a tali eventi? L’uomo è, almeno in parte, responsabile dei danni provocati da fenomeni di questo tipo? Che cosa si può fare, o non fare, perché in futuro non si verifichino più o, almeno, ne vengano ridotti gli effetti dannosi?
Le righe che seguono cercano di fornire una spiegazione il più possibile oggettiva del motivo per cui le catastrofi naturali hanno effetti così rovinosi sull’uomo e sulle sue opere.

Modelli di sviluppo e loro impatto sulle risorse naturali

Volendo delineare un quadro assai sommario delle alternative di sviluppo che una civiltà si trova di fronte ad un certo punto della propria storia, si può adoperare un classico schema che descrive i possibili trend evolutivi di una civiltà.
In un diagramma di tipo cartesiano, nei cui assi sono inseriti rispettivamente la produzione di beni materiali ed immateriali e il consumo di risorse (si intendono risorse, non solo le materie prime, ma anche quelle paesaggistiche ed ambientali), si individuano quattro fondamentali modelli di sviluppo ai quali si possono dare i seguenti nomi:
• la civiltà "virtuosa", caratterizzata da un’alta produzione di beni materiali e immateriali e da un basso consumo di risorse;
• la civiltà "buddista", caratterizzata da bassa produzione di beni materiali e immateriali e da basso consumo di risorse;
• la civiltà "impazzita", alla quale corrisponde una bassa produzione di beni e un alto consumo di risorse;
• la civiltà "consumistica", alla quale corrisponde sia una elevata produzione, sia un elevato consumo.
La nostra civiltà attuale si può classificare come civiltà di tipo "consumistico", con derive verso la civiltà "impazzita" e anche, fortunatamente, con puntate verso la civiltà "virtuosa".
La conseguenza più significativa di questa situazione è che ogni modello di sviluppo, per quanto "virtuoso", produce un seppur minimo impatto sul territorio; pensiamo ad esempio all’occupazione di spazi con infrastrutture (impianti, vie di comunicazione, ecc.).

Le "direzioni" dello sviluppo: un maggior sviluppo, inteso come produzione di beni sia materiali che immateriali, viene in genere conseguito a spese delle risorse. La civiltà attuale, la cosiddetta civiltà "consumistica", presenta delle tendenze verso la civiltà "virtuosa" (soprattutto nei paesi più sviluppati) e delle derive verso la civiltà "impazzita" (paesi in via di sviluppo).

Un esempio calzante può essere quello della costruzione delle reti di impianti ecologici: la costruzione di reti fognarie e dei depuratori che vi fanno capo è necessaria per difendere il territorio dall’inquinamento (un obiettivo della civiltà "virtuosa"), ma, per la loro natura, i depuratori devono essere collocati nei punti dall’altimetria più bassa dei bacini, infatti le acque reflue vi giungono per gravità; pertanto, quasi sempre gli impianti di depurazione sono posti in prossimità di corsi d’acqua, quindi in zone potenzialmente esondabili.
Ecco dunque che i "gestori" del territorio, ma con essi noi tutti, si trovano davanti ad una scelta: prevenire l’inquinamento costruendo i depuratori o non costruire depuratori per non collocare infrastrutture in aree a rischio? È ovvio che nella maggior parte dei casi si opterà per costruire il depuratore difendendolo con arginature efficaci. Ci si trova quindi in presenza di un tipico caso che mette in evidenza come sia, a volte, una scelta quasi obbligata collocare le infrastutture in aree a rischio e quindi esporle necessariamente a possibili eventi catastrofici.

