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Intervista a Abele Blanc

Come sei diventato guida di alta montagna?
Sono nato ad Aymavilles, un piccolo paese di montagna, da una famiglia povera e numerosa (otto figli) e ho dovuto lavorare sin da subito per mantenere la famiglia, non potevo quindi permettermi di andare i montagna per puro piacere.
A 21 anni ho avuto la fortuna di fare il servizio militare a Courmayeur negli alpini, al centro sportivo, dove ho scoperto una nuova dimensione della montagna.

Quali doti richiede la professione di guida di alta montagna?
Sicuramente la forza fisica (siamo tenuti a tenere il nostro corpo costantemente in allenamento), e le capacità tecniche. Credo però che la capacità di fondo debba essere saper insegnare altri ad amare la natura e la montagna, contagiare i clienti con la nostra passione.

Che cosa rappresenta la montagna per te?
Chi ama la montagna può essere paragonato ad un’aquila: ha bisogno di una visione ampia davanti a sé e solo dall’alto la trova. Salendo in alto si ha l’illusione di essere più padroni del territorio. Anche il marinaio probabilmente è convinto di "padroneggiare" il mare, perché lo conosce. La guida di montagna allo stesso modo padroneggia gli eventi, li conosce profondamente e non ne è preda. La montagna è pericolo, fascino, mistero.

Sulla base della tua esperienza, quale rapporto hanno i giovani con la montagna? Secondo te, i canali di conoscenza della montagna per i ragazzi passano dai nuovi media o dai sensi?
In Valle d’Aosta tutti i giovani hanno comunque un certo rapporto con la montagna perché vivono in una regione delle Alpi. Molti hanno avuto modo di fare delle passeggiate in alta o bassa quota. Nella mia esperienza di guida riscontro però l’incapacità di leggere i segnali che la montagna lancia (l’approssimarsi del cattivo tempo, ad esempio). Sicuramente i ragazzi frequentano di più i media che il territorio, ma purtroppo la televisione parla di montagna solo in termini catastrofici (incidenti, tragedie, ecc…) perché la bellezza della montagna non fa notizia!

Qual è allora la formula giusta, se esiste una formula, per continuare ad appassionare i giovani alla montagna?
La formula è una sola: portarli! Bisogna dunque incentivare le attività di conoscenza della montagna a scuola. Sono attività costose, ma è un investimento che le scuole devono fare se vogliono educare i giovani alla montagna.

Che cosa può offrire la montagna ai giovani?
Il gusto per l’indipendenza e la libertà e soprattutto la sensazione di stare bene con se stessi e quindi con gli altri.

Si può insegnare la "montagna" ?
Sicuramente sì, ma occorre trovare delle strategie divertenti per farla amare. Quali sono i bambini che vanno volentieri in montagna? Sono quelli che vanno in compagnia. Consiglierei quindi ai genitori di non proporre camminate estenuanti e solitarie ai propri figli (condizione che li esaspererebbe portandoli ad odiare la montagna), ma di organizzare invece escursioni con altri coetanei per aiutarli a superare la fatica, che in montagna è sempre tanta, e dar loro la possibilità di divertirsi.

Ritieni che la montagna possa essere maestra di vita?
Certamente. Ti chiede di decidere rapidamente, ti obbliga a scelte alternative, misurando le tue capacità reali. La montagna è maestra di vita perché ti costringe ad usare la testa, a non arrenderti, ad ingegnarti continuamente nel trovare soluzioni, anche nelle situazioni più difficili.
La montagna è anche fatica: ci si pone degli obiettivi precisi e si cerca di raggiungerli. Si possono provare gioia e soddisfazione solo quando il corpo è allenato alla fatica. La montagna può anche insegnare a "vedere", con occhi diversi. Noi guide siamo responsabili anche di una certa educazione alla visione: i ragazzi imparano a vedere solo se qualcuno insegna loro a vedere. Una guida che non sa insegnare ad osservare, non sa fare il suo mestiere.

Quali valori, quali principi stanno dietro ad una escursione o ad una arrampicata?
L’umiltà, la conoscenza dei propri limiti (un gran numero di incidenti in montagna è dovuto alla sopravvalutazione delle capacità individuali), la fiducia in se stessi e negli altri. Quando si è in cordata, ci si deve fidare completamente degli altri: la vita di ognuno è legata all’altro.

Spesso in montagna assistiamo, o siamo protagonisti, di un gioco di squadra. In quale misura posso contare sugli altri compagni o posso io aiutare gli altri a raggiungere la meta?
Il gioco di squadra si realizza soprattutto durante una spedizione. Tutto il gruppo si impegna affinché almeno una persona raggiunga la cima, cioè l’obiettivo che ci si è prefissi. Nel gioco di squadra tutti devono mettere a disposizione degli altri componenti le proprie capacità senza risparmiarsi e ognuno ha un ruolo ben preciso.

