|
Primo
giorno di scuola Vive la rentrée!
J’ai trois ans
Récit de Christel Lambot
En repensant à mes différentes
rentrées scolaires, les souvenirs surgissent. Il y en a eu plusieurs
qui ont été un peu traumatisantes, mais je crois que la
plus dure, ça a été la rentrée à l'école
maternelle…
J'ai trois ans. Tout le monde s'émerveille devant
mes cheveux blonds comme le blé et mes grands yeux bleus où
brille, paraît-il, la lueur de l'intelligence. Je n'ai encore ni
frère ni sœur avec qui devoir partager l'amour de mes parents
et, pour mes quatre grands-parents, je suis la première petite-fille.
Résultat : toute la famille m'adore. Je suis choyée. Et
d'une nature inévitablement capricieuse. Autour de moi, on dit
que je parle fort bien pour mon âge. J'aime déguster les
mots compliqués qu'emploient les adultes entre eux. J'ai par exemple
une prédilection pour l'adverbe “ judicieusement ”.
Cela semble de bon augure à papa et maman…
Depuis quelques temps, un terme nouveau vient enrichir
mon vocabulaire. C'est le mot “ école ”. Maman m'a
déjà expliqué plusieurs fois que c'est un endroit
où les enfants vont pour jouer ensemble et pour faire des activités
intéressantes. Elle me dit aussi que j'ai de la chance, car maintenant
que j'ai trois ans, je vais pouvoir y aller aussi. Mamy m'a offert un
petit cartable bleu, qui contient une trousse rouge renfermant à
son tour de jolis crayons de toutes les couleurs. Elle m'a dit que c'est
pour aller à l'école, mais j'ai déjà commencé
à m'en servir… La tentation était trop forte !
Évidemment, le jour J a bien fini par arriver.
Aujourd'hui, maman m'a réveillée plus tôt que d'habitude.
Elle m'a mis une de mes plus jolies robes et elle m'a longuement brossé
les cheveux. Après le petit-déjeuner, on se met en route,
toutes les deux. La promenade est agréable, comme quand on va faire
les courses. Ça y est, on est arrivées ! On franchit une
grille pour pénétrer dans une cour au milieu de laquelle
se dresse un grand platane. Des enfants courent partout. Certains, les
plus petits, tiennent leur maman par la main. Je fais pareil et je la
serre bien fort “ Tu restes avec moi, hein ! ? Tu ne pars pas !
”.
Maman m'accompagne dans une pièce où il y a beaucoup de
petites chaises et des balles de toutes les couleurs. Une dame blonde
et mince s'avance vers nous en souriant. Elle m'explique gentiment que
nous allons passer la matinée ensemble. Ensuite, elle discute un
peu avec maman, puis lui dit : “ Vous pouvez y aller, Madame…
Ne vous inquiétez pas, tout se passera bien ! ”. Sirène
d'alarme dans ma tête. Maman va partir. Me laisser là toute
seule dans cet endroit inconnu. Mais la dame blonde me prend par la main
et m'entraîne vers un petit groupe d'enfants… Docile, je n'ose
pas faire trop d'histoires. Cependant, je regarde maman s'éloigner
avec les yeux d'un chiot en train de se noyer.
Ce n'est que le lendemain que je me révolte. Quand
maman me réveille, je refuse de manger et de m'habiller. Non, je
ne veux plus aller à l'école. Je veux rester à la
maison. Je déteste l'école. Je m'y ennuie. Les autres enfants
me paraissent des demeurés. Il leur faut une éternité
pour faire ce que je finis en cinq minutes. Rien à faire, maman
ne veut rien entendre. Elle m'enfile de force mes vêtements et m'ordonne
sévèrement de manger. J'avale difficilement un quart de
tartine et quelques gorgées de lait et on se met en route. Je pleure,
je crie sur tous les tons que je refuse d'aller à l'école.
Maman doit me porter. Je me débats comme un ouistiti enragé.
Pourtant, nous avançons inexorablement. Voilà la grille,
le grand platane… Comme c'est injuste ! Je pressens que cette tragédie
va se répéter tous les jours et je hurle, en proie à
un désespoir immense.
Concorso letterario
"Incontri in biblioteca" |
La settima Comunità montana Mont-Rose,
la biblioteca comprensoriale di Donnas e la casa editrice Stylos
hanno proposto nell'autunno 2003, il concorso letterario "Incontri
in biblioteca" dedicato al racconto.
