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Il
bullismo: prospettive di intervento (3)
Il bullismo è sempre
più considerato come un fenomeno di natura sociale. fondamentale
il ruolo dell’insegnante: creare le condizioni perché i comportamenti
cooperativi e di aiuto tra pari siano facilitati facendo leva sul potenziamento
delle più ampie risorse individuali e collettive.
Il fenomeno del bullismo riveste oggi un notevole interesse.
I primi studi, a partire dagli anni Settanta, si sono concentrati soprattutto
sulla definizione teorica del bullismo e su una prima fondamentale descrizione
della sua entità, in termini di diffusione e di caratteristiche
principali con cui il fenomeno si manifesta (Olweus, 1973, 1977, 1993;
Smith e Sharp, 1994; Fonzi, 1997).
Come abbiamo avuto modo di vedere nei precedenti articoli usciti su questa
stessa rivista (n. 53-54), il bullismo è un fenomeno specifico
di cui oggi esiste, nella letteratura scientifica, una definizione accettata
e condivisa, la quale riconosce che uno studente è oggetto di bullismo,
ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente
nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno
o più compagni (Olweus, 1991; Smith & Sharp, 1994; Fonzi, 1997).
L’ampio quadro descrittivo ha permesso di delineare, nel corso degli
anni, progetti di intervento di diverso tipo.
A questo proposito ricordiamo che nei primi anni Ottanta, in particolare
nel contesto statunitense, gli interventi erano basati soprattutto sull’azione
diretta, rivolta ai principali attori (bullo e vittima). Questo approccio
nasceva dalla considerazione del bullo e della vittima come soggetti che
presentano particolari deficit cognitivi, sociali ed emotivi, i quali
condurrebbero alla messa in atto di comportamenti disadattivi. In quest’ottica,
si prevedeva la correzione dei deficit specifici attraverso particolari
attività di addestramento alle abilità sociali (Menesini,
Codecasa., 2001).
Risultati recenti mostrano i limiti di questi approcci focalizzati sul
singolo individuo. In particolare, essi sono rivolti ad un numero ristretto
di bambini o ragazzi problematici, i quali, stando assieme (seppure per
fini educativi) possono rafforzare valori, atteggiamenti e comportamenti
negativi (Furman et al.). Inoltre, questi interventi sono quasi esclusivamente
condotti da esperti esterni alla scuola; questi specialisti, seppur competenti,
preparati e motivati, non possono comunque garantire la quotidianità
e la continuità dell’intervento.
Le recenti ricerche sul bullismo hanno indubbiamente contribuito a modificare
la metodologia di intervento.
L’interesse attuale si concentra soprattutto sulla ricerca dei correlati
psicologici e sociali del bullismo, nel tentativo di approfondire la conoscenza
su quegli aspetti che possono fungere da fattori di rischio per l’implicazione
nel fenomeno, non solo nel ruolo di bullo ma anche in quello di vittima
(Bacchini, et al., 1998).
Molta attenzione, inoltre, viene oggi dedicata al contesto in cui gli
episodi avvengono e a tutti gli attori a vario titolo coinvolti. Il bullismo,
infatti, viene sempre più considerato come un fenomeno di natura
sociale (Fonzi, 1999; Menesini, 2000; Salmivalli et al., 1996).
Secondo questa prospettiva, il comportamento del soggetto è largamente
influenzato dalle convinzioni e dalle aspettative che gli altri nutrono
nei suoi confronti, aspetti che creano ed alimentano quello che in letteratura
viene spesso indicato come “effetto reputazione”; il bullo
e la vittima in particolare, rivestendo dei ruoli piuttosto standardizzati,
si trovano spesso ad agire come gli altri si aspettano, confermando così
il loro ruolo ed alimentando un circolo vizioso difficile da rompere.
Considerare il bullismo come un fenomeno di gruppo porta a conferire importanza
agli effetti di rinforzo reciproco tra i partecipanti, così come
al clima generale del gruppo classe, alla coesione ed alle possibili tensioni
che possono crearsi e, in generale, a tutti quegli elementi contestuali
che possono favorire o contrastare il manifestarsi del fenomeno. Il bullo
non agisce mai da solo, bensì all’interno di un preciso contesto,
sotto gli occhi di altri ragazzi che possono far finta di non vedere,
oppure partecipare come spettatori incoraggiando il bullo, oppure ancora
intervenire in difesa della vittima.
Questa recente prospettiva, che vede il bullismo come un processo di gruppo,
si è tradotta in un nuovo approccio di intervento caratterizzato
da programmi non più rivolti soltanto agli attori principali, ma
diretti al più ampio contesto in cui il fenomeno si verifica.