La cultura della sicurezza. alcuni concetti da chiarire

La crescita sociale ed economica della seconda metà del XX secolo non ha unicamente comportato un maggiore impatto delle attività umane sul territorio, ma anche una sempre maggiore domanda di sicurezza.
Infatti, con il crescere della cultura media e del livello di benessere, con l’aumento delle capacità tecnologiche, l’Uomo vuole essere artefice del proprio destino e non accetta più gli eventi naturali come una punizione divina o un capriccio della sorte.
Il progresso tecnologico e la capacità di controllo dei fenomeni naturali portano però con sé degli apparenti paradossi, per cui pare quasi che, parallelamente al crescere del potere di manipolazione dell’Uomo sulla natura, cresca anche la sua vulnerabilità nei confronti dei fenomeni naturali.
Ciò porta spesso molti ad affermare che l’Uomo odierno abbia passato il limite comportandosi come un apprendista stregone e che Madre Natura, ferita, quasi si "vendichi" per questo affronto.
In realtà, un approccio razionale e scientifico al problema dei rischi naturali evidenzia che l’aumentata vulnerabilità dei beni e delle persone, e la maggiore entità dei danni provocati da fenomeni naturali sono legati quasi matematicamente allo sviluppo socio-economico.
Un esempio di quanto testé affermato si può fornire facilmente. Supponiamo che un amministratore voglia collocare la più preziosa infrastruttura del suo territorio (una centrale elettrica, una scuola ... ) nel punto più sicuro. Ammettendo che nessuna zona sia a rischio zero (è il caso, come si vedrà, delle zone montane). Dall’analisi delle aree a rischio si individuerà quali sono quelle a rischio minimo, cioè interessate solo da eventi catastrofici.
In una di queste aree a rischio minimo l’amministratore deciderà di allocare la sua infrastruttura più preziosa. Le aree dove vengono ubicati i beni di maggior valore (in termini di vite umane e/o economici) sono quindi interessate solamente da eventi catastrofici. In caso di catastrofe è inevitabile che la dannosità degli eventi risulterà amplificata dall’importanza dei beni coinvolti.
Parallelamente all’evoluzione tecnologica si è andata quindi producendo la cultura della sicurezza, nata nell’industria. La cultura della sicurezza ha introdotto concetti che vengono oggi applicati anche alla gestione dei rischi naturali.

Pericolo e rischio nella cultura della sicurezza

Concetti, spesso usati (ed abusati) senza magari coglierne il vero significato, possono essere messi in relazione tra loro nell’approccio scientifico, con espressioni di tipo matematico. Cominciamo a dare qualche definizione.
Evento calamitoso (o catastrofico, o catastrofe, o incidente rilevante): evento di origine naturale o antropica, che ha una bassa probabilità di prodursi ma che provoca ingenti danni allorquando si verifica.
Pericolo (P): probabilità che, in un determinato luogo, si verifichi un evento calamitoso.
Vulnerabilità (V): stima dell’attitudine a subire danni da parte di manufatti, terreni, vite umane. La vulnerabilità può essere mitigata dalle opere o dalle misure, sia tecniche che organizzative oppure ancora procedurali, di protezione.
Sulla scorta delle definizioni sopra riportate, si può stabilire che il rischio associato ad un determinato areale geografico risulta da prodotto del pericolo oggettivo, della vulnerabilità e, ovviamente della presenza dell’uomo o delle sue opere nell’area a rischio, secondo la seguente espressione:

R = P x V x A ,

che si può meglio comprendere esplicitando V nell’espressione successiva:

R= P x (Td x 1/Pr) x A ,

dove: P = pericolo, V = vulnerabilità, Td = entità del danno (massima nel caso della perdita di vite umane, minima nel caso di danni leggeri a cose), Pr = entità delle opere di protezione (dandone per scontata l’efficacia ... ), A = antropizzazione (presenza dell’uomo nel territorio interessato dal fenomeno).
Nell’ultima formula si è esplicitato maggiormente il concetto di vulnerabilità, che risulta direttamente proporzionale al valore dei beni ed inversamente proporzionale alle opere di protezione collocate a difesa dei beni stessi.
Da quanto sopra risulta evidente che, in presenza di pericoli naturali, come nel territorio alpino, il rischio zero non esiste ma può essere limitato. Come? Agendo su uno dei termini dell’espressione, per esempio:
diminuendo P, la probabilità che un evento accada: la caduta dei massi può essere evitata con il consolidamento di una parete rocciosa. Spesso, purtroppo, non si può però intervenire su P, ad esempio nel caso di un’alluvione che è provocata da fenomeni meteorologici;
diminuendo V, quindi aumentando le opere di protezione dei beni e/o diminuendo l’attitudine delle vite umane o dei beni a subire danni. Questa è la via più spesso intrapresa;
diminuendo A, si tratta in ultima analisi della delocalizzazione dei beni a rischio: è una scelta definitiva e radicale che richiede decisioni gravose, impopolari e, purtroppo, non sempre praticabili (si veda il caso delle infrastrutture non diversamente collocabili).
Ad esempio, un insediamento posto in una zona soggetta a caduta di massi (con una data probabilità di accadimento) è soggetto ad un pericolo di una certa entità, che può essere ridotto con la posa in opera di barriere paramassi. Ma se il valore delle opere di protezione da realizzare supera quello dell’insediamento, che scelta si deve intraprendere?
Un'altra conclusione a cui ci conduce l’esame di questa espressione algebrica è che una concreta riduzione del rischio si ottiene con un approccio integrato al problema dei rischi naturali, in quanto nessun termine dell’espressione può essere mandato a zero, tanto meno le opere di protezione possono essere aumentate all’infinito! Ecco perché le riflessioni del prossimo capitolo.

