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Riforma del secondo ciclo: quali scenari

L’assenza di una norma prescrittiva ha dato l’opportunità ad ogni Regione di sperimentare un proprio modello in funzione del contesto culturale, economico, produttivo e politico. Quale modello prevarrà? Conoscere gli esiti di queste sperimentazioni è fondamentale per emanare il decreto applicativo.


PREMESSA

Per conoscere i possibili scenari futuri della riforma è utile leggere lo schema della relazione del 16 marzo 2004 di Giuseppe Bertagna dal titolo “La riforma del sistema educativo d’istruzione e di formazione”. Trattandosi di un documento tecnico, in sede politica potrà subire dei cambiamenti.
Emblematica, a questo proposito, è la sorte del testo presentato dallo stesso Bertagna agli Stati Generali della Scuola del dicembre 2002, che prevedeva per il secondo ciclo un unico sistema educativo, articolato nella filiera dei licei e in quella dell’istruzione e formazione professionale, entrambi di durata quadriennale. Com’è a tutti noto, la Legge delega 53/2003 di riforma del sistema educativo, che ha tradotto in articolato normativo quei principi, prevede invece un percorso quinquennale per il sistema dei licei e “di durata almeno quadriennale” per il sistema parallelo dell’istruzione e formazione professionale (art. 2 lettera h L. 53/2003).
Già all’indomani dell’approvazione della legge si è aperto il dibattito sull’interpretazione di alcuni passi della Legge delega, che hanno un’importanza strategica per prevedere dove va la scuola italiana.
In particolare, fra i numerosi nodi da sciogliere c’è quello relativo all’interpretazione dell’art. 2 lettera g) della riforma, che prevede il secondo ciclo articolato in due filiere: il sistema dei licei e quello dell’istruzione e formazione professionale. L’aspetto controverso riguarda la sorte degli Istituti Tecnici e degli Istituti Professionali, alla luce di quanto sancito dalla legge costituzionale n. 3/2001 che assegna alle Regioni la competenza legislativa esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale mentre lascia la filiera dei licei alla competenza legislativa di Stato e Regioni, in concorrenza tra loro. Restano tuttavia di competenza dello Stato, per entrambi i canali, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e gli standard minimi formativi che definiscono la misura e il livello dei LEP.
Nella sperimentazione di percorsi triennali, che si sta attuando in alcune Regioni e che anticipa il sistema dell’istruzione e formazione professionale, questi standard minimi formativi sono stati definiti dallo Stato e approvati dalla Conferenza Unificata Stato Regioni del 19/6/2003, permettendo di assicurare la spendibilità nazionale delle qualifiche rilasciate. La regione Piemonte, grazie ad un tavolo tecnico scuola-formazione professionale ha declinato questi standard minimi relativi alle competenze di base, in funzione del contesto territoriale.
La citata relazione Bertagna fa riferimento alle indicazioni emerse in seno alla così detta Commissione Moratti, che sta lavorando all’elaborazione delle “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati” degli otto licei, sulla base dell’impianto già utilizzato per la riforma del primo ciclo. Non ci saranno invece Indicazioni nazionali relative al canale dell’istruzione e formazione professionale, perché è di competenza esclusiva delle regioni.
Il problema al quale la Commissione cerca di dare una risposta convincente è quello di rendere i due canali effettivamente equivalenti, con pari dignità. Per conseguire questo obiettivo lancia l’idea del CAMPUS, “una riprogettazione dell’offerta formativa territoriale per il secondo ciclo che veda presenti, nella stessa sede i corsi liceali e i corsi dell’istruzione e formazione professionale”, superando il concetto di classe, a favore di gruppi di livello, di compito o elettivi che coinvolgano alunni sia dei licei, sia degli
istituti di istruzione o formazione professionale.
Una proposta, questa, analoga a quella avanzata da Confindustria, nel Convegno di Vicenza del 20 aprile 2004, che teorizzava la costituzione di poli educativi a livello territoriale che comprendano sia il percorso del liceo tecnologico, sia quello dell’istruzione e formazione professionale, sia i corsi serali e corsi di Educazione degli Adulti, sia un’offerta stabile di formazione superiore.
La Valle d’Aosta, con la creazione di raggruppamenti di istituzioni scolastiche che vedono presenti nella stessa Istituzione il Liceo Classico e l’Istituto d’Arte, si può affermare che ha anticipato queste indicazioni programmatiche.

