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Fare
sostegno arricchisce
Tre testimonianze di insegnanti
che storicizzano l’integrazione scolastica. L’una ripercorre
dai primi anni ’80 il processo dell’integrazione scolastica
e l’evoluzione di una definizione. Da portatori di handicap, handicappati,
disabili, a diversabili. Le altre raccontano il perché di una scelta
non facile, con una certezza: il sostegno arricchisce.
Ogni alunno incontrato mi ha fatto da “specchio”
Essere insegnante di sostegno dai primi anni ’80
mi ha permesso di partecipare al processo di presenza
a scuola degli alunni certificati, definiti via via portatori di
handicap, handicappati, alunni in situazione di handicap, disabili, diversamente
abili, diversabili…
Tutti conosciamo l’importanza delle parole - le parole sono pietre
- tutti sappiamo come le parole fotografino una realtà, ma anche
possano concorrere a darle forma: che cosa significa allora, nella scuola,
parlare di integrazione piuttosto che di inserimento? Di diversamente
abile o di handicappato? Come si traduce questo nell’impostazione
didattica, se l’utilizzo di un termine non è pura adesione
alle mode o ad atteggiamenti “politicamente corretti”?
L’opzione - persona disabile -, ad
esempio, secondo me, richiama costruttivamente alla valorizzazione e alla
costruzione di abilità, diverse per ognuno e fin dove è
possibile, pur non nascondendo i problemi legati ai deficit.
Ho subito guardato ai primi “inserimenti” di disabili a scuola
con interesse professionale. Seguire da “molto vicino” un
alunno mi è parso complementare al gestire una classe: se questa
costituisce la varietà della “normalità”, la
prossimità al singolo permette di cogliere specificamente le modalità
di apprendimento e le loro problematiche.
L’inserimento, dando a chi ha più problemi una prima visibilità
e diritto alla presa in carico, ha sensibilizzato noi operatori ad avviare
la ricerca di soluzioni per i vari “casi”; nella fase iniziale
i ragazzi venivano inseriti solo là dove gli insegnanti erano disponibili,
mentre ora è “normale” per tutti condividerne la responsabilità,
e si tratta certamente di un dato culturale e sociale di qualità.
Molti sono gli aspetti della mia professionalità che sono stati
alimentati da questi vent’anni: dalla sensibilità per le
differenze all’attenzione ai processi cognitivi ed emotivi, dalla
crescente consapevolezza delle cause delle difficoltà di apprendimento
all’interesse per le innovazioni…
Dirò solo che sono sempre più convinta della negatività
di qualunque forma di isolamento: è la “società di
tutti” il luogo in cui vivere, studiare e, se possibile, in seguito,
lavorare, in cui ognuno abbia un ruolo attivo riconosciuto, compatibilmente
al tipo e al livello delle sue possibilità; inoltre credo comunque
ancora al detto “l’unione fa la forza”
(e penso ai rapporti di collaborazione, pur non semplici, tra i vari attori
del processo di integrazione).
Il mondo della disabilità è così vario e problematico
che le affermazioni generali richiamano sempre qualche riserva: “E
i gravissimi? E chi disturba il lavoro dei compagni? E chi non ha quasi
“punti di contatto” con il lavoro della classe? E chi…”
Ecco perché è importante per me individuare alcuni principi-guida,
la cui traduzione in termini di prassi didattica varia poi da caso a caso.
Tali sono l’integrazione (= funzionale
completamento…) e l’inclusione
(contrario di esclusione), che mi spingono a cogliere ciò che può
favorire il singolo alunno a “fare parte” in maniera significativa
della sua scuola e della sua classe (e questo vale per qualunque alunno).
Alcuni fattori di integrazione e inclusione? Un clima di classe solidale,
una forte collaborazione tra docenti curricolari e di sostegno, la progettazione
intorno a un’idea forte, il raccordo del PEI con la programmazione
di classe, la ricerca di strategie di facilitazione, le tecnologie informatiche,
il coinvolgimento delle famiglie, l’apertura al territorio, il Programma
Feuerstein, il Cooperative Learning…
Se avessi avvertito che essere insegnante di sostegno avrebbe ostacolato
la mia professionalità, togliendomi curiosità intellettuale
e motivazione, avrei cambiato percorso; ciò finora non è
avvenuto, perché ogni alunno incontrato mi ha fatto da “specchio”,
contribuendo a rendermi chiara a me stessa e a conoscere la comune realtà
umana, culturale e sociale. Un mio aspetto professionale che non è
cresciuto? La gestione del gruppo classe, carenza che mi dispiace avere.
Adriana Fransus
Laureata in lettere. Insegnante di sostegno con specializzazione.
Attualmente in servizio presso l’Istituzione scolastica “Aosta
2” e presso l'Università della Valle d'Aosta, in cui si occupa
del tirocinio degli specializzandi per il sostegno.
