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Qual'è il mio rifugio a scuola?

L'ambiente scuola offre spazi di rifugio?
Vivere la quotidianità scolastica è vivere una forma di esistenza, con regole esplicite ed implicite proprie, riti e routine particolari. Ben lo sa chi, come me
da svariati decenni entra regolarmente in classe ad inizio anno scolastico. Se non avessi trovato nelle scuole che ho frequentato per così tanto tempo un ambiente accogliente, la mia vita probabilmente sarebbe stata diversa. In classe, prima come alunna e poi come insegnante sono sempre stata bene.
Dal mio banco seguivo l'insegnante e comunicavo agevolmente con i compagni, che cosa potevo volere di più? Imparavo e mi divertivo. Come potevo immaginare per me un futuro diverso dal reiterare all'infinito quella situazione di privilegio? Avrei solo dovuto cambiare di banco, mi sarei seduta dietro la cattedra, un banco un po' più grande degli altri e le porte del mio rifugio sarebbero state per me spalancate per sempre! Non sono stata la sola a trovare un rifugio nell'ambiente scuola.
Una decina tra alunni, ex alunni, insegnanti ci hanno raccontato il loro rifugio a scuola, Maria Arcà, membro del nostro “Comité scientifique”, ci presenta, a conclusione, un'attività di ragazzi che addomesticano e fanno progressivamente loro l'ambiente scuola. Pagine diverse, quasi fogli di diari, per parlare di scuola da tutte le prospettive.

Giovanna Sampietro


Se donna Letizia intuisse…
L'aula era grande, la scuola era stata infatti una caserma degli inizi del secolo passato. I soffitti altissimi e l'acustica impossibile la rendevano a volte un curioso incrocio tra una cattedrale gotica ed uno stadio di calcio; questo faceva sì che in qualche momento l'insegnante avrebbe voluto essere da un'altra parte, in un altro luogo. Ma la postazione non poteva essere abbandonata; i pargoli andavano contenuti e accolti, compresi e soccorsi.
Già, ma l'insegnante? Dal secondo piano lo sguardo fuggiva verso le grandi finestre e si fermava sulle foglie.
Grandi foglie di platano, pentagonali, appuntite, fogli giganteschi ora verdi ora marroni che svettavano verso il cielo della città. In un mare di cemento il cortile della scuola con i suoi grandi alberi era un rifugio precario, ma prezioso. Quella visione mi aiutava, mi faceva capire che, oltre i problemi di Maria e di Kalid, oltre le verifiche e i testi regolativi, c'era, fuori dall'aula, il mondo reale. Non so se fosse il famoso rapporto con il territorio di cui tanto si parla ora, ma l'anno successivo a questa prima osservazione botanico-esistenziale iniziai a portare in classe patate, semi, gerani e papiri e a farli crescere.
Riuscimmo poi a scendere in cortile in due livide mattinate di novembre, per radunare in giganteschi mucchi le foglie secche cadute in terra; i bambini erano affascinati dal rumore crepitante che si sprigionava camminandoci sopra. Lo fecero per lunghi minuti come se volessero caricarsi addosso quel suono per portarselo poi dentro l'aula. Per un momento mi parve di capire perché nei cortili di tante scuole ci fossero i platani; era forse un modo per attirare l'attenzione fuori quando la temperatura interna era pericolosamente alta.
Ma, per favore, acqua in bocca: se donna Letizia intuisse quale potenzialità creativa può rappresentare un platano in una scuola credo che li segherebbe tutti.
O peggio li potrebbe rendere materia di studio.

