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La laurea per maestre e maestri
Perché
e come alla luce della storia della scuola italiana e delle recenti riforme
anche per insegnare alla scuola primaria occorre essere in possesso di
un titolo di laurea.
Per comprendere
come mai oggi lItalia si trova ad avere, per riconoscimento unanime,
una delle migliori scuole elementari e materne del mondo occidentale,
bisogna saper entrare in profondità nei caratteri della sua storia. Senza
il riferimento a vicende che superano la vita interna della scuola non
si può render ragione di una sostanziale unitarietà della politica scolastica
italiana. Dobbiamo prima di ogni altra cosa difenderci dal paradosso rappresentato
dal silenzio dellindagine storica e invece dalla loquacità
di una letteratura impegnata a illustrare temi e volti dellindagine
statistica e sociale, a dare voci a umori e disagi di una Italia minore,
quotidiana e regionale(1), senza riuscire ad allargare
lo sguardo a processi di lunga durata(2) .
Dal 1860, anno dellunificazione del Regno dItalia, fino alla
riforma Gentile del 1923 la società italiana ha sofferto di una grave
crisi magistrale che rendeva quasi impossibile lelaborazione di
una coerente politica scolastica. Ma senza lalfabetizzazione di
massa non vera speranza per nessuna riforma politica, e tanto meno
per una riforma della scuola superiore, perché se il popolo non rispondeva
sui propri diritti non avrebbe capito nemmeno quali erano i suoi doveri.
Così, in nome di un principio di necessità, per molti decenni, almeno
sulla scuola elementare, la destra e la sinistra non avevano idee tanto
diverse.
Furono proprio i maestri e le maestre della scassata scuola
elementare italiana i protagonisti, di quel vasto movimento di opinione
che si batté, fin dalla fine dellOttocento, affinché lo Stato rispettasse
le promesse fatte. Da allora, di fatto, fu votata allinsuccesso
ogni riforma scolastica che volesse prescindere dal consenso della classe
magistrale, la più compatta e la più radicata tra le categorie di insegnanti,
lunica per altro che ha conservato per decenni uninvidiabile
e positivo spirito di corpo, una consapevolezza gelosa del proprio ruolo.
Parafrasando un vecchio slogan di A. Gabelli del 1888, si potrebbe dire
che la scuola classica, (la scuola superiore), è per sua natura
aristocratica, ma il tempo (e la scuola elementare) sono democratici.
I. La costruzione del sistema scolastico di base fu per lItalia
più complessa e difficile che in altri paesi europei. Mancavano sia una
tradizione unitaria che una classe dirigente convinta. Ancora ad Ottocento
avanzato la scuola pubblica era destinata ai figli dei ceti sociali più
ricchi e i programmi, nei vari Stati preunitari, erano ancora legati alle
formule dellAntico Regime, con al centro il latino.
Per il 1861 i dati Istat indicano un analfabetismo maschile del 74% e
femminile del 84%, con punte al Sud del 95%. Linchiesta promossa
dal ministro Matteucci nel 1864 ipotizzava un fabbisogno di maestri di
50.000 unità e invece ce nerano solo 17.000 e in generale poco competenti.
Ma ai primi del Novecento le neonate associazioni magistrali, laiche e
cattoliche, potevano contare sulladesione di più del cinquanta per
cento dei maestri e delle maestre, diventati circa 65.000.
La prima grande legge unitaria del ministro Casati, nel 1859/60 era entrata
quasi a gamba tesa in una società che non presentava un profilo distinto
e che i politici piemontesi di allora conoscevano poco e ritenevano comunque
ancora troppo succube del fatalismo e del bigottismo.
La sua estensione al resto del paese - scrive Ester De Fort in apertura
del suo ampio lavoro di ricostruzione storica(3) - era in realtà
il frutto della convinzione che allo Stato spettasse una funzione insostituibile
di stimolo e di supplenza. Linerzia delle amministrazioni locali
- a cui per altro Casati consegnò listruzione elementare - e la
scarsa collaborazione dei privati, minavano un progetto politico che cercava
una soluzione alla drammatica crisi di consenso del nuovo Stato nellazione
di miglioramento del paese svolta dalle élites.
