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L'assistente
sociale, un aiuto
L’articolo situa la figura dell’assistente
sociale rispetto all’alunno disabile, che non si limita al ruolo
all’interno dell’équipe socio-sanitaria. L’obiettivo
principale dell’assistente sociale è di offrire aiuto e strumenti
per fare sì che la persona riesca a elaborare e a realizzare il
suo progetto di vita.
L’équipe socio-sanitaria, come previsto dalla normativa e
dai protocolli, interviene nella scuola quando viene inserito un alunno
portatore di handicap.
È costituita essenzialmente da alcune figure professionali che
sono: l’assistente sociale, lo psicologo, il terapista della riabilitazione,
il neuropsichiatra e l’educatore professionale (queste ultime figure
professionali intervengono nelle situazioni per le quali viene valutata
la necessità del loro apporto).
L’assistente sociale è una dipendente dell’Amministrazione
regionale dell’Assessorato alla sanità e alle politiche sociali.
Gli altri operatori dell’équipe sono dipendenti dell’azienda
USL; l’educatore professionale è dipendente da una cooperativa
alla quale il servizio Ade è stato appaltato.
In base alla normativa che prevede la territorializzazione, l’équipe
lavora all’interno di un distretto, la zona di Châtillon,
quella di mia competenza fa parte del distretto n. 3.
Le modalità di collaborazione dei componenti dell’équipe
socio-sanitaria, che dipendono da istituzioni diverse, sono regolate da
accordi di programma e da protocolli d’intesa.
Sono l’assistente sociale referente per il territorio del comune
di Châtillon e seguo una dozzina di alunni in situazione di handicap
attestato, nelle istituzioni scolastiche della zona.
Generalmente, grazie alla rete di servizi e al lavoro di équipe,
vengo a conoscenza della nascita di un bambino disabile o se la disabilità
si verifica successivamente, sin dall’insorgere dei problemi che
poi portano alla certificazione. Il mio ruolo si svolge con continuità
nella vita dell’individuo. Anche quando intervengo a scuola, non
mi limito dunque ai momenti di inserimento. Mi interesso all’evoluzione
del bambino, alla sua famiglia, all’inserimento nella società.
Offro aiuto e strumenti per fare sì che la persona o la sua famiglia
riesca a pensare a un progetto di vita. Ovviamente, ci sono tanti limiti,
tante difficoltà. Il mio ruolo di servizio sociale è dunque
molto vario e a volte anche creativo.
Il mio lavoro è quello di riuscire ad assecondare la famiglia o
l’individuo per trovare il giusto aiuto al proprio bisogno, tenendo
in considerazione diverse variabili:
i bisogni evidenziati; le risorse della persona, della famiglia e del
territorio. Non esiste quindi una risposta precostituita che possa andare
bene per ogni situazione.
Anche in seno all’équipe, il mio ruolo è quello di
fornire elementi di conoscenza sociale e globale della situazione. Porto
agli altri operatori tutte quelle indicazioni, in mio possesso, che allargano
la conoscenza del caso, che non si limitano solo all’ambito della
scuola o a quello terapeutico riabilitativo. In genere l’assistente
sociale è l’operatore che ha una conoscenza più approfondita
della famiglia e dell’ambiente sociale in cui l’alunno disabile
vive.
L’inserimento del bambino portatore di handicap nella scuola non
è semplice. Gli insegnanti, a volte, chiedono a noi operatori delle
consulenze più specificatamente pedagogiche. Risposte di questo
tipo non sono di nostra competenza. L’insegnante, spesso, si sente
solo ad accogliere il disabile, non ne conosce a volte le patologie e
le sue caratteristiche e chiede che l’équipe socio-sanitaria
fornisca consulenze di tipo didattico.
Compito degli operatori è quello di fornire le informazioni necessarie
per fare sì che gli insegnanti abbiano chiara la disabilità
dell’alunno e quindi possano adattare il programma educativo e didattico.
Purtroppo, succede ancora che l’inserimento dell’alunno portatore
di handicap venga delegato quasi completamente all’insegnante di
sostegno.