LA SPERIMENTAZIONE REALIZZATA DALLE REGIONI

Nell'attesa dell’emanazione dei decreti applicativi della riforma, molte Regioni stanno sperimentando - sulla base delle indicazioni contenute nell’accordo quadro del 19/6/2003 sottoscritto dal MIUR, dal MLPS e da tutte le regioni, province, comuni e comunità montane - la realizzazione di un’offerta formativa sperimentale di percorsi triennali di istruzione e formazione professionale.
Rispetto alle scelte che gli studenti devono fare a 14 anni, tra i due canali dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale, si stanno sperimentando sostanzialmente due modelli. Da un lato, quello della regione Emilia Romagna (Legge Regionale BASTICO), che propone un percorso biennale integrato, scuola e formazione professionale, offrendo l’opportunità ai giovani di posticipare di due anni la scelta tra le due filiere.
Dall’altro lato, il modello della Regione Veneto ed altre regioni, che prevede la scelta netta - sempre a 14 anni - tra l’istruzione nelle scuole secondarie superiori e la formazione professionale da spendere nelle agenzie formative.
Tra questi due modelli c’è quello intermedio che è stato progettato e gestito in Piemonte. Anche in questo caso lo studente deve fare una scelta netta tra i due canali, ma se si inserisce in quello delle formazione professionale, le competenze di base sono “di norma” insegnate dai docenti della scuola secondaria superiore, secondo una logica di integrazione tra i due sistemi.
Perché questa scelta del modello integrato è strategica? Perché grazie alla solida formazione culturale assicurata dai docenti della scuola, si assicura ai giovani la reversibilità della scelta fatta a 14 anni.
Infatti, se come spesso avviene, si riesce a rimotivare lo studente al “sapere”, attraverso il “sapere fare”, egli potrà rientrare a scuola sia durante il percorso triennale, sia al termine, dopo avere conseguito la qualifica regionale. In questo modo garantendo i passaggi tra i due canali si realizza la loro pari dignità culturale.
Il sistema educativo è unico e comprende entrambi i canali; coerentemente a questo principio la Commissione Moratti ha elaborato il Profilo Educativo, Culturale e Professionale (PECUP) dello studente alla fine del secondo ciclo di istruzione, valido ai fini della determinazione dei livelli essenziali di prestazione per gli Istituti dell’istruzione e della formazione professionale. Analogamente è stato redatto il Profilo per lo studente che sceglie il canale dei licei; i due documenti si differenziano solo per la sezione dedicata agli “strumenti culturali”.
Il sistema educativo è unico, ma il biennio non è unico, bensì unitario. Questo aspetto della riforma ha dato origine, già nelle passate legislature, a polemiche vivaci.
È evidente che l’unicità del biennio sposterebbe la scelta dei giovani a 16 anni, quando la coscienza di sé, delle proprie attitudini e capacità è più matura. Tuttavia questa consapevolezza si può acquisire grazie ad un curricolo unitario, ma non unico che preveda, già nel biennio, assaggi di discipline caratterizzanti che permettano al giovane
di autovalutarsi.

SCUOLA-LAVORO: L’ALTERNANZA PREVISTA DALLA RIFORMA

A partire dal quindicesimo anno di età, sia nel canale dei licei, sia in quello dell’istruzione e formazione professionale, gli studenti possono scegliere la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro (art. 4 L. 53/2003). Questo nuovo istituto giuridico non sostituisce le esperienze tradizionali di integrazione tra scuola e lavoro, come gli stage realizzati in Italia o all’estero, (art. 2 lettera i L. 53/2003) e i tirocini formativi (L. 196 /1997 e L. 30/2003).
La novità del modello italiano dell’alternanza – così come è disegnata dalla legge di riforma - ci distingue da altri sistemi formativi, come quello della Germania, per due aspetti.
PRIMO: l’alternanza non è un nuovo canale formativo, ma una metodologia. È stata esclusa l’ipotesi della filiera autonoma, perché sarebbe diventata una scelta residuale, destinata ai giovani drop-out.
SECONDO: la titolarità è della scuola, che garantisce l’incontro tra lo studente e l’azienda in un contesto formativo, con l’esclusione di finalità meramente produttive che potrebbero prestarsi ad uso strumentale della forza lavoro giovanile.
Con il metodo dell’alternanza si devono conseguire gli stessi obiettivi previsti per il curricolo ordinario, ma utilizzando una didattica diversa.
In questo modo la cultura, intesa come conoscenza disinteressata (THEORIA), si integra con l’approccio operativo realizzato sia con attività d’aula basate sulla didattica laboratoriale, sia con esperienze realizzate in un contesto lavorativo che potrà essere quello dell’impresa, ma anche quello degli enti “no profit” (volontariato) ecc.
Si vuole così superare una gerarchizzazione dei saperi, che nell’attuale contesto culturale, sociale ed economico sono ugualmente strategici per la personalizzazione dei percorsi, aspetto che è al centro della riforma di questo Governo, così come del precedente.
L’alternanza si differenzia dalle attuali esperienze scuola-lavoro perché sostituisce una parte del curricolo ordinario. Si dovrà quindi prevedere l’articolazione della classe in gruppi di compito, sulla base della libera scelta degli studenti, prevedendo lo svolgimento delle esperienze lavorative delle quali è riconosciuta la valenza culturale ed educativa. Così per esempio, in una classe di liceo, un gruppo di alunni seguirà un percorso lavorativo in un museo, in una biblioteca, in una casa editrice, mentre gli altri studenti svolgeranno, per esempio, attività di appro fondimento in classe.
A conclusione del percorso scolastico–formativo realizzato in alternanza, il giovane riceverà una certificazione aggiuntiva (oltre a quella prevista per il curricolo ordinario), che sarà valida sia ai fini del conseguimento del diploma, sia per eventuali passaggi ad un altro sistema.
Questa certificazione rappresenta un valore aggiunto, che i giovani potranno spendere in termini di crediti non solo nella transizione ad un altro canale, ma anche al momento dell’inserimento nel contesto lavorativo.