La giuria, composta da Gianni Barbieri - bibliotecario, Sabrina
Brunodet - direttore editoriale, Giulio Cappa - giornalista culturale
televisivo, Alberto Cavaglion - storico e critico letterario, Daniele
Gorret - scrittore, Marco Jaccond - artista e organizzatore culturale,
Maria Pia Simonetti - scrittrice e consulente letteraria, e presieduta
dallo scrittore Alessandro Barbero, ha selezionato i racconti migliori
che sono stati pubblicati in un volume della casa editrice Stylos,
nella collana Fantastylos, in apposita serie (distribuito su tutto
il territorio nazionale).
Al concorso hanno partecipato 96 autori, provenienti da tutta Italia,
che si sono cimentati nel racconto breve partendo dallo spunto offerto
dal titolo del concorso e quindi con tema: la biblioteca. 27 i valdostani,
tra i menzionati: Giacinta Baudin e Christel Lambot.
L'edizione 2004 verterà sulla lettura ed il bando verrà
lanciato a settembre.
Per ulteriori informazioni, rivolgersi alla Biblioteca comprensoriale
di Donnas durante l'orario di apertura (tutti i pomeriggi, dal lunedì
al venerdì, dalle 14 alle 18 e la mattina dalle 9 alle 12
del lunedì, mercoledì e giovedì) tel. 0125/806508
- fax. 0125/804386 e-mail: bibliodo@infinito.it
|
Il mio primo giorno al liceo
Racconto di Chiara Lorenzetti
Intanto una notte in bianco non è una bella cosa.
Una notte in bianco e alzarsi alle sette è ancora peggio. Una notte
in bianco e alzarsi alle sette per andare a scuola è davvero demoralizzante.
La cosa più bella del primo giorno di scuola è
che si possono dire o fare le cose più assurde tanto sono tutti
così presi dal non sembrare degli scemi che nessuno fa caso veramente
a come si comportano gli altri. Solo che questo lo penso adesso, mentre
quel fatidico giorno ero anche io lì, concentrata sulle mie scarpe,
tentando di convincermi di non esistere.
Un'amica più grande si era anche sentita in dovere di prepararmi
psicologicamente durante l'estate, con delle simpatiche storie sulla ginnastica
assurda che eri obbligato a fare o sui suoi compagni più grandi
che circolavano in accappatoio per i corridoi della scuola, così
giusto per tranquillizzarmi.
Quel giorno, e solo quello, il silenzio in classe era incredibile. I professori
entravano ai cambi d'ora, si presentavano, benvenuti-impegnatevi-studiate,
ci illustravano le loro materie, tentavano di farci parlare, cosa che
cercavano di evitare accuratamente, e di mostrarsi disponibili. Uno di
loro, che era entrato con un'altra professoressa per presentarsi, si era
messo a guardare fuori dalla finestra con l'aria assente e la bocca aperta,
trasmettendoci subito la sicurezza di essere arrivati nel posto giusto.
Non so se è il caso che faccia esempi di questo genere sulle impressioni
che ho avuto dei professori, visto che in quella scuola ci sono ancora
e non vorrei doverci restare più del dovuto, anche se mi trovo
veramente bene, soprattutto dopo che siamo riusciti a farci amica la macchinetta
del caffè. Comunque nessuno di loro era sembrato particolarmente
terribile, quella mattina, il che era piuttosto tranquillizzante.
Dopo lo sbigottimento iniziale dovevo stabilire, giusto per sicurezza,
chi tra i miei compagni avesse un'aria simpatica e chi invece desse l'idea
di voler divorare chiunque si avvicinasse. Qualcuno lo conoscevo già,
gli altri invece la prima impressione si era rivelata pienamente sbagliata:
“quella tipa dev'essere tutta timidina, quella lì invece,
sembra che tutto le faccia schifo…”
E poi… l'intervallo… il momento in cui si concentravano maggiormente
i miei timori: gli studenti più grandi, che ti squadrano, quelli
della tua classe, che ti squadrano, il bisogno di trovare qualcosa da
fare, diverso dallo stare attaccati al muro-carta moschicida sperando
che i discorsi cadano dal cielo, e altri dilemmi di questo genere. Poi,
visto che cominciavano a formarsi vari gruppetti, con frasi tipo “ma
si, ho capito chi sei te! Ma si che
mi ricordo… andavamo all'asilo insieme!” o “ma va, davvero
eravamo vicini di casa?”, ho lasciato per un po' i miei timori sulla
carta moschicida e ho cominciato a ricordare che anch'io andavo all'asilo
con questo e quello e che, se non sbagliavo, da piccina ero andata in
vacanza con qualcuno di loro. Devo dire di aver avuto fortuna perché
conoscevo un buon numero di compagni, anche se la maggior parte solo di
vista e con pochi avevo parlato altre volte; comunque alla fine l'intervallo
è andato liscio come l'olio e superarlo si è dimostrato
più semplice di quanto la mia giovane mente complessata potesse
prevedere.