La maggior parte dei modelli di intervento attuali assume infatti una
prospettiva più globale e integra differenti livelli di intervento,
dalla scuola nel suo complesso, al gruppo classe, fino ai singoli individui,
non tanto mediante interventi specialistici esterni alla scuola, quanto
piuttosto facendo leva sulle risorse della scuola stessa, in particolare
sugli studenti, sugli insegnanti, sui genitori e sul personale non docente
(Menesini, 2000).
Il primo passo di un intervento antibullismo dovrebbe consistere in un
momento valutativo che verifichi la presenza del problema e la consapevolezza
che di esso hanno gli insegnanti, i genitori e gli alunni (Menesini, 2000).
Solo dopo questa prima fase si possono programmare delle specifiche linee
di intervento.
Dovrebbe essere la singola scuola, nelle sue diverse componenti, a prendere
consapevolezza del problema e a programmare, nell’ambito della propria
autonomia, le strategie di intervento che si presentano come più
adatte alla specifica situazione.
Alcuni provvedimenti a livello di istituto possono orientarsi al miglioramento
dell’ambiente scolastico (Smith e Sharp, 1994). Gli episodi di bullismo
non avvengono soltanto in classe, ma anche e soprattutto al di fuori dell’orario
delle lezioni (ad esempio durante l’intervallo, la pausa pranzo
o sullo scuolabus).
Può essere utile riflettere sulla struttura dell’edificio,
verificando se esistono luoghi appartati che possono sfuggire al controllo
dell’adulto. Altri spazi, come ad esempio il cortile, possono essere
modificati al fine di offrire stimoli ed interessi, in modo che i ragazzi
si muovano in un ambiente strutturato e sappiano cosa fare nei momenti
di intervallo. Nei corridoi, invece, che spesso si presentano come luoghi
affollati, può essere utile pensare ad un sistema efficace di sorveglianza.
Oltre ad una più generale politica scolastica antibullismo, gli
interventi possono essere rivolti al gruppo-classe.
In quest’ambito, è importante valorizzare il ruolo educativo
svolto dagli insegnanti, i quali possono fare molto attraverso l’attività
didattica quotidiana. La scelta dei contenuti da trattare e degli aspetti
da approfondire può essere operata nella direzione di una maggiore
comprensione del fenomeno del bullismo (Menesini, 2000). Le materie curricolari
si rivelano ricche di spunti per trattare concetti quali il potere, l’oppressione,
il rispetto dell’altro e della diversità e così via.
In generale, l’approccio curricolare si pone l’obiettivo di
facilitare la comprensione del problema, degli aspetti che possono favorirne
la manifestazione e, al lato opposto, delle conseguenze cui esso può
condurre (Menesini, 2000).
D’altra parte, molti autori ci ricordano come la scuola abbia il
compito di promuovere i valori morali tra gli studenti (Rigby, 1996).
Secondo Olweus (1993) questo importante obiettivo può
essere raggiunto attraverso l’autorevolezza dell’adulto, cui
spetta il compito di promuovere le regole basilari per una buona convivenza
scolastica ed esigerne il rispetto. Il modello di questo autore sottolinea
in modo particolare il recupero del ruolo educativo dell’insegnante,
che può e deve porre dei limiti chiari e definiti al comportamento
dei ragazzi; in quest’ottica, le regole assumono un’importanza
decisiva nella misura in cui sono accompagnate da un sistema coerente
ed esplicito di sanzioni.
Queste dovrebbero sottolineare una disapprovazione esplicita nei confronti
dei comportamenti inaccettabili, senza tuttavia presentarsi, ovviamente,
come punizioni fisiche o violente. Non dimentichiamo che il mancato intervento
da parte dell’adulto di fronte ad un comportamento inaccettabile
può tradursi, agli occhi dei ragazzi, come una forma di più
o meno esplicita accettazione.
Anche Smith e Sharp (1994) sottolineano il ruolo significativo che possono
svolgere le regole a scuola. Questi autori evidenziano l’importanza
di costruire un ambiente in cui gli studenti possano esprimersi e discutere
liberamente sulle tematiche morali, al fine di costruire un personale
sistema di norme e di valori. In quest’ottica, le regole non andrebbero
imposte in modo rigido ed irrevocabile dall’adulto, bensì
discusse in gruppo con l’aiuto e la supervisione dell’insegnante.
Un intervento a livello di classe può anche essere mirato al potenziamento
delle abilità sociali dei bambini e dei ragazzi (Menesini, 2000).