Gli operatori si fanno, a volte, portavoce della necessità di garantire
una maggiore integrazione dell’alunno nella classe. Alcuni insegnanti,
soprattutto curricolari, fanno ancora fatica a gestire l’insegnamento
in favore dell’alunno disabile. Malgrado i loro sforzi, non sempre
i docenti intervengono in modo adeguato. Il non raggiungimento degli obiettivi
che si sono prefissati crea in loro frustrazione. Spesso non avendo chiare
le effettive capacità e le reali potenzialità del bambino
ipotizzano traguardi inadeguati, o troppo elevati o troppo semplici.
Non credo che gli insegnanti possano sentirsi a disagio con l’équipe
socio-sanitaria. Può capitare, per fortuna raramente, che qualcuno
pensi di essere “controllato” nel suo operato e abbia timore
di essere giudicato. Nessun operatore intende controllare o giudicare
l’operato degli insegnanti, anche se a volte succede che, ad esempio,
suggeriscano agli insegnanti alcune modalità di intervento. Questo
avviene normalmente in un’ottica di collaborazione costruttiva,
in funzione del benessere del minore.
Nell’ambito della scuola viene elaborato il PEI, Piano Educativo
Individualizzato. Si tratta di un progetto operativo interistituzionale
che coinvolge operatori della scuola, dei servizi sanitari e sociali e
i familiari. È un progetto educativo e didattico personalizzato
che riguarda sia gli aspetti relativi all’apprendimento, sia gli
aspetti riabilitativi e sociali.
Con tutte le figure coinvolte nel PEI, l’assistente sociale collabora
per la stesura di un progetto globale che non si limiti esclusivamente
al periodo scolastico, ma deve individuare ulteriori percorsi tesi a favorire
l’acquisizione di capacità e autonomie che consentano all’alunno
di gestire al meglio anche il tempo libero e la vita sociale.
Ogni membro dell’équipe partecipa al PEI portando la propria
specifica professionalità per la costruzione del progetto di vita
del soggetto in difficoltà e, sebbene ogni operatore, sanitario,
sociale e scolastico abbia chiaro il proprio ruolo, il problema della
condivisione di un linguaggio comune è ancora da risolvere perché
ognuno di noi tende a conservare il proprio modo di esporre, di capire.
Per facilitare la comunicazione, possono risultare utili iniziative formative
rivolte a operatori appartenenti a diverse istituzioni quali ad esempio
scuola - servizi - territorio - enti locali.
Un’attività dell’anno scorso, seppure non specificatamente
per l’handicap, il progetto “Sorriso”, destinato sia
agli insegnanti sia agli operatori sia ai medici ha permesso a diverse
figure professionali di condividere comuni modalità di lettura,
per interpretare i segnali di aiuto che vengono dal bambino. Sono state
anche organizzate giornate di aggiornamento, per favorire questa unitarietà
anche nell’ambito del PEI.
Il PEI è un documento complesso; raramente, riesce a descrivere
completamente la realtà del bambino. In ogni PEI sono inseriti
molteplici elementi, ma non sempre questi sono sufficienti a illustrare
la reale situazione dell’alunno. In considerazione del fatto che
molto sovente, da un anno all’altro, gli insegnanti di sostegno
cambiano. Se non è chiaramente riportato il lavoro svolto e la
modalità adattata, i livelli raggiunti e non raggiunti dall’alunno,
quando non c’è continuità didattica, si rischia di
perdere molto di quanto è stato fatto; ogni nuovo insegnante si
ritrova quindi a dovere ricominciare la conoscenza dell’alunno perché
il PEI non risulta uno strumento utilizzabile.
In questi ultimi anni, sono stati compiuti sforzi notevoli per perfezionare
questo documento, specifico per l’alunno disabile, per renderne
la lettura e l’uso sempre più chiari ed efficienti.
L’esempio di Paolo
Alcuni percorsi di accompagnamento danno, fortunatamente,
esiti positivi.
Posso portare l’esempio di un ragazzo che seguo da una ventina d’anni,
dall’età di circa un anno.
