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Interviews
Il patois,
lingua del cuore
Sono sempre stata affascinata dalle lingue perché
trovo che siano espressione di sentimenti. Una vecchissima canzone, che
ho sentito una volta sola e di cui non ricordo l'autore, dice: "C'è
una lingua per amare, una per comandare, una lingua per pregare…"
È una grande verità alcune lingue hanno suoni molto dolci,
altre più duri, anche se conoscendole, se ne scoprono altre sfumature.
Alcune lingue poi sono dominanti per motivi di mercato (se non conosci
l’inglese, sei tagliato fuori dal mondo informatico e scientifico)
e altre sono, entre guillemet, “minoritarie”, perché
parlate da una minoranza. Penso agli occitani, ai cimbri, gli albanesi
di Calabria. Anche in Italia ce ne sono molte, la realtà dell'arco
alpino, lo dimostra.
Quali sono le tue lingue?
La mia lingua del cuore è senz'altro il patois, non ho iniziato
a parlarlo da piccola, l'ho sempre ascoltato in famiglia: mia madre parlava
in patois con mia nonna e le mie zie. Il patois è diventata per
me la lingua intima, la lingua del cuore. Lo uso anche nei ragionamenti
a voce alta, quando parlo da sola. È una lingua bellissima. Purtroppo,
qui a Saint-Vincent è poco parlato perché c'è stata
una forte immigrazione. Probabilmente solo in collina lo si parla ancora
e qui in paese lo parlano solo gli anziani.
L'italiano è la lingua che mi serve per lavorare. Nella mia attività
di ristoratrice, gli utenti sono per il 90% italiani. La percentuale di
francesi e svizzeri è esigua e con loro parlo, senza difficoltà,
in francese. Anche l'inglese è una lingua che conosco. Circa vent'anni
fa, quando ero ancora giovane e baldanzosa, sono andata a lavorare in
Inghilterra ed in America dove ho approfondito lo studio della lingua
inglese.
Et pour ce qui concerne la
langue française?
Le français est une langue que j'aime beaucoup. Malheureusement,
je ne la pratique pas autant que je le voudrais, mais j'aime la chanter,
parce qu' elle me donne la possibilité de pouvoir l'interpréter.
En français il y a des mots intraduisibles dans une autre langue.
Le français me permet de jouer avec les mots et de les prononcer
avec douceur. La chanson française que j'ai chantée le plus
souvent est " Les feuilles mortes ". J'aime également
toutes les chansons d'Édith Piaf. " Non, je ne regrette rien
" est une chanson qui me donne beaucoup d'énergie quand je
la chante.
Et toi, comme Édith Piaf,
tu ne “ regrettes rien " ?
On doit mourir sans regret, même celui de ne pas avoir appris suffisamment
les langues. Dans la vie, on ne peut pas tout connaître. Je parle
un peu le français, même si j’aimerais le parler avec
plus d’aisance, mais ici on n'est pas français, on est des
Valdôtains qui parlent français.
J’aimerais apprendre l’espagnol parce que c'est la langue
de la passion.
Lors de mes concerts, je chante en plusieurs langues pour différentes
raisons. Je veux absolument qu'il y ait le patois, la langue du cœur,
et puisque j'ai une vision de la vie plutôt internationale, j'aime
m'adresser aux gens en plusieurs langues. Quand on a une personnalité
à plusieurs facettes on chante en plusieurs langues.
Maura Susanna
48 anni, cantante, ristoratrice e amministratrice,
residente a Saint-Vincent.
Herr Filippini, Papst ist
tot!
Ho frequentato le scuole in Valle d’Aosta. Lavorando
all’Ufficio “Direzione Attività culturali” della
Regione e collaborando con l’Ufficio Mostre, ho la possibilità
di parlare in francese più di altri miei colleghi. Ho inoltre la
fortuna di lavorare con colleghe francesi, come Michèle Chenuil,
che mi stimola a parlare nella sua lingua.
Conosco anche un po’ di tedesco, perché a 18 anni, ho lavorato
un anno in Germania. Ho imparato il tedesco semplicemente parlandolo,
non studiandolo. Il mio datore di lavoro aveva la bella abitudine di mandarmi
al cinema una volta alla settimana, pagava lui e mi mandava a vedere i
cartoni animati, perché sosteneva che fosse il modo migliore e
più veloce per imparare qualche parola. Se non capivo tutto, le
immagini mi consentivano di intuire il dialogo.
Se andavamo a mangiare al ristorante, mi traduceva sempre il nome degli
oggetti in tedesco: il coltello “Messer”, il cucchiaio “Löffel”,
la forchetta “Gabel”. Devo ammettere che la sua strategia
si è rivelata vincente, a forza di osservare e di ripetere, si
impara, per sempre. Quei termini non li ho ancora dimenticati.