Si possono utilizzare strumenti come racconti, giochi o filmati, sulla
base dei quali proporre attività di “allenamento” alla
decodifica di segnali comunicativi verbali e non verbali. Ricerche recenti
mostrano come bulli e vittime, al di là di differenze macroscopiche,
siano accomunati da una sorta di “piattaforma disadattiva”
(Fonzi, 1999). In altre parole, entrambi sembrano avere delle difficoltà
in alcune aree sociali e cognitive, seppur spesso orientate in modo diverso.
Non sono solo i bulli, come inizialmente si pensava, a presentare delle
carenze in alcune aree, ma spesso sono proprio le vittime a dimostrare
le difficoltà più grandi. Questo vale, ad esempio, per la
lettura adeguata delle emozioni altrui e dei messaggi sociali, per la
narrazione accurata degli episodi e la corretta attribuzione delle conseguenze
alle azioni aggressive (Fonzi, 1999).
Questo approccio basato sulle abilità sociali andrebbe accompagnato
dal potenziamento dei comportamenti cooperativi tra studenti. In generale,
infatti, i bambini maggiormente cooperativi sono anche meno prepotenti
dei loro compagni, mostrano minori difficoltà a livello relazionale
e sono più accettati all’interno della classe (Menesini,
1998; 2000).
Di nuovo sottolineiamo il ruolo decisivo dell’insegnante, che può
creare le condizioni perché i comportamenti cooperativi e di aiuto
tra pari siano facilitati, aiutando i ragazzi a riconoscere ed apprezzare
obiettivi comuni e condivisi.
Questi modelli basati sulle competenze sociali e sulla cooperazione si
sono tradotti, ultimamente, in alcuni interventi di educazione e di supporto
tra pari. Tali tipi di intervento si fondano sulla consapevolezza che
il fenomeno presenti una forte connotazione sociale. Il presupposto consiste
allora nella possibilità di modificare alcune dinamiche di gruppo
in favore della vittima, facendo leva in modo particolare su quei ragazzi
che disapprovano le prepotenze ma che, per svariate ragioni, le tollerano
e non intervengono per tentare di interromperle (Menesini, 2000).
Spesso i ragazzi preferiscono confidare i loro problemi ai coetanei piuttosto
che fare riferimento all’adulto. I compagni, d’altra parte,
se opportunamente addestrati, possono fornire un aiuto prezioso a coloro
che si trovano in difficoltà.
Questo tipo di approccio, proposto da Menesini (2000) in alcune scuole
medie della provincia di Lucca, si è rivelato particolarmente efficace.
Il modello attuato dall’autrice prende il nome di “Modello
dell’operatore amico”, proprio perché si fonda sull’attivazione
di una figura di supporto che agisce durante la normale vita di classe
a sostegno dei compagni in difficoltà.
Questo modello di intervento prevede alcune fasi successive:
1. Un intervento preliminare nella classe al fine di pubblicizzare l’iniziativa
e facilitare atteggiamenti positivi verso l’amicizia e il sostegno
tra i compagni.
2. La selezione degli “operatori amici” (3-4 per ogni classe),
effettuata insieme all’insegnante, tenendo conto delle nomine dei
pari e delle autocandidature; vengono tendenzialmente scelti coloro che
presentano caratteristiche come la disponibilità di ascolto, l’altruismo,
la discrezione.
3. Il “training degli operatori”, al quale partecipano i ragazzi
selezionati; esso consiste in una giornata, condotta da alcuni psicologi
e dagli insegnanti coinvolti nel progetto, durante la quale i ragazzi
apprendono specifiche competenze, utili per il ruolo che dovranno ricoprire.
4. Gli operatori intervengono in classe fornendo sostegno ai compagni
in difficoltà, fermando gli episodi di prepotenza, contribuendo
al miglioramento del clima sociale ed affettivo all’interno della
classe; durante questa fase possono fare riferimento all’insegnante
supervisore.
5. Il mandato degli operatori ha una durata di circa tre mesi; trascorso
questo tempo vengono eletti nuovi operatori con modalità simili
alla volta precedente.
Questo intervento è risultato capace di diminuire gli episodi di
bullismo, di aumentare la consapevolezza dei ragazzi rispetto al fenomeno
e di attivare, di conseguenza, coloro che mostravano inizialmente un atteggiamento
di maggiore indifferenza.
Molto resta ancora da fare. Tuttavia, la direzione degli interventi intrapresi
di recente sembra promettente, soprattutto perché non si limita
ad arginare e tamponare il fenomeno, ma fa leva sul potenziamento delle
più ampie risorse individuali e collettive.
Fine 3/3
Tatiana Begotti
Psicologa, ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia
dell’Università degli Studi di Torino.
Elena Cattelino
Psicologa, ricercatore presso la Facoltà di
Scienze della Formazione e Dipartimento di Psicologia dell’Università
degli Studi di Torino.
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