Non mi ricordo molto altro di quel giorno, a parte la valanga di domande
a casa “… com'èandatacos'haifattoraccontaracconta…”,
ma qualcosa di quelli successivi.
Intanto, dopo qualche giorno la tipa “timidina” mi aveva già
abbaiato tutta la sua rabbia repressa contro il mondo, mentre l'altra
semplicemente tentava a fatica di stare sveglia.
Una mattina ho sorriso ad una compagna e mi sono trovata di fronte un
viso di pietra: non pensavo stesse succedendo veramente, di solito bene
o male quando sorridi a qualcuno una qualche reazione c'è. Mi sono
autoconvinta di essere un essere inferiore per tre ore
prima di supporre che magari non mi aveva vista o pensava ai fatti suoi
o che ne so. Un altro giorno, il distributore di merendine è impazzito
e noi ci siamo dati al saccheggio di quelle cadute: durante la lezione
seguente avevamo tutti la bocca piena di cioccolato.
È stato un bel periodo, il primo mese a scuola.
Non so se molti si ricordano il loro primo giorno, personalmente ho un
ricordo piuttosto fresco solo di quelli del liceo: in seconda sono arrivata
in ritardo, come al solito; in terza sono caduta dal motorino lungo la
strada. Ora vedrò di arrivare decentemente almeno in quarta, il
primo giorno…
Débuts
Récit de Gabriela Gyori
À mon grand-père
Il s'agit d'un grand récit avec cinq personnages principaux : une
enfant, deux parents et deux grands-parents dans un décor magique.
Trois chambres d'un appartement devenaient de vraies merveilles à
mes yeux étonnés. Lorsque le jeu commençait, toute
la chambre de ma grand-mère était transformée, selon
le cas, en salle de classe, en cabinet de médecin ou en voiture
capable de parcourir mille et mille kilomètres et années.
Parfois j'allais avec grand-père au marché et, chemin faisant,
je trouvais toujours dans ses poches des bonbons. Autrefois, j'allais
avec mes parents jouer dans le parc, à côté du bloc
entouré de verdure. Souvent, grand-mère me disait un conte
de fées dans la chambre verte. Sur la table de nuit restaient les
lunettes et la montre de grand-père, la montre mystérieuse
qui indiquait non seulement l'heure mais aussi la date. Chaque jour portait
en lui l'Éternité.
Les années se sont écoulées et je
me trouve tout d'un coup dans l'amphithéâtre d'une université
française, entourée de figures étrangères,
de décors inconnus, de professeurs nouveaux, d'une langue que je
ne comprends pas entièrement. Bien que j'aie vingt ans, je sens
une identité dangereuse avec l'enfant qui n'avait pas peur de rêver,
pas même de la pluie, de chemins difficiles ou de l'avenir et qui,
accompagnée des quatre autres personnages est allée pour
la première fois à l'école.
Je ne pourrais pas dire lequel d'entre nous était le plus ému…
Maintenant les gens à côté de moi portent des habits
bigarrés, alors nous portions tous des uniformes. Quelle fête,
le jour où on a acheté l'uniforme! Je ne manquais aucun
miroir pour regarder la future écolière que j'étais.
Mon enthousiasme, ma peur, ma joie et ma douleur sont restés les
mêmes. Je me trouve très loin de la maison, de tous ceux
que j'aime tant, et la vie me force à me débrouiller toute
seule. Je suis au début et j'éprouve tous ces sentiments
qui accompagnent chaque nouveauté qui enrichit mon être pour
voir ce que le narrateur-démiurge a réservé pour
la suite de ce conte.