La scuola italiana, dunque, più che in altri paesi, fu il frutto di un
massiccio e consapevole intervento dello Stato che divenne il protagonista
assoluto delle vicende scolastiche nazionali e che, sempre sulla base
del suo primato, resistette a molti cambiamenti di regime e di maggioranze
politiche. È ad esempio esemplare il profondo travaglio che porterà il
Parlamento del Regno ad arrendersi dinnanzi allevidenza e alle invocazione
del partito della scuola, quando nel 1911, con la legge Daneo-Credaro
si operò la quasi completa statizzazione della scuola elementare, prima
affidata ai comuni e ai privati.
II. Il problema della formazione è sempre stato il momento chiave dellidentità
dei maestri. Le Scuole Normali, istituite dalla Legge Casati, nel 1861
erano soltanto 41. Se si contano anche quelle pareggiate e le scuole complementari
per maestri diventarono 265 nel 1916. Gentile le trasformerà negli Istituti
magistrali, diffusi capillarmente su tutto il territorio. Operò in questo
modo un profondo cambiamento perché di fatto equiparò la formazione magistrale
a quella liceale, sollevando le critiche di molti(4).
In realtà il suo obiettivo non fu quello di pedagogizzare
la scuola, rendendola più sicura nei metodi e nella didattica, bensì,
al contrario, quello di pedagogizzare la società, ispirandole
un forte sentimento educatore e coinvolgendola in una rappresentazione
collettiva fondata sullarchetipo del rapporto tra maestro e scolaro.
Per alcuni ciò rappresentò la definitiva deprofessionalizzazione della
formazione magistrale, con lappiattimento in schemi di comportamento
che si alimentavano al di fuori di ogni seria analisi dei bisogni della
società e troppo vicino al cuore retorico della rappresentazione borghese
della società(5).
Ciò corrispondeva bene al progressivo processo di femminilizzazione della
professione insegnante che in Italia raggiungerà il suo apice a Novecento
avanzato, cinquantanni più tardi, ad esempio, che negli Stati Uniti
dAmerica. Daltra parte, già Gramsci nei Quaderni dal Carcere
aveva sostenuto che la connotazione sociale di una scuola è data
dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato
a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva
o strumentale(6).
Nel caso dellistruzione elementare si può dunque avanzare
lipotesi che essa abbia espresso una duplice funzionalità sociale,
di ceto e di genere, nella misura in cui è stata considerata adatta ad
un determinato ceto che nello svolgere la professione di insegnante poteva
intravedere un possibile mutamento di status e in particolare alle donne
della piccola e media borghesia, le quali nellaccedere a una professione
dovevano però salvaguardare le aspettative e i valori del loro gruppo
sociale(7).
In sostanza bisogna considerare che il mestiere di insegnante elementare
nella storia italiana ha significato cose molto diverse per gli uomini
e per le donne che vi si sono dedicati(8).
Verso la fine del Novecento, nello stagnante mondo scolastico italiano,
impegnato in questioni di tipo occupazionale ed amministrativo, sono intervenuti
prepotenti fattori di cambiamento. Primo fra tutti lesplosione numerica
della scuola di massa negli anni Sessanta. Se dal 1946 al 1962 gli alunni
delle medie inferiori passano da 500.000 a 1.500.000, solo tra il 1962
e il 1966, con lavvento della scuola media unica nazionale, raggiungono
i 2.000.000.
Nel 1966 gli studenti elementari sono ormai 5.000.000. Mentre le scuole
scoppiano, si affermano movimenti di contestazione radicale dei modelli
formativi occidentali che coinvolgono direttamente gli studenti e le famiglie
e mettono in discussione lautoreferenzialità del sistema scolastico.
Emerge soprattutto
dal basso una consapevolezza nuova sulla funzione insegnante perché la
libertà dinsegnamento non può prescindere - come scrive Mario Lodi,
un maestro di maestri-
a) dalla verifica con le altre componenti della scuola, genitori,
colleghi, ecc.;
b) dalla competenza, perché solo chi sa è libero di scegliere strumenti
adeguati ai problemi mentre chi non sa crede di scegliere, ma di fatto
subisce;
c) dalla programmazione collegiale perché ognuno ha il diritto di avere
una propria opinione e il dovere di farla conoscere agli altri(9).
Negli anni Settanta si gettano le basi per il passaggio da una scuola
del popolo ad una scuola per tutti, con lintroduzione
della partecipazione della componente degli studenti e delle famiglie.