Scegliere il sostegno e ritenersi
un privilegiato
Ho incominciato fin dall’84 a dedicarmi al sostegno.
Nei primi otto anni al 50% dell’orario, nell’altra metà
lavoravo in palestra. Circa dodici anni fa ho frequentato il corso biennale
di specializzazione polivalente, conseguito il titolo, ho deciso di cambiare
ruolo.
Nei primissimi anni mi sono impegnato a fondo, ma senza una vera consapevolezza
del mio ruolo, ero nella condizione di chi fa un lavoro senza sapere esattamente
in che cosa consista, e quindi sicuramente non sfruttavo tutte le possibilità
che avrei potuto avere.
L’esperienza iniziale mi ha tuttavia permesso di capire tre cose
:
- erano pochissime le persone che potevano essermi d’aiuto, “dovevo
arrangiarmi”;
- non esisteva un metodo che andasse bene per tutti i ragazzi in difficoltà;
ognuno doveva avere il suo percorso specifico;
- era necessario mantenere un sano distacco dagli allievi, un certo coinvolgimento
era positivo, ma non doveva spingersi troppo oltre il rapporto professionale
se volevo contenere le mie aspettative e le mie ansie.
Fin dall’inizio ho preferito lavorare con i casi più impegnativi,
a volte anche con quelli che nessuno voleva. Ho chiesto, per esempio,
che mi venisse affidato un bambino psicotico che aveva fatto impazzire
le maestre per tutte le elementari, cambiandone almeno una all’anno
e forse anche di più. Non perché mi sentissi un missionario,
ma semplicemente perché dopo avere letto il PEI delle elementari
e parlato con la psicologa, avevo avuto la percezione di essere in grado
di dare al ragazzino ciò di cui aveva bisogno, e non mi ero sbagliato,
l’ho seguito infatti per quattro anni.
Non penso che un insegnante possa andare bene per qualunque caso. L’aspetto
caratteriale può aiutare molto, ma anche le competenze possono
essere determinanti. Se vi è “feeling” con l’allievo,
le possibilità di soddisfare i suoi bisogni aumentano notevolmente.
Come insegnante di sostegno mi ritengo un privilegiato perché ho
la possibilità di dedicare tutte le mie ore su di un solo alunno.
Penso che mi sia servita molto l’esperienza quasi ventennale di
insegnamento in palestra. Già allora avevo impostato un lavoro
per livelli le cui modalità mi sono tornate molto utili anche nel
sostegno. Scomponevo il lavoro in fasi molto ben definite le presentavo
come prerequisiti da conquistare uno alla volta per poter proseguire.
Tutti, fino ad un certo punto riuscivano e non solo quelli maggiormente
dotati o più precoci nello sviluppo! Ciò che li distingueva
era solo il tempo impiegato per superare i vari livelli. Così facendo,
tutti gli allievi erano gratificati ed ogni piccolo passo era una conquista.
Credo che gli insegnanti che dicono, “tanto non potrà mai
migliorare” in realtà si preparino un alibi o una giustificazione
per un molto probabile fallimento.
Credo che la professionalità di un insegnante di sostegno poggi
sulla capacità di individuare i veri bisogni dell’alunno
e successivamente sul saper trovare i percorsi più efficaci, anche
operando delle scelte iniziali importanti, come l’esclusione di
alcune attività o l’introduzione di altre, in alternativa.
È altresì fondamentale riuscire a stabilire un rapporto
di fiducia con la famiglia dell’alunno in difficoltà. I genitori
che hanno veramente stima dell’insegnante, lo aiutano moltissimo
nel suo lavoro ed i figli percepiscono la condivisione del progetto formativo/educativo.
È anche utile sapersi mettere al posto dei genitori e non giudicare
le loro azioni con sufficienza. All’inizio siamo soprattutto noi,
insegnanti, che dobbiamo imparare, per poter poi applicare le strategie
giuste per instaurare una relazione produttiva sul piano umano e cognitivo.
Le attività di apprendimento, le strategie utilizzate devono essere
sempre pensate per l’allievo, partendo dai suoi interessi e dalla
sua motivazione, e devono essere funzionali alla sua crescita, non solo
all’occupazione del tempo.
Non condivido le attività “di facciata”, che non rispondono
ai reali bisogni dei disabili.
Come ho già accennato, ho seguito l’attuale ragazzina anche
alle superiori, perché non mi piace lasciare a metà un lavoro
che mi soddisfa. L’aspetto che forse mi gratifica di più
è l’atmosfera positiva e quasi sempre serena in cui si lavora.
Questa ragazzina viene a scuola con gioia ed inoltre, aspetto non trascurabile,
anch’io sto imparando da lei!