En effet, au début de l'école c'était pareil. Ensemble,
jusqu'à la porte de l'école, là, mes parents et moi
nous nous sommes séparés, événement tout à
fait naturel à ce moment-là, mais qui aujourd'hui me semble
d'une façon de quelque façon… prémonitoire,
un signe que l'existence nous avait fait regarder, ignorer et puis s'en
souvenir. À cette époque-là je ne savais pas encore
que jusqu'à aujourd'hui, ma vie allait toujours être une
série de nouveaux débuts, plus ou moins difficiles, mais
chaque fois chargés d'émotion : les rentrées, le
lycée, l'ouverture de l'année universitaire, le départ
pour étudier dans un autre pays. Tout a changé dans ma vie
lorsque je suis devenue écolière, une rupture qui me rappelle
violemment ma situation actuelle. Si extraordinaire, si difficile !
La cour de l'école conservait l'image (devenue au fil du temps
un peu cliché) des enfants joyeux, émus, les uns pleurant,
pendus à leurs mères, les autres bavards... Je me suis faufilée
parmi mes futurs copains et j'ai trouvé la jeune femme qui allait
être mon institutrice. Cheveux châtains, elle portait des
lunettes ; elle était encore étudiante et a gardé
ma main pendant toute la cérémonie. Le ciel était
plus bleu que jamais et le soleil brillait comme seul les matins d'automne
et les sourires d'enfants peuvent le faire briller.
Plus tard, entrée dans la salle de classe, je me suis rappelée
qu'autrefois j'étais la maîtresse d'une classe dont les élèves
étaient les ours, les chats, les pingouins- joujou et même...
ma grand-mère. Au contraire, j'étais alors assise sur un
vrai banc d'école, je portais mon cartable reçu peu de temps
avant et mon uniforme. Ironiquement, je me suis assise à côté
de celle qui allait devenir ma plus sauvage adversaire dans la classe
pendant les huit ans que nous avons partagés : Bianca. Nous avions,
toutes les deux, de petites tresses et une innocence indescriptible. Sur
les bancs nous attendaient les abécédaires et une fleur
frêle pour chacun de nous. Oui, c'était vrai, je m'étais
convaincue: j'étais écolière, et maintenant je suis
effrayée de ne plus l'être.
Jamais depuis ce jour-là je n'ai eu un état d'esprit pareil,
que je ne pouvais alors définir, mais qui représentait un
tourbillon de sentiments qui me chuchotaient que je n'avais ni passé,
ni avenir; seulement le présent merveilleux. Je jouais le rôle
principal dans l'Histoire du monde; j'étais l'Enfant et la première
journée d'école c'était l'Enfance.
Beaucoup plus tard, lorsque j'ai compris que mon enfance
était en train de finir, l'un des quatre personnages s'est décidé
à quitter la scène. Les meubles des trois chambres, qui
portaient en eux le frisson des années passées, ont été
amassés dans une seule pièce, exilés dans la cave
ou éloignés. Arrêtée, la montre mystérieuse
a été cachée dans un tiroir, près des lunettes
des yeux qui se sont fermés. Je n'étais plus enfant.
Le Prix International
Jeunes Auteurs |
Le Prix International Jeunes Auteurs, PIJA, prix
d’écriture en langue française, est un authentique
prix littéraire réservé aux jeunes de 15 à
20 ans. Sur un cycle de trois ans, le PIJA récompense alternativement
la poésie, le conte, la nouvelle et la lettre.
Sa vocation première est d’encourager les écrivains
en herbe de 15 à 19 ans. En récompensant les lauréats
par une “ vraie ” publication, des Éditions de
l'Hèbe (Grolley, Suisse), il permet cette rencontre miraculeuse
entre les jeunes auteurs et le grand public.
Gabriela GYORI a été une lauréate de Roumanie
de l'édition 2002 du PIJA.
http://www.pija.home.ro/ |
C'est la rentrée
Racconto di Giacinta Baudin
Si riprende.
C'est la rentrée.
Il tailleur ancora estivo, siamo a settembre, un settembre caldo che ci
ricompensa di una estate piovosa, ma perché quando si è
in vacanza il tempo è sempre infame? Avremo anche noi, noi insegnanti,
la nuvola fantozziana al seguito? Il tailleur, dicevo, di linone color
melanzana, colore che andava quest'estate, con una sottile riga giallo
limone, è appeso lì che mi aspetta fin da ieri sera, per
non perdere tempo con i tentennamenti di ogni mattina: che cosa mi metto?