“Danke shön, Danke, wiedersehen”, quante volte l’ho
ripetuto. Ricordo che una volta mi ha chiamato il padrone e mi ha detto:
“Herr Filippini, der Papst ist tot!”
L’ho guardato e, pur non capendo nulla, gli ho risposto “Ja”.
Lui però, nel vedere la mia espressione attonita, ha capito che
non avevo capito e ha aggiunto “Ja verstanden” (hai capito?).
A malincuore, ho dovuto ammettere “Nein”. Ero stufo di dire
sempre “Nein” perché non capivo mai che cosa diavolo
mi chiedessero, per cui quella volta - per non fare l’ennesima figuraccia
– avevo mentito rispondendo “Ja”. Il padrone, allora,
mi ha trascinato davanti al televisore e mi ha mostrato quello che, invano,
aveva tentato di dirmi: era morto Papa Luciani!
La mia esperienza mi ha insegnato che si impara osservando di nascosto,
stando sempre in campana, leggendo, sforzandosi continuamente di parlare
anche se si sbaglia tanto c’è sempre qualcuno che corregge.
Conosci altre lingue?
Capisco il patois, lo “parlocchio”, perché ho abitato
e frequentato la scuola a Valpelline. Poi, conosco un po’ di inglese
perché l’ho studiato a scuola anche se vorrei conoscerlo
meglio.
Le lingue per me rappresentano l’unione dei popoli. Se uno sa parlare
o almeno capisce un’altra lingua, oltre a non trovarsi in difficoltà,
stabilisce un livello di comunicazione e di relazione più profondo.
Lo dico spesso a mio figlio che ha difficoltà nell’imparare
l’inglese. In questo momento, per lui, la lingua non è una
questione prioritaria. Peccato! In parte dipende da lui, in parte anche
da chi gliela insegna. Perché se non sei spronato, stimolato, incoraggiato
o aiutato dal tuo insegnante difficilmente amerai una lingua che reputi
ostile. Perché, quando mio figlio va a lezioni private d’inglese,
impara? Penso che una lingua non debba essere imposta, ma debba essere
fatta amare. Come tutte le cose, del resto.
Aldo Filippini
46 anni, impiegato nell’Amministrazione regionale,
residente ad Aosta.
Una sfida continua
Conosco l’italiano, il francese e un po’
di inglese. Di tedesco capisco quel poco che mi consente di intuire il
senso di una conversazione. Me lo insegnò, alle elementari, la
mitica Sig.na Alys Barrel. Purtroppo, un’ora alla settimana è
poco per imparare una lingua. L’apprendimento di più lingue
è fondamentale. Ritengo il bilinguismo valdostano un punto di forza,
anche se purtroppo gli esami di accertamento della piena conoscenza della
lingua francese ce lo rendono, a volte, insopportabile.
Nella mia carriera di maestro di sci, guida alpina, “pisteur secouriste”
e direttore piste, ho dovuto sostenere quattro volte l’esame di
francese. Quante volte nella vita dobbiamo dimostrare di conoscere il
francese?
Nel mio lavoro con i turisti, mi servono il francese, il tedesco, ma soprattutto
l’inglese. Da noi arrivano svedesi, danesi, finlandesi e inglesi.
Nelle spedizioni extra europee dove sono stato, l’unica lingua per
comunicare con le popolazioni è l’inglese. Abitando a Gressoney
ho avuto la fortuna di studiare il tedesco, se però alle superiori,
avessi studiato anche l’inglese sarebbe stato meglio. Lo posso dire
perché mi sono reso conto che sapere più lingue è
una vera ricchezza. L’inglese dovrebbe essere reso obbligatorio
in tutte le scuole per evitare che, chiunque, terminati gli studi, si
trovi in difficoltà per turismo o per lavoro.
Che cosa significa per te abitare
a Gressoney?
Significa stare in un luogo speciale, con peculiarità da salvaguardare.
I Walser amano curare i dettagli, nel lavoro del legno, nei paesaggi e
nell’architettura: i villaggi walser sono proprio belli da vedere.
La cultura walser ha la bellezza negli occhi.
A Gressoney, si parla prevalentemente italiano. Nelle famiglie le lingue
possono cambiare. Mia madre, di Fontainemore, parla il patois, mio padre,
di Gressoney, parlava il titsch che, per chi non lo conosce, è
incomprensibile! Parlarlo in presenza di persone che non lo capiscono,
è quasi “maleducazione” perché significa escluderle
completamente dalla comunicazione.