Giorgio Fragiacomo

Sul davanzale
Driinn, campanella! Mi fiondo in fondo al piccolo corridoio del primo piano, vicino alla segreteria, prima che qualcuno mi freghi il posto. Naturalmente porto con me gli appunti per sedermi sul davanzale della grande finestra e ripassare, proprio da studentessa modello. Ma più che studiare, mi incanto a guardare il piccolo cagnolino che, saltellando qua e là, gioca, al di là della siepe, nel prato della casa vicina alla scuola. Sono tranquilla nel mio piccolo rifugio e isolata dagli schiamazzi dei miei compagni che non mi permettono di rilassarmi; posso stare in pace con me stessa e dimenticare per alcuni minuti i prof che ti controllano imperterriti e non rischio di fare incontri indesiderati in corridoio.
Il tempo però è poco: sento già lo sciacquone del bagno accanto, allora esco per unirmi ai miei amici.

Clio Vergnani


La scuola, il mio rifugio
Può capitare che una stessa domanda posta appena conclusa un’esperienza o a distanza di anni ottenga risposte molto diverse. Sono trascorsi 18 anni dal diploma, abbastanza perché possa affermare di non ricordare di avere mai avuto bisogno di rifugiarmi da qualche parte quando ero a scuola. Anzi… la nostalgia che provo ogni volta che ripenso agli anni della scuola, soprattutto quella superiore, mi porta a sostenere che nel bel mezzo dell’ineluttabile crisi adolescenziale era la scuola a costituire per me un rifugio dai problemi della vita! Qualunque cosa mi accadesse fuori da quelle mura, qualunque problema si presentasse sulla mia strada ricordo che richiedeva l’immediato consulto con i miei compagni, fedeli e stimati amici, sopravvissuti in tutti questi anni, e anche con qualche insegnante. La scuola era il mio conforto, il mio porto sicuro, un luogo dove sdrammatizzare, dove prendere in giro e lasciarsi prendere in giro in un’età in cui tutto sembrava così straordinariamente serio. Mi spingo oltre: ancora oggi, in momenti in cui mi prende la tristezza, torno col pensiero a quei giorni e la scuola continua a costituire per me un rifugio, perché finisco sempre per sorridere.


Amanda Guarisco


Un rifugio portatile
Si parla di rifugio e si pensa subito a qualcosa di chiuso, di protettivo, di nascosto: la capanna sopra l’albero, la soffitta delle cianfrusaglie, il grembiulone della nonna. Un rifugio a scuola è qualcosa di più complicato; necessariamente portatile, imprescindibilmente invisibile, ma assolutamente indispensabile in quei momenti in cui ci si sente un po’ così…, capite, né su, né giù, con propensione alla malinconia e allo sbadiglio.
Come rifugio, durante la mia carriera di studentessa, ho sempre portato con me delle storie, anzi, una storia sola, diventata, con il tempo, tanto complessa, ramificata e intrecciata (si sa quello che combinano le storie, quando le si lascia spesso in compagnia dell’immaginazione) da occupare un intero mondo. I personaggi della mia storia vivevano persino in epoche diverse e non si incontravano mai, anche se io li conoscevo tutti. Per il loro regno avevo inventato un nome (anzi, mi era stato suggerito inconsapevolmente da un mio cugino, ma questo è un altro ramo della storia) ma non posso rivelarlo a nessuno. Sarebbe troppo rischioso, come indicare l’imbocco di un labirinto, l’entrata di un intricato, gigantesco formicaio, il bandolo di una matassa acchiappata dal gatto. Vi smarrireste alla prima biforcazione. Ci trovereste percorsi che finiscono nel vuoto, passaggi fitti di idee ingarbugliate, deserti di cui bisogna conoscere le oasi, covi di invenzioni strampalate e dal carattere suscettibile.
E poi, un rifugio portatile è uno strumento molto personale, come un casco su misura, un paio di scarpe o di guanti artigianali. Ma se davvero volete visitarlo posso accompagnarvi e farvi da guida, raccontarvi i rami più robusti, le fioriture più rigogliose. Magari potreste trovarci una gemma, un pollone di storia che vi si addice, un germoglio di idea, un ciuffetto di personaggi e portavelo a casa. Così potreste farne crescere uno tutto vostro. Non si sa mai; può sempre essere utile!

