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A mio padre
Appoggiato alla croce del
Cervino, sulla vetta che anche per lui era la più bella, mio padre sorride,
guarda lontano. È felice. Non ricorda la fatica, non teme la discesa,
si sente a casa. È questa fotografia, piccola, in bianco e nero, ma nitida
e luminosa che mi sono portata per anni, impressa in un angolo della mente
e del cuore, che mi ha fatto riconoscere la montagna. Nata e cresciuta
in valle dAosta, figlia ignara di un alpinista, per molto tempo
ho creduto che le mie coordinate fossero le coordinate di tutti: alto,
basso, la dimensione verticale, un orizzonte frastagliato e vicino, confini
evidenti, valicabili a tratti, solitudine, mucche, latte, viole di montagna,
sentore di letame, clochers appuntiti brillanti destate e
bianchi dinverno. Non raccontavo di montagna perché pensavo tutti
sapessero. Sapessero di partenze nellaria frizzante del mattino,
di ombre lunghe, di fazzoletti di campi coltivati tenacemente, di bambini
al pascolo, di minestroni profumati ed interminabili, del caldo umido
e asfissiante delle stalle, di "Alouette, gentille alouette"
cantata a squarciagola.
Sapessero come me e capissero.
In realtà ero io a non capire quanto il mondo potesse essere diverso,
quanto le coordinate dei nuovi amici trovassero origine in altre dimensioni:
lontano, vicino, orizzontale, profondo, moltitudine, folla, velocità,
ricchezza, ingiustizia, diversità. Ora, che queste coordinate sono intrecciate
in me, guidano il mio approccio ad ogni realtà, ma, bambina, mi ricordo
che guardavo stupita il turista che mi chiedeva quanti km distasse da
Aosta la vetta del monte Bianco: ero incapace di accettare che i 4807
metri della nostra vetta più alta fossero srotolabili e misurabili con
un criterio stradale di lunghezza. Mi sono sentita, recentemente, più
vicina ad un alpinista himalayano che misurava in giorni la distanza di
un colle dal villaggio più vicino, proprio come camminatori di ieri e
di oggi computano in ore di marcia ogni spostamento, traducendo in tempo
una dimensione che per altri rimane puramente spaziale. Questo significa
oggi montagna per me, possedere un criterio di misurazione dello spazio
che non è spaziale, ma temporale. Come ancora è montagna per me riconoscere
laltitudine non usando laltimetro, le indicazioni segnaletiche
o le carte, ma osservando quanto mi circonda: i pini lasciano più spazio
ai larici, siamo a 1800, abbiamo alle spalle lultima "cha"
( lultimo alpeggio) siamo a 2200/2300, ecco il laghetto glaciale
circondato da pietre stiamo arrivando a 2500/2600 e troviamo le prime
piantine di genepy confuse nel pietrisco morenico.
Capisco mio padre, credo di riprovare la sua sensazione, quella che definisco
"sentirsi a casa". Conoscere un luogo, riconoscerlo anche se
diverso, per le sue caratteristiche di fondo è per me sentirsi a casa.
Per questo la montagna è
internazionale, prima e indipendentemente dallanno internazionale
delle montagne, perché frequentarla, viverla struttura la mente e la percezione,
crea condivisione di abitudini, di conoscenze, di atteggiamenti e di spazi
mentali.
Si è parlato sovente di timidezza dei valligiani (don Milani ad esempio),
sicuramente è un retaggio della timidezza dei poveri, ma io credo che
tale atteggiamento si possa interpretare anche diversamente. Di fronte
alla montagna luomo saggio non può che essere timido. I più grandi
alpinisti conservano tutti un fondo di timidezza, sanno che hanno conquistato
le loro vette perché loro hanno accettato di essere conquistate, nei loro
commenti trapelano sempre ammirazione, timore, gratitudine per la montagna.