La lingua del desiderio?
Lo spagnolo, perché è “caliente”. Mi piace sentire
il suono di questa lingua. E poi, forse, un po’ tutte perché
la lingua è comunque un’espressione dei sentimenti e quando
sono stato all’estero, ad esempio, in Nepal, mi è spiaciuto
tantissimo non riuscire ad entrare in contatto con gli abitanti del luogo.
Penso di aver perso qualcosa.
Quando osservo una montagna, più la vedo difficile e più
mi viene voglia di provare a scalarla. Non la vedo mai come una fatica.
Dovrebbe essere così anche per lo studio delle lingue: conoscerne
tante sarebbe davvero una bella sfida con se stessi!
Paolo Comune
30 anni, maestro di sci, allenatore federale, guida
alpina, direttore piste; attualmente volge la funzione di vice direttore
pista nel Monte Rosa ski a Gressoney. Residente a Gressoney La Trinité.
Le imprese che Paolo Comune ha realizzato con
la guida Claudio Bastrentaz:
• Val d’Aosta a Fil di Cielo (insieme hanno percorso
il perimetro della Val d’Aosta sulla linea di confine. 350
km in alta quota, una quota media di 3 000 m con 32 vette sopra
i 4 000 m).
• Il Daulaghiri in Himalaya di 8 201 m; l’Everest, (dove
per un problema fisico) si è fermato a 7 500 m; “El
Capitan” nello Yosemite National Park in America. |
Question d’amour
Per parte di mamma, sono originaria di Gressan; mio nonno
era di Exilles vicino a Salice d'Ulzio. Ho frequentato le scuole in Piemonte.
Nella mia prima infanzia a Torino ho sempre parlato italiano. Appena dopo
il fascismo, nel 1946/1948, ritornata ad Aosta, il patois non era gradito
"en veulla", tant'è che si prendeva in giro chi lo parlava.
Il francese l'ho imparato successivamente a scuola anche se l'ho studiato
molto poco. È una lingua che mi ha sempre incuriosito, mi piaceva
molto leggerla. Successivamente, mia sorella ed io, abbiamo preso lezioni
di inglese dalla Sig.na Norat. Purtroppo non ho avuto modo di praticare
questa lingua e adesso me ne dispiaccio.
Il francese non è mai stata una lingua sconosciuta, anzi piuttosto
familiare, perché avevo dei parenti che vedevo abbastanza spesso
in Svizzera e in Francia. In un viaggio a Parigi ho conosciuto mio marito,
René Monjoie, che per amore mi ha sollecitato ad intensificare
l'apprendimento di questa lingua. Sin dall'inizio abbiamo comunicato in
francese.
Intéressant… Veux-tu
nous en parler?
Au début, mon mari ne connaissait pas un mot d’italien. On
a entretenu une très longue correspondance, c’est la seule
façon pour s'exercer aussi à l'écrit. J'ai dû
m'y mettre, mais cela a produit de très bons résultats,
car j'ai enfin trouvé un travail à Paris. Les trois premiers
mois à Paris, je me rendais compte que je continuais à penser
en italien. Après six mois, je ne savais plus comment j'arrivais
à penser : c'était le signe que j'étais arrivée
à penser en français !
Avec ma fille Barbara, je parlais en français et je n'avais plus
d'occasions pour parler italien.
Dans les années soixante-dix, quand on a décidé de
déménager au Val d'Aoste, Barbara, âgée de
6 ans, a reçu un choc linguistique, elle a commencé à
refuser la langue française. Il fallait absolument parler en italien
avec elle, et à l'école primaire, en trois mois, elle a
appris à parler italien. Son père a continué à
parler français en famille ; René et moi, on alternait les
langues : il me parlait en français et je lui répondais
en italien. La situation était absurde. Quand j'étais fâchée,
je parlais en français ; c'est bizarre, non ! Actuellement le mélange
continue à peu près de la même façon, mais
avec un changement. En effet, à 18 ans, Barbara a changé
d'avis. Avec son père, elle parle toujours en français et
avec son fils Fausto - qui a trois ans et demi - elle alterne les langues,
suivant les cas. Je continue à ne pas parler patois, mais je le
comprends et Barbara a suivi un cours de patois à “ L'école
populaire de patois ”.
Di quali lingue ha bisogno
la Valle d'Aosta?
La mia famiglia è certamente un'eccezione in Valle d'Aosta. Non
so quanti parlino realmente francese in famiglia. Penso che tutti dovrebbero
praticare di più il francese, lingua che peraltro studiano fin
dalla scuola materna ed è utile nei rapporti con i paesi vicini.