Barbara Rolando

Quel metro quadrato di corridoio
Esiste nella scuola un luogo in cui ritemprarsi e rimotivarsi? Se con questo si intende uno spazio tranquillo in cui riordinare le idee e riappropriarsi di un ritmo meno frenetico di quello che gli impegni scolastici talvolta impongono, non credo: non certo la sala insegnanti, che brulica di colleghi inseguiti da bidelli; non più la biblioteca, diventata una "succursale" della sala insegnanti.
Forse è ancora in grado di rispondere allo scopo quel metro quadrato di corridoio antistante il distributore del caffè, dove talvolta si incrociano destini, fatiche, idee e suggerimenti dei colleghi. Ma in realtà il luogo che più di tutti è in grado di ritemprarmi e rimotivarmi è proprio quello che più forze mi sottrae; sarà banale, ma la mia classe, quella in cui, in qualità di insegnante di lettere nel biennio di una scuola superiore, trascorro dalle undici alle tredici ore settimanali in compagnia di una ventina di ragazzi è il luogo in cui contemporaneamente mi stanco e mi ritempro, mi demoralizzo e mi rimotivo, mi interrogo e cerco risposte; è il luogo più vivo e interessante della scuola, l'unico in cui didattica, programmazione, docimologia e quant'altro hanno la possibilità di incontrare le persone e tradursi in relazioni.

Elena Meneghini

La tecnica del gatto
La scuola è il regno del rumore continuo, del brusio, dei ragazzi che “devono” continuamente dirsi qualche cosa. Il silenzio non è mai stato molto popolare a scuola e, al momento attuale, viene persino considerato come un elemento negativo. Si chiede di partecipare, partecipare, partecipare. Come se l'unica operazione necessaria al mondo fosse dire, dire, dire continuamente senza mai trovare spazio per cominciare ad ascoltare e pensare. Quanto spesso succede ai nostri ragazzi, e a noi stessi, di stare in silenzio a pensare?
Un mestiere come il nostro ha ragione di esistere se persegue il duplice obiettivo di educare e di insegnare; ma continui rumori di fondo, difficilmente contenibili, riescono a disturbare gli interventi più prettamente educativi.
Come abituare, dunque, gli alunni all'ascolto, come insegnare loro che è indispensabile saper ascoltare se stessi oltre che gli altri?
Per gli insegnanti l'ascolto, anzi spesso il sentire, è un disturbo, un'impossibilità. È un disturbo ascoltare gli altri, alunni e non, che hanno bisogno di te; cancellarsi per concedere agli altri lo spazio che vorresti tenere per te.
Ecco perché ho elaborato una tecnica che, credo, sia tipica di ogni insegnante: mi isolo, sparisco dal contesto, offusco il mondo esterno e mi ripiego su me stesso. Come per incanto, ciò che vive attorno a me smette di esistere; riaffiora così un ME STESSO capace di concentrarsi. Da quel momento, per alcuni istanti, non ascolto più. E riesco a SENTIRE…
D'altronde non esiste azione che non abbia a monte un pensiero; a maggior ragione un'azione didattica non pensata è spesso estemporanea o poco mirata. Ma come potrebbe esistere un pensiero senza concentrazione? E se la concentrazione è indispensabile è possibile secondo voi trovarla in mezzo a venti-venticinque ragazzi che si appendono alla giacca perché vogliono essere ascoltati?
Provate a immaginare e vi renderete conto di quanto sia difficile…
Ecco, io uso la tecnica del gatto. Mi isolo, penso, mi concentro, dimentico per qualche istante i miei alunni, ovviamente sempre tenendoli d'occhio. Mi guardo dentro, nel profondo, fino a dove trovo le mie emozioni. Solo così riesco a riempire di SENTIRE il mio insegnamento, a recuperare entusiasmi sopiti, a trovare nuovi stimoli e nuove idee.
E, molto spesso, è da quei momenti che nascono le mie poesie.