E’ importante raggiungere sempre la meta stabilita? Che cosa insegneresti ai giovani? A continuare, a tutti i costi o ad essere flessibili, assumendosi anche la responsabilità di scelte diverse?
E’ importante raggiungere la meta stabilita, come nella vita, anche per evitare la frustrazione che porta a dubitare delle proprie capacità. Allo stesso tempo è evidente che non bisogna assolutamente intestardirsi su una meta se ci arrivano dei segnali che fanno capire che è meglio lasciare perdere (il tempo, lo stato d’animo, la salute, ecc.). Ai giovani insegnerei, ovviamente, a saper rinunciare a quei percorsi che si rivelano problematici e ricorderei loro di non sottrarsi mai alle responsabilità individuali.

Ai ragazzi per cui la montagna è solo competizione, massacro fisico e tecnicismo, che cosa hai da dire?
La competizione non rientra nel mio paradigma, riconosco però che attraverso la competizione si possono raggiungere livelli che si credevano irragiungibili. Sono convinto che non debba diventare l’unico motivo per cui vale la pena di andare in montagna.
Posso dire che ciò che mi appassiona di più in montagna non è la competizione, ma la contemplazione. Se la competizione è breve ed intensa, dura pochissimo e si brucia velocemente, la contemplazione ha invece modalità dolci e tranquille. Ha tempi lunghi, porta a guardare in se stessi, alla pace interiore, ad uno stato generale di benessere tale da non desiderare nient’altro. Una delle gioie della montagna è proprio questa: farci sentire appagati e realizzati. La montagna, allontanandoci da desideri e stimoli superficiali, può aiutarci a distinguere quello che è importante da ciò che non lo è.

In questi anni hai accompagnato diversi ragazzi in montagna. Qual è la tua esperienza? Negli anni, è cambiato il rapporto dei ragazzi con la montagna? C’è una maggiore coscienza "ecologica"?
La mia esperienza con i ragazzi è sempre stata positiva. Con alcuni genitori invece ho avuto talvolta dei problemi perché ritenevano che le attività in montagna fossero troppo "dure" per i loro figli. Spesso, come genitori, abbiamo la tendenza a scegliere per i nostri figli la via più facile. Così facendo, non aiutiamo i ragazzi a crescere, a prendere coscienza delle proprie azioni. Sono convinto che la montagna, offrendo l’opportunità di affrontare e superare delle difficoltà, contribuisca a formare il carattere e a far maturare i ragazzi, spingendoli sin dove non pensavano di poter arrivare.
Per quanto riguarda la coscienza ecologica penso che non sia ancora sufficientemente diffusa e che ci sia ancora tanto da fare. Penso, ad esempio, a quando i bambini raccolgono i fiori e gli si dice di non farlo. Ebbene, la natura ha messo a disposizione dell’uomo determinati ambienti che per poter vivere o sopravvivere hanno bisogno di rispetto e di tutela, avere coscienza ecologica significa conoscere quali azioni un certo territorio può sopportare da parte dell’uomo. Un esempio: l’invito "non raccogliere la stella alpina", non deve essere tassativo, deve invece indurre ad una riflessione i ragazzi facendo loro capire che raccoglierne una è possibile, mentre strapparla impedisce alla pianta di ricrescere e si altera l’equilibrio ecologico. Questo ragionamento vale ovviamente per gli animali e per tutti gli abitanti della terra.

In questo Anno internazionale delle montagne, che cosa vale la pena di segnalare, ad una rivista che si rivolge a tutti gli insegnanti della Valle d’Aosta, per affrontare consapevolmente il tema della "formazione dei giovani"?
Sempre di più, la scuola valdostana dovrebbe insegnare ai ragazzi ad approfondire la conoscenza del territorio. Conoscerlo significa essenzialmente frequentarlo compiendo anche delle scelte coraggiose: privilegiare una settimana in rifugio piuttosto che una gita a Firenze. Sono due luoghi non paragonabili, e nel primo i ragazzi corrono più rischi che nel secondo, ma in questo modo i nostri ragazzi avrebbero l’opportunità di conoscersi e di mettersi alla prova in un territorio montano, il loro territorio. Certamente l’ideale sarebbe quello di fare vivere entrambe le esperienze, ma i problemi finanziari e i budget sempre ridotti delle scuole impongono delle scelte e spesso si privilegia il costo inferiore e la responsabilità limitata.
La montagna invece è costosa e impone da parte di dirigenti, insegnanti ed operatori esterni la capacità di assumersi grandi responsabilità. Una regione a vocazione turistica come la nostra, forse, qualche rischio dovrebbe prenderlo. Il fatto che l’ONU abbia indetto un Anno internazionale delle montagne è positivo, ma occorrerebbe festeggiarla sempre perché per noi, in Valle d’Aosta, la montagna è tutto.

Abele Blanc
Guida alpina di alta montagna. Nel 1982, la prima esperienza di scalata dell’Himalaya, seguita dalla conquista di tredici 8.000. Mentre andiamo in stampa è impegnato nell’ascensione dell’Annapurna.

 

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