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Il
territorio per noi era tutto
Ferruccio Deval testimonia
il suo attaccamento di maestro e di uomo al territorio valdostano.
Ho fatto il maestro elementare nella scuola di un piccolo
villaggio dal 1948 al 1982, salvo una parentesi di tre anni nell’Amministrazione
Regionale. Ho quindi vissuto in prima persona i riflessi nella scuola
della trasformazione economica e sociale, che si è realizzata dopo
la “Liberazione”. Mi pare di essere stato parte attiva più
che soggetto passivo degli avvenimenti, mi sento quindi responsabile,
nel merito o nel demerito, di quanto è successo.
La mia esperienza nella scuola si intreccia con l’attività
politica, quella amministrativa nel comune, la vita comunitaria del villaggio,
il lavoro agricolo, ecc. Il tema che più mi ha appassionato è
stato la particolare situazione linguistica del territorio valdostano.
Il mio compito era quello di insegnare a parlare, leggere e scrivere in
italiano ed in francese a dei bambini che arrivavano a scuola conoscendo
solamente il patois.
La pratica corrente, che io giudicavo negativa, era di tenere il patois
fuori dall’aula scolastica. Questo per me comportava il rifiuto
del territorio, di quell’ambiente cioè che io sentivo mio
e che volevo aprire al progresso, non rinnegare.
La mia azione didattica si è evoluta per trentacinque anni adeguandosi
alle trasformazioni economiche e sociali dell’ambiente e del territorio
ed è stata supportata dalle iniziative di aggiornamento largamente
promosse in tutta la Regione.
L’apprendimento della lettura e della scrittura ai bambini di prima
elementare, che allora non frequentavano la scuola materna o asilo, è
stata l’esperienza che mi ha dato più soddisfazione.
L’ambiente in quegli anni conteneva elementi linguistici patois,
largamente prevalenti nel parlato, italiani ed anche francesi, tanto che
c’erano le basi sufficienti per avviare la comunicazione in queste
lingue.
I bambini, tra l’altro, imparavano rapidamente a leggere globalmente
messaggi scritti nelle tre lingue.
Il patois, di fatto da sempre presente nelle nostre aule, è
entrato ufficialmente nella scuola valdostana con il “Concours Cerlogne”
nel 1963 e con una sperimentazione seguita dall’Università
degli studi di Torino, coordinata dallo studente universitario di allora,
Saverio Favre(1) .
Questa ricerca conferma quanto avevo già intuito e cioè
che la deprivazione verbale non è imputabile all’uso del
patois, ma alle condizioni socioculturali del locutore.
Il territorio, nel senso più concreto del termine, ha formato la
mia personalità. In patois abbiamo “lo terrèn”
(il terreno) o, termine più astratto, “la canpagne”
(la campagna); “il terreno” e “la campagna” hanno
rappresentato per secoli un centro di interesse vitale per generazioni
e generazioni e la carica semantica di queste parole è stata altrettanto
vasta quanto quella di “territorio” per noi oggi.
Il territorio per me ha significato inizialmente forte radicamento, “mou
dè mézón”, “sèmblé lón”,
e poi, al contrario, nell’età giovanile, ho vissuto l’impulso
a valicare l’orizzonte ristretto dalle montagne e a spezzare i vincoli
comunitari del villaggio.
Come maestro, attuando una pratica didattica, allora considerata “rivoluzionaria”,
intendevo costruire il sapere e sviluppare le capacità degli alunni
utilizzando gli elementi del territorio nel quale si viveva.
Con i miei bambini uscivamo dalla classe, ci guardavamo intorno per osservare,
scoprire, distinguere, misurare, calcolare, chiedere, parlare, dividerci
i compiti, mettere insieme i risultati, vivere esperienze, fissarne il
ricordo e comunicarlo agli altri, senza dimenticare che il gioco è
lo strumento che la natura ha fornito all’infanzia per lo sviluppo
delle capacità fisiche ed intellettuali.
Davanti alla scuola c’era un grande orto dove i maestri e gli scolari
coltivavano gli ortaggi per la refezione, con i miei alunni l’abbiamo
spianato e trasformato in un campo per giocare.
Quando l’irruenza dei bambini diveniva insopportabile immaginavo
di vedere al loro posto dei capretti ed allora il loro comportamento mi
appariva del tutto naturale.
Tra i giochi legati al territorio ne ricordo uno che aveva impressionato
una classe di Fénis con la quale eravamo in relazione.
Da Messigné, con uno specchio grande, mandavamo dei riflessi del
sole dall’altra parte della valle, cioè a Fénis. I
nostri corrispondenti rispondevano allo stesso modo.
