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Entusiasmo
e ricerca:due elementi di crescita professionale
La "pratique
reflechie" di un'insegnante, che ripercorre le tappe significative
della sua formazione, dalle prime esperienze d'insegnamento negli anni
'70, segnate dalla complessità delle istanze sociali. Una professionalità
costruita sul campo, accresciuta accettando le continue sfide che il lavoro
a scuola presenta, un'identità consapevole delle incertezze di una società
inquieta, e che ha trovato, nell'incontro con altre professionalità, un
valore aggiunto alla propria formazione.
Nel ripercorrere le tappe significative
della mia formazione nella scuola, ho cercato di mettere in luce quegli
aspetti che caratterizzano l'identità di un docente, la sua crescita professionale.
Le mie esperienze personali, fortemente impregnate quindi dei miei vissuti
e della mia storia, sono in realtà comuni a quelle di tanti insegnanti
disposti ad affrontare, come me, le continue sfide che il lavoro a scuola
presenta. Insegnanti impegnati da sempre, perché passati dai banchi alla
cattedra per scelta, non un ripiego, quasi una vocazione. Come per molti,
infatti, anche per me diventare insegnante è stata una scelta, avvenuta
in un momento di grande ed epocale cambiamento, in una situazione di fermento
culturale, in un contesto in cui la ricerca universitaria nel settore
educativo-pedagogico si intrecciava fortemente con la sperimentazione
sul campo e dibattito e ricerca avevano già coinvolto, anzi "sconvolto",
le aule universitarie.
Ho iniziato così, a Milano, nelle cosiddette
scuole a tempo pieno, isole felici che sperimentavano pratiche didattiche
e modelli organizzativi innovativi. In quelle scuole, il fermento diffuso
altrove diventava sperimentazione possibile.
E il neo insegnante per vocazione, come me, veniva coinvolto in collegi
docenti interminabili, in fiumi di discussioni, in gruppi di studio notturni,
in commissioni di lavoro, in convegni; insomma una scuola per far crescere,
ma anche una scuola per crescere.
Nelle mani, nella testa e nel cuore Lettera ad una professoressa
di don Milani.
Mi affascinavano la ricerca in campo didattico, la relazione pedagogica,
i processi di democratizzazione della scuola che, con i decreti delegati,
sembravano inserire le problematiche della formazione e dell'istruzione
nella complessità delle istanze sociali.
Queste le mie prime esperienze,
comuni a chi entrava nella scuola negli anni 70 e
per me, come forse per molti, la fortuna di incontrare e lavorare con
persone di grande esperienza, ricche di competenza e di entusiasmo, in
grado di coinvolgere nella ricerca di metodologie nuove, disponibili al
confronto anche con i colleghi più inesperti, con le famiglie e il territorio.
Insegnanti di tutti i gradi di scolarità impegnati nella costruzione di
un modello di scuola, allora ancora non del tutto chiaro, fondato sulla
ricerca di elementi di continuità nel percorso formativo, sul rinnovamento
metodologico, sulla individuazione degli aspetti formativi delle discipline.
Era una ricerca che presupponeva l'apertura ed il confronto dentro e fuori
della scuola, con il mondo del lavoro e con un'utenza nuova che, immessa
nella scuola dalla riforma del '62 che istituiva la media unica, ne avrebbe
scardinato, di fatto ed attraverso un faticoso percorso legislativo, la
staticità e le gerarchie.
Identifico nella parola ricerca la chiave di interpretazione di quegli
anni: ricerca teorica, ricerca metodologica, ricerca inter-disciplinare,
ricerca di soluzioni e spazi organizzativi innovativi. Ma non bastava
l'entusiasmo, erano necessari rigore, studio, lavoro, creatività, impegno,
disponibilità, confronto, responsabilità, passione: era necessario essere
credibili. Erano queste le qualità di quei "vecchi" colleghi
che ricordo, ora che sono anch'io una "vecchia" collega, con
grande stima; a loro sento di dovere molto della mia formazione. Convivevano
allora ancora due modelli di scuola che, dietro all'apparente scontro
sui temi del "latino sì, latino no; grammatica sì, grammatica no;
contenuti sì, contenuti no; voto sì, voto no ecc.", nascondevano
un più profondo travaglio tra il bisogno di rinnovamento e la volontà
di salvaguardare il noto, in qualche caso, forse, solo la paura dell'ignoto.