Ogni vetta è sempre un avversario cui si deve rispetto, considerazione
e che invita sempre a ripensare alla nostra finitezza. Mi vengono alla
memoria le parole, rubate ad un gruppo di alpinisti francesi, sulla terrazza
del rifugio del Trient. Di fronte a noi si stendeva il ghiacciaio, le
guglie dorate chiudevano lorizzonte, tre cordate, ancora lontane,
rientravano. "Encore des fourmies en marche" scherzava un non
più giovane turista francese. Des fourmies, sì, proprio così: sullimmenso
dorso della montagna, illuminata ancora per poco dal sole della sera,
questi piccoli esseri, felici di aver goduto della possibilità di faticare,
di sudare e di aver un po paura stavano tornando al coperto. La
montagna li aveva rasserenati, affaticati e restituiti ai loro affetti.
Non sempre è così. Unaltra istantanea ancora più luminosa mi restituisce
mio padre, con altri tre compagni, su di un ghiacciaio, trasporta un caduto,
avvolto in un telo militare. Si intuisce che la giornata è splendida,
il sole è caldo, gli uomini faticano, per il peso e per il dolore. Ma
non è stato infranto un patto: gli alpinisti sanno che anche questo è
possibile.
La montagna chiede impegno
e rigore. La sera, al coperto, nei rifugi, nei bivacchi, nelle malghe
più alte è il momento dellesagerazione: racconti, bevute, memorie,
ma, durante le ascensioni, cautela e valutazione del rischio si impongono.
Anche questo è la montagna per me: una continua presa di coscienza dei
propri limiti e al tempo stesso una spinta a superarli. I livelli da superare
sono praticamente infiniti, prima di qualsiasi videogame , gli appassionati
di montagna hanno conosciuto la gioia e il timore di sempre nuove possibilità
di percorsi, di ascensioni, di traversate; anche leroe cambiava:
ad ogni prova qualcosa della vecchia paura si trasformava, a ogni nuovo
apprendimento, festeggiato a più riprese nei racconti e nei pensieri,
corrispondeva una nuova curiosità.
E se la scuola riuscisse a far sua questa strategia?
Il superamento di un ostacolo reale, vitale, portatore di senso come fonte
di felicità, di piacere fisico: dalla tensione per lincertezza dellesito,
alla stanca rilassatezza del risultato raggiunto.
Se riuscissimo a creare montagne per i nostri alunni, non viste come ostacoli
difficili da superare, ma come affascinanti percorsi di conoscenze e di
maturazione, la cui conquista, i cui passaggi più difficili richiedano
temerarietà e fiducia nelle guide e possano essere poi raccontati, esagerati,
rivissuti con enfasi nel ricordo collettivo! La zona prossimale di sviluppo
di cui parla Vigostky, quello spazio di conoscenza e di apprendimento
in cui linsegnante può condurre lalunno a scoperte che da
solo non sarebbe ancora in grado di realizzare e che quindi possono rivestire
per lui anche un forte valore motivazionale, non è forse il passaggio
di IV° grado che la guida di alta montagna riesce a far superare al suo
cliente, che fino al mese prima, da solo, si spaventava per un attraversamento
di II°?
Qual è il tuo Cervino?
Mio padre dice sempre che
ha fatto tre cose importanti nella vita: è andato
sul Cervino, ha fatto tre figli e una casa.
Il Cervino è stata la Montagna con cui ha scelto di
misurarsi. Ha misurato le sue capacità e sperimentato
i suoi limiti. ll racconto della conquista del Cervino,
mi ha accompagnata in tutti questi anni: un uomo semplice
alla ricerca dellassoluto, delleccellenza.Il
Cervino mi restituisce un papà temerario, avventuroso
e tenace, incapace di risparmiarsi. La sua è stata
una sfida così estrema da insegnarmi che ognuno di
noi ha il suo Cervino |
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Agnese Molinaro |
La voglia di affrontare prove
sempre un po più difficili di quelle che siamo sicuri di riuscire
a superare, la fiducia nei maestri, che conoscono le tecniche e sanno
la paura e lorgoglio della riuscita, avere memoria dei nostri limiti
e dei nostri successi, anche questo è montagna per me.
Ho scoperto tutto questo
tardi, avrei voluto parlarne con mio padre, che questo sapeva e certo
molto di più, ma i nostri tempi non hanno coinciso. Solo apparentemente
però. Lassù, appoggiato alla croce del Cervino so, che almeno un po,
si riconosce in me.
Giovanna Sampietro
Direttore della rivista
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