Si avvia lesperienza dellaggiornamento degli insegnanti e
della integrazione dei disabili. Nel 1985 il ministro Falcucci vara i
nuovi Programmi, molto avanzati nella direzione di una valorizzazione
della personalità del discente e di unattenzione allo sviluppo psicofisico
del bambino(10), che in un momento di incertezza collettiva
seppero ancora una volta assicurare stabilità ed ordine alla scuola elementare,
favorendone il rinnovamento. Nel 1987 prende lavvio la sperimentazione
dei moduli plurimaestro, il cui recepimento generale avverrà nei decreti
del 1990, che comportò il definitivo superamento del cosiddetto maternage.
Insomma, la scuola elementare cambia pelle, ma nel bene e nel male resta
stabile, come unisola nella palude del riformismo scolastico anche
se cambia in profondità la composizione sociale degli insegnanti. È infatti
legittimo chiedersi se si può parlare in modo complessivo di un corpo
insegnante italiano come se ci si trovasse di fronte a un vero e proprio
ceto professionale o se invece le frammentazioni interne siano tali da
riprodurre una pluralità di realtà tra loro assai dissimili(11).
III. Da pochi mesi in molte università italiane si laureano i primi studenti
che quattro anni fa inaugurarono il nuovo corso di laurea in Scienze della
Formazione Primaria. Si prevede che alla fine del 2003 saranno più di
tremila: una goccia nel mare delle centinaia di migliaia di insegnanti,
ma pur sempre lavanguardia di un flusso che diventerà inarrestabile,
proprio perché coerente con la condizione giovanile e con le domande sociali
più avvedute. Si tratta di un momento importante anche per verificare
la riuscita di una scommessa complessiva sulla riqualificazione del corpo
insegnante italiano, lanciata nel 1990 con la legge 341 - che prevedeva
la laurea quadriennale per linsegnamento nella scuola di base e
un biennio di specializzazione post laurea presso Scuole di specializzazione
interateneo per insegnare nelle scuole superiori - ma che ha potuto diventare
realtà soltanto nel 1998(12).
Il problema attuale è tuttavia rappresentato dal fatto che anche la laurea
in Scienze della Formazione Primaria, di durata quadriennale, è ormai
destinata a trasformarsi secondo larticolazione degli studi su due
livelli, il primo, triennale, per la laurea e il secondo, biennale, per
la laurea specialistica. È quando dovrà essere regolato dai decreti attuativi
della recente Legge Delega 53 del 28 marzo 2003 di riforma della scuola
presentata dal ministro Moratti.
Lintero art. 5 è dedicato alla formazione degli insegnanti riconoscendo
ad essa un ruolo centrale. Si sana inoltre la posizione dei laureati in
formazione primaria ai fini dellinserimento nelle graduatorie permanenti
per linsegnamento adottando la soluzione dellesame/concorso
di stato già applicata per i diplomati delle Scuole di specializzazione(13).
Dal mese di giugno 2003 le commissioni di laurea delle Facoltà saranno
integrate da membri designati dal ministero e dai Direttori regionali.
Su come riarticolare il percorso formativo iniziale dei futuri docenti
della scuola dellinfanzia e della scuola elementare si è già aperto
un fecondo dibattito. Se molti sono ancora i problemi da risolvere, la
strada è comunque tracciata. È comunque certo che saranno abolite le attuali
Scuole di specializzazione per linsegnamento nelle scuole secondarie
e che anche la formazione per linsegnamento nella scuola materna
o elementare sarà completata in ambito di laurea specialistica. Inoltre
non è ancora chiaro in quale contesto e con quale intensità saranno inserite
le attività di tirocinio pratico che nellattuale corso di laurea
può contare su almeno 400 ore a cui aggiungere almeno altre 100 ore per
il modulo che abilita ai concorsi per diventare insegnanti di sostegno
per i disabili. Alcuni protagonisti, anche in sedi ministeriali, propongono
di spostare la maggior parte del tirocinio oltre la laurea specialistica
in un anno di assunzione in prova nelle scuole che diventerebbe in tal
senso lo snodo tra la formazione iniziale e la professione.
Un problema molto delicato è poi rappresentato dal modo di adempiere al
dettato della legge che conferma la pari dignità della formazione
iniziale per tutti i docenti: in realtà non vi è nulla che renda
certo che questa uguaglianza debba tradursi anche nella pari durata della
formazione universitaria.