Bruno Fracasso

Nous rions, oh, oui, nous rions beaucoup
Eh bien, mon abri à l’école, c’est un petit coin où j’ai tous mes livres, où parfois je rencontre certains de mes collègues avec lesquels il est facile de communiquer de façon immédiate et sincère.
C’est peut-être à cause du temps qui passe, ou plutôt de la loi-médiocrité que l’Institution scolaire impose à tout prix ; de la constatation que le niveau de départ des élèves est de plus en plus bas, que la qualité des compétences et la richesse des contenus doivent être sacrifiées pour les enquêtes socio-psychologiques ; c’est peut être qu’au lieu de pouvoir dire simplement aux élèves qu’il faut étudier (c’est-à-dire être attentifs en classe, prendre des notes, et chez soi relire et répéter afin de mémoriser), on doit perdre des heures à se questionner en vain sur les raisons de la paresse, épidémie envahissante like Sars ; c’est peut-être à cause des fiches à remplir qui demandent toujours les mêmes choses en changeant seulement la mention de référence ; à cause du système scolaire qui ne remarque absolument pas la qualité du travail exécuté ;
à cause des réunions absurdes ; peut-être à cause de ces raisons, mon abri à l’école, pour ne pas tomber dans la Folie et ne pas en savoir faire l’Éloge, c’est la possibilité de dialoguer sur toutes ces questions, d’échanger des opinions avec ces collègues avec lesquels tout se simplifie en deux minutes, tout s’éclaircit et aussitôt moi, qui me sentais folle, rejetée, différente, je me sens réconfortée. Nous partageons les mêmes points de vue, nous relativisons les positions, nous rions, oh, oui, nous rions beaucoup. Voilà, notre abri c’est l’Éloge du rire, notre éternelle jeunesse, le rire pour se défendre de la folie collective qui complique les apparences linguistiques pour couvrir le vide absolu.
Merci chers collègues, chers amis, dans cet océan qu’est l’école, vous êtes ma bouée.

Anna Galliano


Sotto la piazza del mercato
Se qualcuno, poco esperto delle vie di Saint-Vincent, cerca la sede "provvisoria" (chissà per quanti anni sarà la sede stabile!) della scuola media del paese, solo con qualche difficoltà la trova.
Si reca di certo all'indirizzo giusto, nella Piazza del Mercato, e probabilmente cerca un edificio alto, spazioso, forse a più piani, una qualche insegna… e invece vede, sul lato sinistro, un basso condominio stretto e lungo, negli altri lati solo parcheggi e, nel mezzo, una specie di gabbiotto in muratura. E la scuola? Certo non può immaginare che si trovi sotto i suoi piedi e che quel gabbiotto sia l'accesso per i piani inferiori.
Se, ardito, scende al piano -1, varca una porta di sicurezza sempre aperta e una porta a vetri, si trova in un quadrilatero tutto grigio e blu, con luci al neon, e finestre poste solo in alto.
Sui lati ci sono le aule e la sala insegnanti e, nel mezzo, senza illuminazione naturale, quattro magazzini trasformati nell'ufficio della vicaria e in qualche aula speciale.
In questo "bunker" (così i ragazzi chiamano la scuola), dove trovare un rifugio in cui riprendere le energie, rinfrancare corpo e spirito?
Abituata, da precaria per quasi dieci anni, ad insegnare nelle piccole scuole delle valli laterali, in case, talvolta dal valore storico, affacciate su splendidi panorami, dove bastava posare lo sguardo su ciò che mi circondava per ritrovare un po' di pace, come rintracciare, nella mia nuova sede, un luogo esteriore, che consenta una piccola pausa tra i fogli, i libri, le voci, le grida che per tutta la mattinata mi accompagnano?
Impossibile! Soprattutto per una persona come me che, per carattere e formazione, identifica il rifugio con il silenzio e la bellezza.
Posso allora cogliere attimi di pace nelle persone: nel sorriso amico dei colleghi e delle bidelle, nello sguardo soddisfatto di qualche alunno, dentro me stessa quando, prima di entrare in classe, mi fermo, faccio un bel respiro e levo lo sguardo verso l'alto.