Ci mancherebbe solo di arrivare in ritardo il primo giorno. Ma forse è
meglio un vestitino di quelli leggeri, di tessuto stretch microfibra,
tutto fiorito. Fa molto più giovane. Buttare via quell'aria per
bene ma, ahimé! , quanto noiosa, per indossarne una gaia, cameratesca,
partecipativa. Soprattutto per le mamme.
Il messaggio è “sono come voi: una giovane
signora che sa vestire e non si camuffa dentro un abito serioso per tenere
le distanze”. Un'offerta d'amicizia, di complicità. Allearsi
le mamme è una mossa strategica. Ci vuole per lavorare in pace
almeno i primi mesi fino alla fine del quadrimestre, diciamo, fino alla
prima resa dei conti. Mi hanno cambiato classe, per questo devo rifare,
riorganizzare “il primo incontro” con i nuovi allievi ed i
loro genitori. Detto così sembra che mi prepari per un “primo
incontro” amoroso. Che poi non è detto che non lo sia. Dieci
mesi insieme sono un bel pezzo di strada e momenti felici ce ne saranno
certamente. Ed altri più o meno burrascosi, nell'altalena, nel
variare del tempo, non solo meteorologico. Meglio comunque della calma
piatta, della interminabile bonaccia “monotona e senza speranza”.
Conrad insegna. Ma non divaghiamo.
Adesso una bella colazione sostanziosa poi il ritocco alle labbra con
un rossetto naturale: c'è ma non si vede, e via! Con la cartella
nuova. Come i bambini. Quali saranno i loro pensieri oggi? Che turbinio
di emozioni: attese, desideri, trepidazioni, progetti, speranze e crucci,
inquietudini, batticuori, tutte accuratamente nascoste dietro a maschere
d'occasione. Avranno le mie stesse ansie e per di più moltiplicate
perché, in fin dei conti,
il controllo della situazione è più in mano mia che loro.
Ci sarà lo sbruffone che nasconde i suoi timori esagerando con
la disinvoltura, e quello timidino che ancora si afferra alle gonne della
mamma, e la bambina tutta strigliata che racconta con fare saccente le
belle vacanze che ha passato chissà in Grecia o in Sardegna o anche
in luoghi più esotici, i maschi con i capelli sparati in alto da
un gel rigido come cemento.
- Arrivano i Barbari… e le Barbarelle.
Non mancherà di dire il nostro Nicola. Chissà se ci accoglierà
anche quest'anno con la sua frase ad effetto?
I Barbari sono gli alunni, si capisce facilmente, ma le Barbarelle? Siamo
noi insegnanti. Deve essere stato giovane negli anni settanta quando quella
bambolona spaziale era un simbolo di bellezza irraggiungibile. Perciò
è un complimento discreto quello che ci fa Nicola, il bidello.
Mi sembra di vederlo, ritto sulla porta. La sua bella stazza occupa tutto
lo spazio. È un'istituzione nell'istituzione. Ci accoglie così:
bambini e maestre, tutti sotto la sua sorveglianza burbera affettuosa.
I lunghi anni di servizio gli permettono di questi toni e di queste confidenze.
Il pensiero di ritrovarlo quasi mi riconcilia con l'idea della ripresa.
Mi avvio con le migliori intenzioni. Il programma è già
abbozzato, dovrò confrontarlo con le colleghe ma in fondo ciascuna
rispetta la sacrosanta libertà d'insegnamento dell'altra all'insegna
del “non diamoci fastidio a vicenda”.
Mi aspetto sorrisi, strette di mano, promesse destinate a durare pochi
minuti: basta un urto, due spintoni, uno scatto di nervosismo e la bella
armonia da tutti auspicata, s'incrina e i buoni propositi vacillano, svaniscono,
ma che importa: si ricomincia e l'anno prossimo sarà lo stesso.
È molto rassicurante.
Il mio trentaseiesimo
Primo giorno di scuola
Racconto di Filippo Sergi
Suona, suona! Tanto sono già sveglio. A dirla
tutta non ho quasi dormito. Ma si può? A quarant'anni suonati!
Quanti primi giorni di scuola mi sono già sciroppato? Cinque alle
elementari, tre alle medie, altri cinque al liceo, quattro all'università.
Da quella parte del banco.