Paolo (un nome di fantasia) è portatore di un handicap di tipo
psicofisico: è un ragazzo che non deambula e ha un ritardo psichico.
Durante i suoi primi anni di vita, ovviamente, l’intervento prioritario
è stato di tipo riabilitativo per limitare i problemi fisici, di
linguaggio, di apprendimento…
Con il passare degli anni, si sono presentati altre difficoltà
da superare, più prettamente di tipo sociale e non esclusivamente
legate all’handicap.
L’intervento dell’assistente sociale è stato centrato
sull’aiuto alla famiglia. Nel corso degli anni, altri operatori
sociosanitari sono intervenuti e hanno concluso il loro intervento, l’assistente
sociale invece ha continuato ad occuparsi del caso.
Paolo ha compiuto tutto il percorso dell’obbligo scolastico; ha
frequentato le SEFO (Structures d’éducation, de formation
et d’orientation, - che oggi non esistono più e che sono
state sostituite da altri tipi di intervento).
Paolo si è avvicinato al mondo del lavoro tramite i percorsi attivati
dall’Agenzia del lavoro e dai “Projet formation”. Ha
effettuato dei tirocini professionali e, finalmente, è riuscito
ad ottenere un’assunzione vera e propria; un lavoro. Ovviamente,
Paolo usufruisce di tutti i supporti di cui questo lavoro necessita. È
stata necessaria l’attivazione del trasporto, perché si tratta
di un ragazzo che non deambula e non può usare i mezzi pubblici;
usufruisce di supporti offerti dall’USL di Châtillon e visto
che lavora ad Aosta, è stata richiesta la collaborazione di Casa
Betania.
Gli è stato garantito un dignitoso inserimento professionale e
sociale mettendo insieme elementi di diversa natura.
Paolo necessita, ancora, di un aiuto non solo nella gestione personale
ma anche nella gestione della propria vita.
Diversamente ad altre figure professionali che hanno concluso il loro
intervento, l’assistente sociale mantiene e rappresenta per il ragazzo
e la sua famiglia, il punto di riferimento.
Il caso di Paolo è, per me, un’esperienza gratificante. Ho
potuto verificare che il lavoro fatto ha portato dei risultati.
Tuttavia, il mio intervento non è concluso. Lavoro per dare continuità
e organicità a tutti i “pezzettini” della vita di questa
persona che avrà sempre bisogno di aiuto e mai potrà arrivare
all’autonomia totale nel raggiungimento dei propri scopi di vita.
Purtroppo, esistono numerosi esempi di situazioni che non si risolvono
così. Ogni caso è diverso. Non tutti i ragazzi portatori
di handicap devono obbligatoriamente perseguire, come Paolo, l’obiettivo
dell’avviamento al lavoro. Esistono anche dei ragazzi per i quali
il lavoro non è la soluzione; o perché non hanno competenze
di tipo lavorativo o perché, anche se possiedono competenze di
tipo lavorativo, non si riesce a trovare il lavoro confacente ai loro
bisogni e ai loro limiti.
Sempre di più si evidenzia che il lavoro non è l’unico
sbocco per i portatori di handicap. Molti inserimenti lavorativi sono
risultati collocazioni assolutamente assistenziali. La filosofia prevista
dalle nuove leggi del collocamento dei disabili prevede la certificazione
delle competenze e delle abilità della persona disabile, per riuscire
a individuare il giusto abbinamento lavorativo che vada bene sia per il
lavoratore sia per l’azienda.
La persona disabile non è competitiva sul mercato del lavoro, spesso
è priva di professionalità, con difficoltà a reggere
i tempi e ritmi della produzione, il collocamento al lavoro non è
la risposta per tutti, si dovrà arrivare a costruire delle situazioni
di lavoro e/o occupazione che partano dai bisogni degli utenti con
l’utilizzo di strumenti specifici, quali per esempio le borse lavoro
o la cooperazione.
Maria Cristina Rudà
Assistente sociale presso il poliambulatorio dell’Unità
Sanitaria Locale di Châtillon.
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