È viva anche la discussione se sia meglio prevedere dopo la laurea triennale
di primo livello il compimento biennale della formazione presso strutture
particolari o non invece con il conseguimento di lauree specialistiche
ordinarie, eventualmente recettive di competenze relative
alle didattiche disciplinari e allinsegnamento. Considerata la storia
e il costume italiani sarebbe forse da preferire la scelta di adottare,
con opportuna ridistribuzione di crediti, anche per i maestri e gli insegnanti
le lauree specialistiche ordinarie. È infatti da temere la
ghettizzazione della formazione per linsegnamento.
Non si fa fatica a vedere dunque lurgenza di favorire lo sviluppo
di quei centri di eccellenza (previsti dallart. 5 della Legge Moratti)
per lelaborazione e la sperimentazione di pratiche educative, governati
dalle università ma al servizio delle comunità, che recuperino e valorizzino
anche il meglio dellesperienza autogestita delle scuole e del territorio.
In sostanza, si tratta di restituire alle comunità locali oltre che a
quella nazionale la titolarità della funzione educativa fornendo agli
aspiranti maestri e insegnanti un contesto nel quale le università li
aiutano ad apprendere un mestiere senza rinunciare ad essere cittadini
a parte intera, inseriti in un contesto, capaci di lavorare insieme. Non
soltanto laureati, ma protagonisti.
Giuseppe Tognon
Professore ordinario di Storia delleducazione LUMSA,
Roma.
Docente presso lUniversità della Valle dAosta.
Note
(1) S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in Fare
gli italiani. Scuola e cultura nellItalia contemporanea, a cura
di S. Soldani e G. Turi, Bologna, il Mulino 1993, I, p. 79.
(2) Sullesperienza presso luiniversità della Valle dAosta
si veda il lavoro di Teresa Grange Sergi, Verso unidentità professionale
dellinsegnante, tra sapere e immaginario, Aosta, Le chateau edizioni
2001.
(3) La scuola elementare dallUnità alla caduta del Fascismo, Bologna,
il Mulino 1996. Vedi anche AA. VV. , Maestri, educazione popolare e società
in Scuola italiana moderna 1893-1993, a cura di M. Cattaneo
e
L. Pazzaglia, Brescia, La Scuola 1997.
(4) Ancora nel 1991 una circolare ministeriale per lindirizzo sperimentale
pedagogico parlava di strategie per far emergere la licealità del curricolo.
(5) Il Maresca, noto pedagogista antiidealista, ebbe a lamentarsene con
forza. Ne I diritti della Scuola - una delle più importanti
riviste pedagogiche italiane - del 24 aprile 1938 scriveva: In Italia
la pedagogia non esiste più, se non di nome, come titolo di poche cattedre
universitarie e ciò perché lIstituto magistrale è stato il campo
dove si è operata tout court la distruzione della pedagogia, citato
da G. Bonetta in AA. VV., La Formazione del maestro in Italia, Cirse,
1996, p. 63.
(6) Vol. III, Torino, Einaudi 1975, p. 1547.
(7) Listruzione normale dalla legge Casati alletà giolittiana,
a cura di
C. Covato e A. M. Sorge, Archivio centrale dello stato, Roma, 1994 (Fonti
per la storia della scuola I), p. 20.
(8) M. Dei, Colletto Bianco, grembiule nero. Gli insegnanti elementari
italiani tra linizio del secolo e il secondo dopoguerra, Bologna,
il Mulino 1994.
(9) M. Lodi, Guida al mestiere di maestro, Editori Riuniti, Bari 1982,
p. 152.
(10) I programmi Ermini (il ministro che li varò) del 1955 si fondavano
su quattro punti nodali: il concetto di primarietà della scuola elementare,
la ciclicità dellinsegnamento, ladesione allambiente
dei contenuti didattici,
il globalismo del metodo, soprattutto applicato alla lettura e alla scrittura.
(11) C. Buzzi, I molti modi di insegnare tra centralità e marginalità,
Il Mulino, 1/2000 p. 39.
(12) Cfr. G. Luzzatto, Insegnare a insegnare. I nuovi corsi universitari
per la formazione dei docenti, Carocci, Roma, 1999.
(13) Lesame di laurea sostenuto a conclusione dei corsi di
scienze della formazione primaria ha valore di esame di stato e abilità
allinsegnamento nella scuolamaterna o dellinfanzia e nella
scuola elementare o primaria, ultimo comma dellart. 5 della
L. 53/2003.
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