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Io
non ho paura
Lamentavo un po' di tempo
fa una certa mancanza di contemporaneità degli scritti della rivista.
Gli argomenti trattati a volte sembrano vivere in un limbo atemporale,
valere per se stessi, perché toccano temi ricorrenti dell'agire pedagogico,
senza riferirsi in qualche modo agli eventi esterni che condizionano la
scuola. Per questo numero non è così. Purtroppo.
Teorizzare e dimostrare con il lavoro didattico che la diversità è una
risona per tutti, che lo scontro tra culture può diventare e risolversi
in un incontro tra persone, mi sembra in questo momento storico al tempo
stesso compito arduo e unico itinerario di speranza possibile (mentre
scrivo Rai 3 trasmette le immagini dei soldati USA entrati a Bagdad e
un freddo vento di aprile accartoccia la bandiera della pace sul davanzale).
"La pace si comincia a costruire sui banchi di scuola" ha detto
don Busso, direttore della Caritas diocesana di Aosta, riassumendo in
modo efficace la vera "mission" di ogni comunità educante.
"Migrazioni e meticciati, produttori di nuove società polietniche,
policulturali, sembrano annunciare la Patria comune a tutti gli umani.
Tuttavia, nelle formidabili mescolanze di popolazioni, c'è più giustapposizione
e gerarchizzazione che vera integrazione; nell'incontro delle culture,
l'incomprensione prevale ancora sulla comprensione; attraveno le osmosi,
le forze di rigetto rimangono molto forti. La mondialità si accresce,
ma il mondialismo si sveglia appena. L'umanità comunicante resta un'umanità
in patchwork." Edgar Morin, Anne Brigitte Kern, Terra-Patria,
Raffaello Cortina Editore, 1994, p. 31.
Le nostre società sono di fatto patchwork multiculturali, i dati riportati
in più di uno degli articoli presentati in questo numero lo dimostrano,
riceviamo e consumiamo informazioni e sostanze da ogni parte del mondo,
riceviamo e consumiamo persone da ogni parte del mondo. È in atto una
mondializzazione dei consumi e della visione facilitata dalla planetarizzazione
dei mercati e delle informazioni; internet e le antenne paraboliche ci
consentono di consumare le stesse immagini, con sempre minore partecipazione
empatica, perché ormai siamo anestetizzati dalla dose quotidiana di violenza
e di soprusi multiculturali.
Che cosa può voler dire veramente costruire la pace sui banchi di scuola?
A quali condizioni oggi la scuola può diventare fattore di integrazione
duratura? Io credo che neppure in classe la pace sia semplicemente mancanza
di conflitto. Cercare l'accordo a tutti i costi a volte può voler dire
omologarsi al più forte, la complessità di ognuno di noi e del mondo che
abitiamo richiede sforzi ben maggiori che la ricerca di uno spazio compromissorio
dove non siamo né tu, né io, né noi. "Il dialogo è" dice Jaspers
"il cammino insostituibile non solo nelle questioni vitali del nostro
universo politico, ma in tutte le dimensioni del nostro essere. Tuttavia
solo in forza della fiducia il dialogo diventa stimolante e significativo;
fiducia nell'uomo e nelle sue possibilità, fiducia che io riesco a essere
me stesso solo quando anche altri arrivano ad essere se stessi".
Paulo Freire, L'educazione come pratica della libertà, Mondadori,
1972, pp. 132-133.
Il dialogo, l'interazione verbale empatetica e libera che dovrebbe fondare
l'attività didattica, ancora una volta è lo strumento che consente la
realizzazione dei nostri obiettivi. Imparare ad esprimere in modo assertivo
e indipendente il proprio sentire e il proprio pensare, riconoscere e
sottolineare uguaglianze e diversità può generare integrazione. A scuola
occorre fare esperienza di pace, non intesa come quieto vivere, ma come
situazione di scambio autentico, di affermazione di identità diverse,
di gestione e risoluzione di momenti conflittuali. Se non si imparano
a riconoscere e a comporre in modo originale e co-costruito le tensioni
non si vive veramente la pace, ma ci si limita a rinviare, a momenti meno
ufficiali e in cui è più facile che la legge della violenza prevalga,
la gestione dei conflitti.
È condivisa la considerazione che vera integrazione si realizzi solo tra
i bimbi della scuola dell'infanzia, e che poi, progredendo con l'età,
pregiudizi e paure personali rendano progressivamente più difficile il
contatto e l'incontro. Insegniamo forse la segregazione? Non credo, certo
molti nostri alunni la imparano. Dalla televisione, dalla superficialità,
dalla mancata esplicitazione, liberatoria e propedeutica ad una vera educazione
all' accettazione, della paura della diversità e della fragilità.
Il ripensamento di un adolescente ribelle, che dopo aver deriso il nuovo
compagno senegalese, attraverso un dialogo libero, conflittuale e difficile
arriva ad accettarlo come vicino di banco e lo scopre piano piano come
anche uguale a sé può essere l' apparente modesto risultato di un lungo
percorso didattico, meno gratificante e vistoso di un girotondo multiculturale,
ma ancora inconsapevole di bambini di tre anni.
Costruire integrazione, dunque, abituando alla vicinanza e passando attraverso
i nostri pregiudizi, con la pratica del dialogo assertivo e rispettoso.
Io non ho paura di incontrare con te i miei fantasmi.
Giovanna Sampietro
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