Isabella Carena


Per tanto tempo la scuola è stata il mio rifugio…
A scuola, mi rifugiavo proprio bene e non perché non stessi bene altrove. Appena solcavo la porta d’ingresso mi trasformavo e diventavo un’altra me stessa, diventavo la professoressa appagata e contenta che si muoveva come una gazzella tra un banco e l’altro, soddisfatta o incavolata per il lavoro svolto ma sempre fondamentalmente serena.
Salivo le scale, attraversavo i corridoi, scendevo in biblioteca. Preparavo il compito di recupero preoccupandomi di un alunno in difficoltà, scambiavo un
opinione con un collega per portare gli ultimi ritocchi a un progetto comune; se nel frattempo ero convocata per una riunione straordinaria, mi fermavo il tempo necessario senza problemi, anzi ne traevo soddisfazione.
Poi un giorno tutto è cambiato…, la serenità ha lasciato il posto all’insoddisfazione, alla fatica del quotidiano, alla mancanza di entusiasmo, talvolta all’angoscia… Forse è perché gli anni sono passati, ma ora il mio rifugio è altrove.

Wilma Tonetta

Ricarica? Forse...
A scuola mi ricarico quando riesco a fare una lunga espirazione ed a “godermi” l’espirazione.
È il momento in cui mentalmente mi allontano dal sistema di relazioni nel quale sono inserita per “ritrovarmi”; la mia mente si libera dalla contingenza e si crea uno spazio per gli affetti familiari, per prospettive di organizzazione dell’immediato futuro: prima passo a prendere i bambini e poi faccio la spesa o il contrario?
Ma il processo di ricarica è attivato da una persona specifica: la collega a cui affidare la classe che, a seconda del vissuto delle ore precedenti, può rappresentare un’oasi a cui dissetarsi, la quiete dopo la tempesta o semplicemente un volto amico che porta una ventata di aria fresca, di “esterno”, che ti dice che comunque sia andata la giornata, là fuori c’è uno spazio ed un tempo “altro” da ciò in cui si è stati immersi fino a poco prima.
Bene, con l’arrivo della collega si materializza la “conditio sine qua non”; a questo punto è possibile raggiungere lo spazio per ricaricarsi: esso inizia dal corridoio che porta alla sala insegnanti ed al bagno adiacente, l’agognato bagno spesso impossibile da raggiungere...
Nel corridoio si realizza l’inspirazione di cui sopra, accompagnata dall’allontanarsi di un brusio sempre più sommesso e dall’inizio di un timido silenzio fondamentale in quanto carburante della ricarica.
Attraversata la sala insegnanti si varca la porta del bagno, al cui interno si profila una situazione insolita e quanto mai precaria nella scuola dell’infanzia: la solitudine - girata la chiave - è una certezza: si è soli!
Ma il percorso descritto può essere minato da una coda che ti spunta inaspettatamente, formata da personcine spiritose che decidono di non lasciarti e di oltrepassare lo spazio “off limits”, “la stanza dei bottoni”, il confine invalicabile: la sala insegnanti.
E allora tra scoppi d’ilarità, suscitati dalla forte emozione dovuta all’atto di coraggio o ammutolimenti improvvisi ti ritrovi a rispondere a domande sul monitor, sui cappotti appesi, sugli armadi chiusi o sui cadaveri burocratici che da giorni giacciono sul tavolo...
Lo spazio è stato invaso, il silenzio rotto, la mente trattenuta da un’effervescente ed incontenibile curiosità.
E allora a quel punto che fare?
Di solito si rinuncia alla ricarica, respingendo pensieri ed emozioni, con la speranza di trattenerli fino a casa!