Territorio "sicuro" o territorio "affidabile"?

I concetti di sicurezza e di affidabilità sono spesso usati come sinonimi ma presentano notevole diversità. Comprendere la differenza può aiutarci ad trovare un modello razionale ed equilibrato per la gestione dei rischi naturali ed il governo del territorio.
Sicurezza: un sistema naturale si può definire sicuro se gode di caratteristiche di sicurezza intrinseca, cioè se le caratteristiche del territorio sono tali da non generare rischi naturali (assenza di pericoli) anche in assenza di intervento umano per opere di protezione o altro: al centro di una pianura di 10 km2 non si ha caduta massi!
Affidabilità: un sistema naturale si può definire "affidabile" se, pur non essendo intrinsecamente sicuro per la presenza di pericoli naturali esso è tuttavia oggetto di una serie di attività di prevenzione e protezione dei rischi che consente l’allocazione di beni.
Da una breve analisi risulta immediatamente che gli spazi geografici sicuri, nel mondo, sono assai rari mentre ci si trova invece in presenza di ambiti territoriali più o meno "affidabili". Il classico paragone riguarda il mezzo di trasporto aereo: un velivolo non è un mezzo di trasporto sicuro (se i motori si guastano, l’aereo precipita) ma è affidabile (i motori sono costruiti mediante criteri di progettazione rigorosi e sono soggetti ad una severa attività di manutenzione, così come le altre parti del velivolo). Il paragone si può estendere ad una molteplicità di ambiti, ad esempio al corpo umano.

Quasi una questione lessicale: "pianificazione" o "gestione" dei rischi naturali?

Si sente spesso parlare di "pianificazione" dei rischi naturali, quando in realtà si dovrebbe parlare di "gestione" dei rischi in quanto il termine "pianificazione" indica un ruolo attivo dell’uomo nel decidere il come o il quando un evento calamitoso si può verificare.

Prevenzione o protezione?

Da quanto visto in precedenza emerge che i rischi naturali possono essere efficacemente gestiti solo mediante delle attività tese ad aumentare l’affidabilità del territorio. Queste possono essere raggruppate in due grandi categorie: attività di prevenzione e attività di protezione. Per proseguire il paragone del mezzo aereo: se la compagnia aerea non è più in grado di eseguire le attività di prevenzione degli incidenti aerei che consistono nella manutenzione, nell’addestramento del personale, ecc., potrebbe ugualmente cercare di garantire la sicurezza dei passeggeri ... dando ad ogni passeggero un paracadute! Essa punterebbe cioè sulla protezione dei passeggeri, ma si vede subito che la protezione risulta più difficile a realizzarsi della prevenzione (sull’aereo dovremmo avere 200 o 300 passeggeri addestrati al lancio con paracadute, 200 o 300 paracadute dovrebbero essere accuratamente piegati, ecc.). Quindi: solo protezione? No: prevenzione e protezione perché in effetti il massimo di sicurezza si raggiunge su di un aereo in buon stato di manutenzione ... quando s’indossa anche un paracadute.
Allo stesso modo sul territorio vanno incrementate le attività di prevenzione dei rischi naturali (si veda la formula di definizione del rischio) ma devono anche essere mantenute le attività di protezione sia di tipo infrastrutturale (da realizzarsi dopo attente valutazioni costi/benefici) che culturale.