Erano queste posizioni, sicuramente schematizzate e riduttive rispetto
alla complessità delle problematiche cui facevano riferimento, che agitavano
i collegi docenti ed i consigli di classe, dando luogo ad un confronto-scontro
ma anche, inevitabilmente, al cambiamento.
E, così, qualche vecchio doposcuola, luogo della ripetizione della lezione
del mattino, cedeva il passo alle attività integrative perché motivanti
e formative ed a quelle mirate al metodo di studio, trasversale alle discipline.
Nei corridoi, gli insegnanti cominciavano a programmare attività interdisciplinari;
e la diatriba sull'utilità del latino, del quale molti insegnanti della
scuola media si sentivano defraudati, cedeva il passo alla ricerca di
strumenti didattici innovativi, suggeriti dagli sviluppi della linguistica.
Torno alla mia esperienza, dura, ma gratificante, del far scuola, negli
anni successivi, nei paesi dell'hinterland milanese, luoghi dormitorio
di grande e recente immigrazione, con alunni portatori di dialetti e consuetudini
diverse, spesso profondamente nostalgici della loro terra del sud, soli,
sia pure con tanti fratelli, con tanti problemi.
Incalzati dalle situazioni, dalla necessità di dare risposte a bisogni
reali, sorretti dall'entusiasmo di operare per un cambiamento portatore
di senso, aggrappati agli spazi ed alle indicazioni metodologiche dei
"nuovi" programmi del 79,
abbiamo anticipato i temi che sono oggi di attualità nella pianificazione
dell'offerta formativa: la centralità dell'alunno, la valorizzazione delle
diversità, l'integrazione, e ci siamo tuffati nella linguistica per non
mortificare il multilinguismo dei nostri alunni e per potenziare la loro
conoscenza della lingua italiana.
E' stata la fase, nota a molti miei coetanei, del volontariato a tutto
campo, per sopperire ad un'organizzazione scolastica rigida e verticistica,
che non prevedeva spazi organizzativi di confronto e programmazione. Sperimentavamo
una nuova professionalità, nuovi ruoli, interrogandoci sui confini e sui
possibili spazi di azione dell'essere insegnante.
Anticipavamo allora, col nostro entusiasmo, i temi che oggi hanno trovato
diritto di cittadinanza nella scuola: collegialità, progettualità, formazione,
programmazione, autonomia nella definizione del curriculum formativo.
Si usciva quindi dalla materia e dalla
classe, luoghi storici della professionalità docente, per ritrovare, forti
delle potenzialità della propria disciplina, l'unitarietà del sapere,
presupposto fondamentale per pensare l'alunno come personalità globale,
alla quale dare risposte sinergiche e il più possibile vicine alle sue
necessità. Anche la legislazione seguiva il nostro percorso: la legge 517 del 1977, l'istituzione del tempo
prolungato del 1979, i nuovi programmi, con l'indicazione,
non più solo di contenuti, ma di metodologie, sostenevano i nostri sforzi.
Nel recepire il cambiamento, il legislatore delineava il profilo di una
professionalità docente complessa, non più ancorata solo alla conoscenza
della disciplina, ma sempre più coinvolta in un processo sistemico. Gli anni '90 hanno segnato, infatti, la svolta,
il passaggio dal volontariato alla definizione della nuova professionalità
docente. Ed è anche in questa direzione che colloco la mia esperienza
triennale di formazione nel campo del bi-plurilinguismo in Val d'Aosta;
un'avventura molto significativa sul piano umano e professionale, condivisa
con un gruppo di colleghi simpatici e preparati, sui temi della didattica
della lingua e delle lingue, che ci ha indotto a riflettere sulla complessità
delle competenze indispensabili alla nuova figura di docente: ricerca-azione,
monitoraggio, strumenti di valutazione di processi, strumenti di comunicazione
e di relazione, tecniche di conduzione di un gruppo di lavoro. L'IRRSAE
aveva pensato al tema del bilinguismo anche in termini di formazione delle
cosiddette "figure di sistema", da inserire appunto nel sistema
- scuola con funzione di supporto e coordinamento. La ricerca, spesso
più avanti del legislatore, aveva ormai decretato la fine della scuola
come struttura piramidale e la nuova ipotesi organizzativa richiedeva
docenti con competenze complesse, non solo disciplinari.