E da questa, la bellezza di altri diciotto. Totale:
trentacinque. Trentacinque primi giorni di scuola. Trentacinque. Me lo
ripeto perché quasi non ci credo. Rifaccio il conto. Ancora trentacinque.
Trentacinque. Bontà divina!
Il mio primo giorno di scuola della prima elementare durò una settimana.
Sette giorni passati in piedi, in fondo all'aula con le mani dietro alla
schiena, appoggiato
al muro. A piangere. Stupito perché la maestra me lo permetteva.
Io volevo la mamma. Piangevo. Lei diceva che avrei potuto sedermi quando
mi fossi ritenuto pronto. Io pensavo che non sarei mai stato pronto. Dopo
una settimana lo fui. Mi aveva preso per stanchezza.
Il mio primo giorno di scuola all'università - tredici anni erano
passati. Invano? - durò cinque ore. Cinque ore da incubo. La sveglia
suonò alle quattro. Il treno per Torino partiva alle cinque e quattordici.
Torino. Io a Torino?
Io, con un senso dell'orientamento così sviluppato che - pur abitando
in un appartamento decisamente piccolo - per andare in bagno dovevo chiedere
indicazioni a qualche parente. Non sarei mai riuscito ad arrivare in facoltà.
Via Principe Amedeo otto. Le vie di Torino sono tutte intitolate a principi,
duchi, re e regine. Così si assomigliano tutte. Ma i titoli nobiliari
non erano stati aboliti? Prendi il 56 o il 56 barrato. Ti lascia lì
davanti, fa mio fratello che non si perde nemmeno se lo mandi a Vallo
della Lucania passando per strade poderali. Ti
lascerà anche lì davanti, ma sei tu che devi sapere quando
sei lì davanti. E poi il biglietto dove lo faccio? E sarà
vero che a Torino ti sfilano il portafoglio senza che neanche te ne accorgi?
Per fortuna il giorno prima del primo giorno di scuola all'università,
mi ricordo che anche Lorenza della quinta E si doveva iscrivere a matematica.
Le telefono. Si è iscritta. Evviva! Domani viene giù. Evviva!
Sale a Saint-Vincent. Io mi devo affacciare
al finestrino. OK. Sono molto più rilassato. A Saint-Vincent mi
affaccio al finestrino. Lorenza non c'è! Il buon Dio non tiene
minimamente conto delle mie accorate preghiere affinché il treno
ritorni verso casa, il motivo lo decida pure lui. Devo scendere a Porta
Susa. Alla fermata precedente, unico in tutto il vagone, mi alzo per andare
verso l'uscita. Solo che la fermata precedente è Chivasso e manca
ancora una buona mezz'ora. Se non altro, alla stazione sono il primo a
scendere. Scopro che ce la posso fare. Trovo il tabaccaio. Mi vende i
biglietti. Mi faccio indicare dov'è la fermata del 56. La trovo.
Chiedo quale sia la direzione giusta. Salgo sull'autobus. A ogni fermata
chiedo se è quella dell'università. Dopo la terza, l'autista
impietosito mi dice di non preoccuparmi, che mi avverte lui. Dopo un po'
mi avverte che la mia fermata era due fermate fa e mi dice di scusarlo
tanto. Lo scuso tanto e scendo.
– “Scusi, l'università?”
– “Non saprei.”
– “Grazie lo stesso.”
– “Scusi, l'università?”
– “Quale università?”
– “Non importa, grazie lo stesso.”
– “Scusi, l'università?”
– “Da quella parte.”
– “Grazie davvero.”
Ci arrivo. Penso che troverò Lorenza. Sarà scesa in macchina.
Però poteva anche avvertirmi. Il bidello - ma sembra più
un boss che un bidello - mi indirizza verso l'aula giusta. Lorenza non
c'è. Sconforto. L'aula giusta non
è però quella giusta. Qui quelli con cognome da A a L. Io
S. Quindi laggiù.
– “Ciao Lorenza, felice di vederti”, ma sono a pezzi.
Gli altri miei primi giorni di scuola sono stati relativamente più
facili, e soprattutto ognuno di essi è durato un normale giorno
di ventiquattr'ore.
Sicché oggi è il mio trentaseiesimo primo giorno di scuola.
So già che avrò l'acidità di stomaco. Mi capita sempre
quando sono teso. Ho un bel far finta di nulla - hai quarant'anni suonati.