I segnali di luce giungevano chiari e forti, facevano impressione, ci
facevano pensare agli extraterrestri.
Sulle finestre della scuola avevamo tracciato il profilo delle montagne
all’orizzonte. Durante l’inverno segnavamo i punti dei tramonti,
che si spostavano sempre più verso est.
A partire dalle vacanze di Natale si vedeva che il sole aveva invertito
la sua rotta, tramontava sempre più verso ovest. Verificavamo che,
trascorso un anno, il sole ritramontava nello stesso punto.
Seguivamo col pensiero sulla carta geografica della Regione il percorso
del treno da Ivrea ad Aosta secondo l’orario ferroviario e poi,
nell’ora prevista, lo guardavamo passare sferragliante, dalla grande
finestra della scuola e confermavamo così una realtà fino
allora solo immaginata.
Avevamo anche un piccolo osservatorio meteorologico che ci serviva per
le previsioni del tempo.
Il “Concours Cerlogne” costituiva una motivazione importante
per preparare ogni anno un lavoro particolare, come una serie di diapositive
che illustravano percorsi fatti nel territorio con la registrazione in
patois delle descrizioni dei soggetti fotografati.
Le condizioni delle nostre scuole sono cambiate anche in conseguenza delle
profonde modificazioni socio economiche che si realizzavano negli anni
’60 e ’70.
Il territorio si modificava e modificava.
Le scuole di villaggio, le pluriclassi con oltre trenta alunni e un solo
insegnante, sono state chiuse. Gli alunni del comune, diminuiti di numero,
erano trasportati nelle scuole dei capoluoghi, dove ogni classe poteva
disporre anche di più di un insegnante.
Questo passaggio non è stato indolore.
Nel nostro caso è stato temperato da una fase intermedia, nella
quale i quattro villaggi della Collina di Nus, per un certo periodo mantennero
la loro scuola e, dato il numero ridotto di alunni, ciascuna di queste
disponeva di un insegnante con una classe sola nella quale conferivano
tutti gli alunni della collina che dovevano frequentare quella determinata
classe. Messigné, il centro maggiore, aveva due insegnanti e due
classi.
Questa organizzazione comportava che gli insegnanti si incontrassero frequentemente
per accordarsi sulle attività. Non sarebbe stato possibile portare
nessuna seria innovazione alla pratica didattica senza prima aver costruito
un profondo spirito comunitario tra gli insegnanti.
Per me sono stati anni d’oro. Ogni collega era speciale.
Il territorio, l’ambiente, i colleghi mi erano di stimolo e contribuivano
a completare la mia formazione.
Devo tutto, o quasi, alle persone ed alle circostanze che mi hanno accompagnato:
mia madre, la mia maestra e poi collega per tanti anni; i professori Visalberghi
ed Ettore Passerin d’Entrèves; tutti gli assessori alla pubblica
istruzione che hanno fatto in quegli anni per la scuola elementare quanto
di meglio si potesse fare; i direttori didattici, in particolare Sergio
Bosonetto e Damien Daudry; tanti colleghi.
Nel primo dopoguerra, per consolidare l’Autonomia appena conquistata,
era necessario recuperare il patrimonio culturale della lingua francese
che il fascismo aveva distrutto.
Le scuole elementari dei villaggi, dove permanevano consistenti elementi
linguistici della cultura storica valdostana, potevano giocare un ruolo
decisivo. Occorrevano però insegnanti con una formazione adeguata
e che fossero convinti assertori del compito loro assegnato.
Il ricorso alla scuola francese portò una ventata di modernità
nella scuola elementare valdostana, in particolare con l’introduzione
delle “tecniche Freinet”, che suggerivano attività
allora rivoluzionarie.
Dal punto di vista linguistico l’accento veniva posto non sull’apprendimento
della lingua francese, ma sul suo uso veicolare, cioè come strumento
di nuovi apprendimenti.
L’interesse per la pedagogia di Freinet dette origine al “Movimento
di Cooperazione Educativa”, un movimento autogestito dagli insegnanti.
Proponeva e diffondeva innovazioni tecniche, didattiche, con una grande
attenzione al territorio, nel quadro di un’ideologia democratico-progressista.
Molti maestri si sono formati grazie alle attività del Movimento
che ebbe anche una sua sede fissa ad Aosta, dove venivano discusse problematiche
didattiche diverse.
L’Amministrazione regionale finanziava ogni anno “stages”
di aggiornamento residenziali in varie località: Nus, Quart-Ecloud,
La Magdeleine, Rhêmes-Notre-Dame, Brusson, Champorcher, Châtillon.
Ogni stage era centrato su un argomento (matematica, recitazione, ricerca
d‘ambiente, logica, ecc.).