Paola Avenatti

Decido di andare in bidelleria
Il professore incespica le parole, è stanco, lo siamo tutti in questa classe. I suoi occhi socchiusi osservano i ventuno studenti, per metà a riposo, per metà sempre sull'attenti. Io, sfortunatamente (o forse è meglio così), faccio parte della prima metà. Quando la lezione di francese inizia a scivolare sempre più verso il nulla decido di alzarmi. Lo sguardo del professore segue i miei movimenti e cerca di cogliere la traiettoria dei miei occhi. Non appena la trova, il professore, sussurra con voce roca un "sarebbe meglio chiedere prima di uscire", che, tuttavia, da il via alla mia fuga. Cammino verso la porta, accarezzando con la mano destra i libri e gli astucci dei miei compagni. Prima di aprire la porta verso una libertà di venti minuti al massimo, do un ultimo sguardo alla classe intera e lancio un sorriso a Claudio o a Stefano. La porta si apre, portandosi dietro il classico rumore che producono le vecchie porte dai cardini poco oliati, si chiude accompagnata dalla stessa musica ma che questa volta termina con un leggero colpo. Libero, si, ma per venti minuti al massimo.
Decido di andare in bidelleria per parlare con il “personale non docente”, così ci dicono di chiamarlo. Cammino per al massimo cinque o sei metri ed entro nel mio rifugio. Oggi trovo dentro Lidia ed Enrica, in assoluto le mie preferite. Mi salutano. Sul tavolo che un tempo era una cattedra tutto il necessario per ammazzare il tempo.
La settimana enigmistica, dei biscotti, volantini e diverse carte arrivate dalla segreteria dalla discutibile utilità. Iniziamo a parlare, scherziamo, parliamo del natale e delle vacanze. Lidia è andata in Calabria a trovare alcuni parenti mentre Enrica ha preferito andare a sciare con la sua famiglia. A questo punto io racconto dei miei venti giorni di vacanza, di come gli ho passati e forse alcuni anche buttati. Lidia mi chiede chi abbiamo in classe, io le rispondo e subito scoppia una risata che colpisce le due bidelle. Quello di francese è un professore un po' particolare. Enrica mi offre un cracker, io ringrazio e ricambio con un sorriso.
Sono passati dieci minuti, tra risate e discorsi più o meno seri, ed ecco che esce dalla classe Francesco. Mi viene a chiamare. "Il professore - dice - è incazzato nero perché non sei ancora entrato!". Lo dice sempre.
Francesco entra in bidelleria, si siede, chiede un cracker che in pochi secondi Lidia gli pone sulla mano sinistra. Il tempo passa, Cisco racconta degli aneddoti capitatigli durante le vacanze di Natale. Dopo cinque minuti esce Claudio. È venuto a chiamarci , ma nei suoi occhi osservo una grande voglia di fermarsi in bidelleria per un po'. Egli ripete la stessa frase: "il professore è incazzato nero, - e aggiunge - però ho voglia di un caffè". Così corriamo verso un secondo rifugio, è al secondo piano. La macchinetta del caffè a scuola ha la peculiarità di produrre un rumore insopportabile durante gli intervalli, figuriamoci durante un'ora di lezione! Passano cinque minuti, finiamo di consumare le insipide bevande e scendiamo al piano terra. Risalutiamo le bidelle ma invece di catapultarci immediatamente in classe decidiamo di fare un ultimo salto in bagno. Nessuno di noi ha un irrefrenabile bisogno di usare il bagno ma questo rimane sempre un modo di soffocare la noia. Qualcuno ha fumato, tre cicche galleggiano nel cesso, la finestra è aperta e il freddo è pungente per il fatto che siamo a gennaio. Francesco è tornato in classe, allora cominciamo ad avviarci anche io e Claudio. La porta si apre più velocemente di come la avevo aperta venti minuti fa e non produce il solito rumore. Il prof. urla. Nulla di grave. Sono salvo fino ai prossimi venti minuti di libertà.

Alberto Zanin

 

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