Non ti vergogni? -, respirare con la pancia, pensare a qualcosa di bello.
L'acidità arriva comunque. E come potrebbe non arrivare proprio
quest'anno. L'anno del passaggio di cattedra.
Ingoio un Maalox e esco. A metà delle scale torno indietro e prendo
la scatola, non si sa mai. Lungo la strada incontro Eliana, la collega
di lettere dei miei quindici anni di scuola media. Solo che questa volta
le vedo il viso, non la nuca. Ho la sensazione di chi sta andando nella
direzione sbagliata. Ansia. La mia mano cerca il Maalox nella tasca. Sorrido.
Eliana sorride e mi dà del traditore.
– “È che a quarant'anni ti viene voglia di cambiare.”
– “Sì, va be'.”
– “Ci sentiamo. Ciao. Ciao.”
Camminando mi dico ce la puoi fare. Al semaforo sono circondato da decine
di studenti che vanno di qua, di là, di su e di giù. Da
queste parti tutte le strade portano a una scuola. I miei chi saranno?
Mi guardo la punta delle scarpe. Verde (il semaforo). Pochi metri e spunta
il cancello della scuola. Entro nel cortile. Per la miseria! Ma sono un
milione! Razionalmente sono certo che ognuno si sta facendo i fatti suoi
o quelli degli amici con cui chiacchiera, ma non posso fare a meno di
sentirmi due milioni di occhi addosso. Attraverso il cortile in apnea.
Vicino alle scale un volto conosciuto.
– “Silvestro, sei qui? Ma non studiavi da geometra?”
– “Eh! Prof, cosa vuole, a vent'anni mi è venuta voglia
di cambiare!”
– “A me è successo lo stesso a quaranta.”
– “Ci vediamo. Ciao. Ciao.”
Entro stringendo sempre più forte la scatola del Maalox. Rassegnato
mi avvio alla sala insegnanti. Ce la puoi fare. Una sala insegnanti il
primo giorno di scuola è quanto di peggio si possa immaginare per
chi non ha nessuno da avvicinare. Tutti - gli altri - sono rilassati e
sorridenti. Tutti - gli altri - raccontano a tutti le loro vacanze. Tutti
- gli altri - chiedono a tutti
notizie dei bimbi. Tutti - gli altri - chiedono a tutti che classi avrai?
Tutti - gli altri - chiamano tutti per nome. Tutti - gli altri - chiedono
a tutti qualcosa. A me no. Le colleghe che ho conosciuto al corso di aggiornamento
dei primi di settembre non si vedono. Entrano tutte alle nove? Saranno
raccomandate. Sicché mi metto in un angolo a leggere, con interesse
sospetto, un pieghevole che propaganda un viaggio studio in Inghilterra.
Più che leggere guardo le figure. Per dirla tutta, origlio. So
che è un grave errore etichettare le persone, ma sto cercando delle
affinità. Annuso l'aria. Cerco lidi sicuri. In ogni caso ho il
Maalox in tasca. Pazienza se il rigonfiamento non è granché
elegante. Dunque, senza ritegno, origlio.
– “Pieno di questi extracomunitari che ti tormentano finché
non gli compri qualcosa…” Questo no.
– “Un disastro totale. Eppure aveva tutte le capacità.
Se l'è cercata…” Questa no.
– “Pensavo a un progetto che potrebbe coinvolgere anche musica…”
Questa sì.
– “Una bella cena di inizio anno…” Questo sì,
forse.
– “È che non hanno logica matematica…”
Questo no.
– “Non c'è più religione…” Questa
no.
– “Non dovrebbe più esserci Religione…”
Questa sì.
– “Il nuovo collega insegna cosa?…” Giudizio sospeso.
– “Il nuovo collega insegna cosa?…” Cavoli! Sta
parlando a me!
– “Matematica.” Ti adoro per avermi rivolto la parola,
sei la persona più simpatica del mondo, dipendesse da me, ti farei
capa di tutte le scuole del regno.
– “Matematica? Io sono negata!”
Impossibile. Insegnante di lettere, scommetto. Sono le uniche ad avere
il coraggio - o la faccia tosta - di ammettere la loro ignoranza.
– “E tu insegni? Tanto lo so già.”
– “Economia e tecnica dell'azienda turistica.”
– “Ah! Pensavo lettere. Esiste dunque una materia che si chiama
Economia e tecnica dell'azienda turistica? Incredibile!” Provo a
fare il simpatico.