Dovremmo imparare almeno una lingua in più, meglio se l'inglese.
Se tu dovessi ideare una ceramica che rappresenti
le lingue, come la rappresenteresti?
Così, à l'instant, non saprei dire… Potrebbe essere
un cuore, così come pure una mente. Sarebbe comunque un personaggio
o un oggetto imperfetto o cervellotico perché il linguaggio è
complesso e le lingue ancora di più.
Franca Fontan
70 anni, artigiana, residente ad Aosta.
L'essentiel c’est
l'évangile
Sono tri-lingue. Il patois è la lingua essenziale
per un prete che vuole comunicare con la gente del posto. Non c'è
alternativa, è fondamentale. Offre un 30% di possibilità
in più di "agganciare" le persone: a Rhêmes-Saint-Georges,
le riunioni con i giovani sono tutte in patois. L'unico limite del patois
è che, essendo, una lingua popolare, non può essere utilizzata
per veicolare la catechesi. In famiglia e con i miei parrocchiani parlo
solo in patois. Considero questa una cosa positiva.
L'italiano è la lingua che uso per il mio lavoro di comunicazione
(articoli, libri, gestione del sito www.tiraccontolaparola.it
).
Per me il francese è la lingua della preghiera consente una maggiore
introspezione nella traduzione dei salmi e dei canti. J’ai un bréviaire
en italien et un en français. Normalement je prie en français.
Dans la traduction de l'hébreux ou du grec, la version en français
a, je pense, vu la structure de la langue, davantage de possibilités
pour ressentir un peu l'infini. Voici un exemple:
Hymne pour la fête
de Saint Benoît
(Patron de l’Europe)
Vivre à Dieu seul
Et se tenir en sa présence,
Tout quitter pour atteindre la paix,
Choisir le silence
Pour saisir la Parole,…
(Hymne CFC)
Confédération Française Cistercienne
Aucune langue du désir
? Tu aimerais apprendre d'autres langues ?
Franchement non. Le seul regret que j'ai c'est de ne pas comprendre un
mot d'anglais car je n'ai jamais eu l'occasion de l'apprendre et, d'autre
part, je n'ai pas envie de l’apprendre, pour deux raisons : la première
c’est que j'ai toujours eu des difficultés à apprendre
les langues. Ça peut paraître étrange, mais c'est
vrai. Pour moi, la grammaire est une pénitence.
La deuxième raison est un peu plus idéologique : je suis
réfractaire à l'anglais qui n'est pas la langue la plus
parlée dans le monde, puisque c’est l'espagnol, mais qui
est la langue de l'économie.
Sous l’hégémonie de l’anglais, le risque de
perdre la richesse de la diversité linguistique est énorme.
Cela dit, quand je dois voyager sur Internet, je regrette de ne pas connaître
l'anglais.
Une anecdote : en 1986, je suis allé visiter la seule église
catholique de Moscou. En cette occasion, le latin m'a beaucoup aidé
pour communiquer, car je parlais latin avec un prêtre russe.
En Vallée d'Aoste, il
y a 93 paroisses. Combien y en a-t-il de plurilingues ?
La majorité absolue. À part, peut-être, le cas d'Aoste
qui est désormais devenue une ville italophone, il me semble que,
dans les villages et même à la périphérie d'Aoste,
comme dans mon village natal, à Gressan, il y a une communauté
originaire qui est tout à fait patoisante.
À Rhêmes et à Valsavarenche, 80 à 90 % des
touristes sont italophones ; ils arrivent du nord-ouest de l'Italie. À
l’église, quand j'ai l'impression que dans l'assemblée
il y a des francophones, je souhaite la bienvenue bilingue, je lis les
lectures en italien, l’évangile bilingue et le sermon bilingue.
Les gens apprécient beaucoup ça car ils voient là
une attention, un accueil chaleureux. Pour moi, c’est l’essentiel.
Je n'en fais pas une question politique ni d'appartenance. Pour moi l'essentiel
c'est l'évangile.
Si l'évangile arrive au cœur des gens en patois, je parle
patois ; s'il arrive en italien, je parle italien et s'il arrive en français,
je parle français.
À mon avis, l'italien et le patois sont les deux langues parlées
dans la majorité des paroisses. Pour le français, la situation
est délicate. Il ne faut jamais oublier que les prêtres d’autrefois
étaient les “ conservateurs ” de la langue française,
toujours et avec obstination. Pendant le fascisme, les prêtres continuaient
à prêcher en français, même si l'évêque
n’était pas d’accord. Actuellement on a un peu perdu
ce type de perspective, il faut en trouver d'autres. Chez mes paysans,
le français est encore perçu comme la langue des occasions
officielles. Dans l'église, le français apporte une touche
de solennité.