Venne anche istituito un gruppo di appoggio per l’insegnamento della
lingua francese.
Maestri, appositamente preparati, andavano nelle classi, dove erano accolti
con gioia dagli alunni, ad organizzare attività in francese.
Ogni anno, inoltre, i maestri potevano, a spese della Regione, frequentare
stages di aggiornamento mensili nelle università o scuole francesi.
Con l’Università di Grenoble si sono stabiliti rapporti durevoli.
I professori universitari Janin, Touaillon, Schüle, Grassi, Telmon,
anche tramite il Centre d’Études francoprovençales
di Saint-Nicolas, hanno esercitato una profonda influenza sugli insegnanti
della scuola elementare valdostana.
Penso che il concetto di territorio che i bambini si costruiscono progressivamente
oggi a scuola - anche grazie ad attività specifiche - sia diverso
da quello su cui abbiamo lavorato noi. Avendo perso la misura del percorso
a piedi che si estende progressivamente attorno ad un centro, i bambini
difficilmente possono percepire, capire, impadronirsi fisicamente ed intellettualmente
della realtà che incomincia dalla loro casa e, senza soluzione
di continuità, si estende in lontananza. Temo che essi, viaggiando
velocemente chiusi nelle loro auto, percepiscano il territorio nel quale
si fermano come un insieme di isole, senza un collegamento con il centro
dal quale sono partiti, cioè con le loro radici.
Nella pratica scolastica molte attività che allora apparivano “rivoluzionarie”
ora sono ovvie e scontate. Ho l’impressione però che ora
gli insegnanti siano troppo condizionati da pratiche “di burocratismo
pianificatorio” che fanno loro perdere passione, slancio, libertà,
e la possibilità di cogliere l’occasione d’oro
quando si presenta.
Un mio grande maestro ha detto che i risultati della pedagogia, dell’educazione,
così come quelli dell’azione politica, sono imprevedibili.
La storia dimostra quanto questo sia vero. Però ciò non
toglie che in ogni tempo si debbano elaborare progetti di pedagogia, di
pratiche educative, di perfezionamenti didattici che guardino avanti e
che ci si debba impegnare per conseguirli.
Ripensando agli anni della scuola, certo provo nostalgia per il tempo
che è passato, dispiacere per gli errori commessi, un certo compiacimento,
non so quanto illusorio, per avere un po’ inciso sulla realtà
materiale e spirituale del mio territorio.
Dopo il pensionamento, ho avuto occasione di tenere corsi di recupero
per adulti e poi corsi di insegnamento per l’espressione orale e
per la grafia del patois. Questa esperienza, collegata a quella
dell’insegnamento nella scuola elementare, ha maturato in me la
convinzione che il territorio valdostano offra possibilità straordinarie
per elaborare e sperimentare metodologie di educazione e di insegnamento
plurilinguistico.
L’Università della Valle d’Aosta, se non altro, dispone
ora delle competenze umane e delle risorse materiali per diventare un
centro europeo per documentare studi e ricerche sul francoprovenzale nei
suoi vari aspetti.
Oggi in Valle d’Aosta sono presenti un bilinguismo ufficiale e generalizzato
italiano-francese ancora asimmetrico, una conoscenza diffusa dell’inglese
e la pratica orale di una forma dialettale: patois, piemontese o altro.
Il patois va riconsiderato nei suoi aspetti linguistici generali (lessico,
fonetica, semantica, ecc.) e analizzato in modo contrastivo confrontando
le sue diverse forme e quelle delle lingue più diffuse.
L’etimologia, può essere l’elemento unificante dello
studio linguistico di un territorio. Ricordo l’interesse suscitato
in un corso di patois. quando feci notare corrispondenti etimologici particolari
tra il patois e l’inglese (“noua” (mezzogiorno) e “afternoon”),
tra il patois e il tedesco (“bouébo” (ragazzo) e “bube”),
tra il patois e l’italiano (“bagga” e “bagaglio”).
Sono importanti il materiale e i documenti raccolti presso il BREL, il
Centre d’Études francoprovençales, l’AVAS, ecc.
Sono convinto che attraverso lo studio del linguaggio possiamo capire
come siamo, ciò che ci distingue e ciò che ci accomuna,
che cosa stiamo cambiando, perdendo, acquistando e perché.
Ferruccio Deval
Note
(1) CELID” - Torino “Università degli studi di Torino”-
Arturo GENRE: Cenni di fonetica articolatoria. – Corrado GRASSI:
Problemi di educazione linguistica bilingue in ambiente dialettofono:
il caso della scuola di Nus collina - (Val d’Aosta)- (Corso di dialettologia
italiana) – (Anno accademico 1976-1977).
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