Educare alla sicurezza

Gli ultimi decenni hanno visto un enorme incremento delle capacità tecnologiche dell’uomo. A questa crescita non ha fatto parimenti seguito una crescita della cultura tecnologica e della sicurezza. La capacità d’intervento sulla natura e l’ignoranza nella conoscenza dei sistemi naturali costituiscono una potenziale fonte d’ingenti danni, che va disinnescata.
Il punto di vista di chi studia i sistemi naturali è critico e pragmatico: non sono consentite idee preconcette o approcci ideologici in quanto il comportamento dei sistemi naturali è complesso e di difficile prevedibilità.
Ciò sta a significare che la risposta al problema della gestione del territorio è anch’essa complessa ed articolata.
Una risposta articolata alle suddette problematiche non può quindi essere fornita da un solo soggetto: spesso si tende infatti a delegare la soluzione dei problemi dei rischi naturali interamente agli enti che gestiscono il territorio.
Lo sviluppo sociale ed economico, cui ben pochi di noi sarebbero disposti a rinunciare, rende infatti ciascuno di noi responsabile delle scelte di gestione del territorio.
Chi scrive spera di non apparire retorico e afferma che è a livello individuale che si deve sviluppare o ricuperare l’attenzione verso i fenomeni naturali che sembra esser stata persa e che questa sensibilità può essere sviluppata in ciascun cittadino in maniera capillare solamente dall’apporto formativo della scuola.
È compito di chi opera nel settore delle Scienze della Natura prestarsi ad un’opera di divulgazione per evitare la demonizzazione della tecnologia e della scienza (si equivoca spesso tra scienza e tecnologia). Educare alla visione scientifica significa educare ad un approccio critico alla realtà naturale, conscio della complessità e della difficile prevedibilità dei fenomeni ambientali. A tal scopo sarebbe opportuno, a livello d’insegnamento, dare maggior peso alla storia della scienza, evidenziandone i legami con l’evoluzione delle altre discipline.
Numerose attività di educazione ambientale svolte nelle scuole consentono il contatto tra studenti e territorio, aiutandoli ad avere dimestichezza con la dimensione del concreto, che attraverso i media è, invece, sempre più virtuale.
L’autonomia scolastica, facendo delle scuole dei poli di formazione sul territorio che non si rivolgono più unicamente ai soggetti in età scolare, rende possibile intervenire anche sugli adulti coinvolgendo nel processo di sensibilizzazione un maggior numero di cittadini.
Importantissimo è quindi il compito di chi opera nel mondo della cultura. Non si può infatti pensare, come si è visto, che il problema dei rischi naturali possa essere risolto solamente con il miglioramento dei sistemi di difesa.
Bisogna creare una cultura della sicurezza, cioè, diffondere la coscienza del fatto che il territorio è una ricchezza limitata e che gli investimenti sull’ambiente non sono a fondo perduto. Analogamente, investire sulla compatibilità geologica delle infrastrutture significa aumentarne il valore economico nell’ambito di un processo di garanzia di qualità.
Lo sviluppo di una civiltà complessa può essere governato solamente con l’adozione di comportamenti individuali che tengano conto del fatto che l’uomo è inserito in un ambiente con il quale interagisce.
In questo senso la presa di coscienza che la difesa del territorio è anche, in ultima analisi, affidata a ciascuno di noi, rende la difesa dell’ambiente un compito etico. Basti pensare ai comportamenti che ciascun cittadino deve tenere quando viene messo in atto un piano di protezione civile, oppure all’attenzione che un tempo veniva rivolta da contadini e montanari al territorio e che oggi tendiamo a delegare ad altri soggetti che non possono per loro natura essere onnipresenti.
Sensibilizzare l’opinione pubblica ed i gestori del territorio sulla fondatezza di queste istanze, senza scadere in sterili polemiche dal sapore politico e fazioso, oltre che intellettualmente onesto, è doveroso nei confronti delle future generazioni.

Davide Bertolo
Geologo professionista, abilitato all’insegnamento delle Scienze Naturali nelle scuole superiori.
Presidente della sezione valdostana dell’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia.

Bibliografia e sitografia
Sul rapporto uomo-rischi naturali:
Mc. Phee J., Il controllo della natura, Adelphi, Milano, 1995.
Sulla cultura della sicurezza:
Vismara R., Ecologia Applicata, Hoepli, Milano, 1988.
Sulle alluvioni, e in particolare quella dell’ottobre 2000:
https://www.regione.vda.it/territorio/alluvione/rapporti (rapporto sull’alluvione dell’ottobre 2000 in Valle d’Aosta)
http://www.irpi.to.cnr.it (rapporto sull’alluvione dell’ottobre 2000 in Valle d’Aosta e Piemonte)
http://www.dartmouth.edu/artsci/geog/floods/2000sum.html archivio mondiale alluvioni con i danni stimati in milioni di dollari)

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