CONCLUSIONI

Tutti coloro che in questi quaranta anni hanno seguito le vicende della riforma della scuola secondaria superiore, ricordano che il nodo controverso della spendibilità dell’obbligo scolastico nella formazione professionale a partire dai quattordici anni di età, ha condizionato fortemente le strategie di riforma di tutti i Governi di quegli anni. Il precedente Governo aveva affrontato questo problema con la Legge 9/99 che elevava a sedici anni l’obbligo scolastico, adeguando così il nostro Paese ai livelli di scolarità obbligatoria prevalenti nell’Unione Europea. Tuttavia, in sede di applicazione di questa legge fu adottata una norma transitoria, che limitava a quindici anni l’obbligo
di istruzione. Si dovette così costruire un percorso formativo che in un solo anno raggiungesse due finalità contrastanti: quella della propedeuticità per gli studenti che intendevano frequentare tutti i cinque anni dell’istruzione e quella della terminalità per coloro che, con l’obbligo assolto, passavano alla formazione professionale o all'apprendistato. Conseguentemente i risultati - in termini di riduzione dei tassi di dispersione - furono negativi, come ampiamente dimostrato dai monitoraggi del MIUR.
L’attuale Governo, con la legge delega del Ministro Moratti, ha abrogato la Legge 9/99 e contestualmente ha introdotto il concetto di diritto-dovere “all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque fino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età”, riprendendo così una norma già approvata nella passata legislatura (art. 68 L. 144/99).
L’Assessore della Regione Campania, Adriana Buffardi, che svolge un ruolo di coordinamento degli Assessori all’Istruzione delle regioni italiane, nel Convegno svoltosi a Milano il 27 aprile 2004 ha definito come un’opportunità il fatto che il Parlamento abbia utilizzato per la riforma lo strumento della legge delega. Infatti, come abbiamo visto, l’assenza di una norma prescrittiva ha dato l’opportunità ad ogni regione di sperimentare un proprio modello, in funzione del contesto culturale, economico, produttivo e politico.
Prevarrà il modello integrato che si sta sperimentando in Piemonte? La scelta dovrebbe essere fatta sulla base dei risultati della sperimentazione, in termini di successo scolastico. Il male oscuro della scuola italiana - così come l’ha definito Frabboni - è la dispersione scolastica-formativa e tutte le strategie di riforma hanno l’obiettivo di contrastarla.
L’ISFOL sta già curando un monitoraggio delle sperimentazioni realizzate dalle regioni; i risultati in termini di livelli d’apprendimento si potranno desumere anche dal futuro Servizio Nazionale di valutazione.
Ritengo che prima di emanare il decreto applicativo, sia preferibile attendere di conoscere gli esiti delle sperimentazioni, perché così facendo la scelta del modello sarà
fatta in funzione dell’interesse dei giovani.

Graziella Ansaldi Fresia
Dirigente tecnico della Direzione Regionale Scolastica del Piemonte incaricata per “l’assistenza tecnica
per lo sviluppo del sistema formativo integrato e relativi rapporti con la Regione, gli enti
locali e le parti sociali”.
Da alcuni anni svolge l’attività di vigilanza agli esami di Stato, per incarico della
Sovrintendenza Scolastica della Valle ’Aosta.

 

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