Nello Miglié
Nel 1993 abbandona il ruolo di insegnante di educazione
fisica per prendere quello di insegnante di sostegno. Insegna all’Istituto
d’Arte di Aosta dove, chiedendo un’assegnazione provvisoria,
ha potuto seguire l’alunna che ha avuto alle medie.
Ho cominciato per curiosità
C’è chi inizia per caso, chi per opportunità,
chi per passione. Io, forse, ho cominciato la professione di insegnante
di sostegno per curiosità. Certo non sospettavo che quella scelta
mi avrebbe accompagnato per così tanto tempo.
Nel settembre di sedici anni fa, durante un collegio docenti, fu proposto
agli insegnanti di seguire il caso di un alunno disabile particolarmente
grave. In quell’attimo mi ritornò alla mente una supplenza
di qualche anno prima. Era stato il mio primo “contatto” con
un alunno disabile: i nostri sguardi si erano incrociati, io lo osservavo
e cercavo di capire cosa fare, in che modo comportarmi, se egli intuisse
il mio disagio e la sensazione d’inadeguatezza che provavo.
Mi si presentava dunque l’occasione di approfondire la mia esperienza,
di capire se avessi la capacità di affrontare un impegno così
particolare: sempre più mi stimolava l’idea di provare a
curiosare in quel mondo che solo parzialmente conoscevo. Quasi d’istinto
alzai la mano!
Si rivelò un’esperienza molto significativa ma altrettanto
complessa, più volte pensai di fallire e di non essere in grado
di aiutare quel ragazzo.
Ancora oggi nell’affrontare il mio lavoro penso alle difficoltà
di quegli anni, a quei primi approcci imprecisi e alle domande che mi
ponevo, sovente senza trovare una risposta.
Il confronto con la diversità può innescare gravi insicurezze
e senso d’inadeguatezza nell’insegnante di sostegno, nei componenti
del consiglio di classe, nel gruppo classe. I conflitti a volte si materializzano
con la delega, il disinteresse o con il fastidio nei confronti del “duo”
insegnante di sostegno - alunno disabile.
Nonostante il tema della diversità sia sicuramente attuale nella
scuola e, in un certo senso, ben gestito dalle varie componenti, la presenza
dell’handicap può creare situazioni di difficile gestione,
poiché obbliga al confronto introducendo ulteriori incognite, contrasti
e tensioni; si possono attivare conflitti, anche interiori, con risultati
distruttivi perché possono innescarsi dinamiche distorte che sfociano
in comportamenti non controllati.
Nella mia esperienza ho vissuto momenti critici e di sconforto, mi sono
sentito solo, incapace a volte di gestire i conflitti con alcuni colleghi,
mi è sembrato di non riuscire ad incidere sullo sviluppo o sull’integrazione
del disabile, mi ha sfiorato l’idea che il mio impegno fosse inutile.
Ho però appreso che, grazie alla collaborazione con i colleghi,
l’integrazione delle risorse e il confronto equilibrato tra le varie
parti, ci può essere possibilità di crescita e d’arricchimento
sia di gruppo sia individuale; la presenza in classe di un ragazzo disabile
può diventare un’occasione di maturazione per tutti.
Non saprei dire quali siano tutte le peculiarità di un insegnante
di sostegno ma, poiché non è di certo un esperto della riabilitazione,
ma fondamentalmente uno specialista del lavoro didattico con la classe
o del lavoro individualizzato, penso sia essenziale che egli sappia innanzitutto
prestare attenzione all’aspetto relazionale: saper accettare la
realtà dell’handicap, stare vicino al ragazzo in modo concreto,
accettarlo per quello che è e non per quello che si vorrebbe, accompagnarlo
nel suo lento progredire sapendo valutare i suoi anche piccoli miglioramenti.
Credo di poter dire che l’insegnante di sostegno non deve essere
nemmeno uno psicologo, ma una persona che utilizza le proprie risorse
professionali e psicologiche cercando di completarle con quelle dei colleghi,
una persona consapevole inoltre delle sue debolezze umane, che riesce
a confrontarsi in modo concreto con il proprio limite e con i limiti dell'altro,
senza però sconfinare in atteggiamenti svalutativi, che sa, se
così si può dire, non farsi travolgere dalla situazione.
Nella sua inevitabile posizione di mediatore didattico, l’apporto
di un insegnante di sostegno in classe può forse essere utile non
solo per l’integrazione del soggetto portatore di handicap, ma per
sviluppare anche negli altri alunni la consapevolezza di sé e far
progredire l’accettazione dei limiti e l’acquisizione del
senso della realtà.
Vincenzo Grosjacques
Laureato in Architettura. Insegnante di sostegno con
specializzazione. Attualmente è in servizio presso l’Istituzione
scolastica “Aosta 1”. Ha competenze in campo informatico.
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