– “Economia eccetera? Io sono negato!” Ride.
– “Ma perché non ti hanno fatto Dirigente? O Sovrin-
tendente agli Studi? O ministro?”
– “Bene, io comincio a salire. Ciao…?”
Filippo:
– “Ciao…?”
Gianna:
– “Ci vediamo.”
– “Sì.”
Un attimo dopo il suono lacerante della campanella squassa l'intero edificio.
Se fossi colui che decide di queste cose - il bidello? il professore anziano?
il dirigente? il ministro? il direttore della Maalox Corporation? - segnalerei
l'inizio e la fine delle lezioni con la musica. Comunque, per ora, c'è
la campanella. Vorrei, ma non posso ignorarla. La mia mano destra stringe
il Maalox.
La prima classe del mio trentaseiesimo primo giorno
di scuola è una quinta. Il primo alunno della prima classe del
mio trentaseiesimo primo giorno di scuola che incontro è un armadio.
Sta dritto sulla porta e, malgrado io mi stia avvicinando con la faccia
più da prof che mi riesce, non accenna a spostarsi di un millimetro.
La scatola di Maalox è ormai ridotta a brandelli. Ora gli sono
sotto. Letteralmente. Mi guarda dall'alto. Serio. Serissimo. Dimostra
almeno trent'anni. Provo a fare il simpatico.
– “Disturbo?”
– “Professore, volevo solo avvisarla che almeno fino a domani
il registro non sarà disponibile. Per qualsiasi cosa, mi trova
nel gabbiotto.”
– “Grazie infinite, molto gentile”
Sorrido. Lui no.
Mi accingo a entrare in Va TST. La sigla mi inquieta un po'. In questa
scuola ce n'è qualche migliaio. Dovrò impararle. Dunque,
TST come testoni? Non è granché come battuta, meglio che
la tenga per me. O provo
a fare il simpatico e la dico appena entrato in classe?
Ci provo.
– “TST sta per testoni?” Non ride nessuno.
– “TST.” Testoni.
Faccio una smorfia interrogativa mentre dondolo una mano con indice e
pollice tesi.
– “Prof, questa è la TGA.”
– “Vero, scusate.” Voglio un biberon di Maalox!
Poco più in là, un cartello recita inequivocabilmente
Va TST. Ci siamo. Ce la puoi fare.
– “Buongiorno ragazzi. Mi chiamo S., sono il vostro nuovo
insegnante di matematica.”
– “Matematica? Io sono negato.”
– “Succede anche alla tua insegnante di turismo applicato
all'economia, o come si chiama. Dammi un po' di fiducia e…”
– “Gliela darei volentieri, ma io dovrò stare seduto
ogni giorno per sei ore. Su una sedia di legno. Dura. Bassa. Appoggiato
a un banco che ne ha passate più di me. Duro. Basso. In un ambiente
ostile: muri dipinti modello ospedale, un armadio inutilizzabile - è
della prof di
lettere -, appendiabiti in numero insufficiente ad altezza tempia, tapparelle
rotte - sempre giù o sempre su -, vista su un poster di Mascia
del Grande Fratello - è di Marzia, quella con i capelli neri dell'ultima
fila a destra - o, a scelta, su un professore di matematica - duro, basso
- che spiega qualcosa a qualcuno per sei ore di fila - più o meno
-.”
Questo mi piace. Si può condividere. Ma io sono morbido. E alto.
Devo ricordarmi di applicare tutte le tecniche che ho imparato nel corso
per conduttori di gruppo. Ancoraggio. Rispecchiamento. Evitare le etichettature.
Guardare tutti negli occhi. Sorridere. Stringere la scatola di Maalox.
– “…e così pensavo di sottoporvi un breve questionario
riguardo alle vostre aspettative.”
La campanella.
– “Arrivederci a domani.”
– “Arrivederci prof.”
Lo spostamento nei corridoi è arduo. Studenti a frotte.
– “Ciao.” Ops, forse il collega non mi ha visto. Forse.
– “Ciao Filippo.”
– “Ciao Gianna.”
– “Scusa, ma cos'è quella polvere biancastra che ti
spunta dalla tasca?”
– “Oh oh. Mi si è sbriciolata qualche pastiglia di
Maalox.”
– “Capisco. E com'è andata?”
– “Ce la posso fare.”
|
|
|