Oggi sono davvero lontani i tempi in cui era possibile trincerarsi dietro
lo scudo della libertà di insegnamento per chiudere la porta della classe
e procedere in maniera quasi autistica all'acquisizione di elementi di
giudizio da portare in sede di valutazione: fuori dalla porta qualcuno
avrebbe pensato a risolvere i problemi organizzativi e burocratici.
In questo percorso ho visto anche cambiare quelli che qualcuno definisce
i nostri "clienti", alunni sempre più inafferrabili: sono i
ragazzi della globalizzazione, del bombardamento mediatico, del computer
e di internet, della comunicazione frammentata e lapidaria, dei messaggini
da cellulare, dell'incertezza di una società inquieta, della crisi di
valori.
Per catturare questi nuovi, mutevoli e sfuggenti interlocutori la scuola
sta di nuovo faticosamente cercando un suo ruolo, una sua nuova fisionomia.
In questa fase, difficile e controversa anche dal punto di vista legislativo,
è arrivato il dPR 275 del 1999 che, ai sensi dell'art.21 della
legge 59, ha sancito, insieme all'autonomia didattica ed organizzativa
delle singole istituzioni, il principio dell'autonomia di ricerca, sperimentazione
e sviluppo delle istituzioni scolastiche. Contrattualmente, inoltre, sono
stati definiti i confini della nuova, multiforme, professionalità docente.
Oggi l'autonomia scolastica e la "verticalizzazione", concretizzata
negli istituti comprensivi, hanno aperto spazi di nuova progettualità
e, per chi crede come me, nella formazione come processo organizzato in
continuità e nel valore dell'incontro tra professionalità diverse, rappresentano
uno stimolante campo di azione.
In questo nuovo quadro, ripercorrendo le esperienze di questi trent'anni
di insegnamento, e non solo, mi sono sentita pronta, un po' presuntuosamente,
ad accettare ancora una volta una nuova sfida. Ho valutato di poter rinunciare
a quella parte della mia professionalità costituita dalla didattica e
dal rapporto diretto con gli alunni, per provare anche l'esperienza, complessa
e stimolante, del coordinamento del nuovo, articolato sistema - scuola.
Ho deciso, perciò, di sperimentare anche il ruolo del dirigente scolastico,
forse, come momento di sintesi della mia formazione e ho accettato di
ritornare, in qualche modo, ad una situazione di precariato privo di certezze.
LETTERA A UNA PROFESSORESSA |
Scuola di Barbiana,
Libreria Editrice Fiorentina, 1967
" Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome.
Ne ha bocciati tanti.
lo invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi,
a quell'istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi
che "respingete".
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci
dimenticate. " (p. 9)
(...)
" Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò
neanche
una scuola. Nè cattedra, nè lavagna, nè banchi. Solo
grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si
mangiava.
D'ogni libro c'era una copia sola. I ragazzi gli si
stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che
uno era un po' più grande e insegnava.
Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni.
Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione.
Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato
anch'io. "(p. 12) |
Annalisa Baratta
Insegnante di Materie letterarie.
Formatore dell'area bi-plurilingue.
Dirigente incaricata nell'a.s.2001-2002 dell'Istituzione scolastica M.
Ida Viglino di Villeneuve.
Ha assunto nella scuola diverse funzioni: vicario, formatore, aggiornatore
e referente dell'aggiornamento, membro di organismi elettivi.
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