Don Paolo Curtaz
40 anni, parroco di Rhêmes-Notre-Dame, Rhêmes-St-Georges,
Valsavarenche e Introd.
Comme une vrille
Je connais évidemment l'italien, le français
et le patois. Dans ma vie personnelle je parle très peu italien
car, en famille, avec mon mari et ma belle-famille, je parle exclusivement
français.
Je m’exprime dans le patois de l’envers de Chambave avec ma
famille d'origine et avec mes enfants.
Dans le cadre de mon travail, à l’Assessorat à l'agriculture
de l’administration régionale, j'utilise couramment le patois.
Par contre, dans mon agritourisme je parle généralement
italien avec les touristes. Malheureusement, dans ma vie, je n'ai pas
eu le temps d'apprendre l’anglais.
Pour toi, que représentent
les langues?
Les langues sont l’expression de la culture d'un peuple. Quand on
parle une langue aux enfants, on ne leur transmet pas seulement une façon
de communiquer , mais on leur transmet, parfois inconsciemment, tout ce
que ce peuple a vécu au fil du temps. Pour moi, il n’est
pas concevable d’être maman autrement qu’en parlant
patois. Je n'aurais pas pu parler une autre langue avec mes enfants, parce
que je n’aurais pas été capable de leur transmettre
autrement toute mon affection de mère.
Pour ton agritourisme, tu as
choisi le nom “ La Vrille ". Pourquoi en français ?
La vrille c'est le petit " regotten ", terme en patois qui signifie
" viticcio ". C'est quelque chose de vraiment petit, de minuscule,
mais d'une ténacité impressionnante. Quand on fait les vendanges,
on n'arrive jamais à la détacher. Mon mari et moi, on s'est
dit : si on arrive à faire tout ça, vu les moyens dont on
dispose, on ressemble un peu à la vrille.
Les langues du désir
L'anglais me manque, mais ce n'est pas ma langue du désir. Il s’agit
plutôt d’une nécessité de travail. Si vraiment
je devais choisir une langue pour mon plaisir personnel ce serait la langue
d'un peuple… comme les Tibétains, par exemple, parce qu’à
mon avis ce peuple a une histoire très particulière.
Quels rapports tes enfants
entretiennent-ils avec les langues ?
Mes enfants ont 12 et 14 ans, ce sont de typiques adolescents. Ils essayent
de suivre “ la masse ” en parlant eux aussi italien. Sylvain
parle presque exclusivement italien avec ses copains. Il s’exprime
très bien en français, même s'il a légèrement
régressé dans cette langue (il a peur d'être montré
du doigt par les jeunes de son âge). Conscients de son problème,
mon mari et moi avons beaucoup travaillé avec lui pour affronter
cette question.
Quand il était petit, une fois seulement il est revenu de l'école
maternelle et s’est adressé à nous en italien. Je
lui ai dit que je préférais qu’il parle patois à
sa sœur, et il l'a fait. Cela a suffi. Je ne suis plus jamais revenue
sur la question. Sylvain et sa sœur, Virginie, parlent toujours patois
entre eux parce que, pour eux, c'est la langue du cœur, celle de
l'âme.
Actuellement ils apprennent l'anglais et, de temps en temps, ils font
des séjours à l'étranger ; l'année dernière,
Sylvain est allé en Écosse et cette année il ira
en Irlande.
Luciana Neyroz
41 ans, Agritourisme La Vrille, Verrayes.
Gramaci pommi!
J’ai toujours été conscient de mes
racines valdôtaines. Je suis un ancien employé de l’administration
régionale et, au cours des années, j’ai cultivé
un penchant pour la culture, en particulier quand j’ai travaillé
à l’AVAS, Centre des Archives sonores, qui a précédé
le BREL. J’aime autant la culture que l’agriculture et pas
seulement parce que ces deux mots se ressemblent ! En ce moment, pour
différentes raisons, j’ai fait un retour à la terre
parce que je suis issu d’une famille campagnarde. J’élève
des petits taureaux, des génisses et je m’occupe d’arbres
fruitiers.
Quelles langues connais-tu
?
En famille, avec mes enfants, Anaïs et Joseph, et très souvent
aussi avec mes pommiers, je parle couramment patois. Je dis à mes
arbres “ gramaci ! ” pour les belles et bonnes pommes qu’ils
me donnent.
Le patois reste la langue principale de l’agriculture valdôtaine.
Il reste une langue de communication dans certaines communes également
; (on parle encore patois lors des réunions des conseils communaux
à Gressan, à Aymavilles ou à Valgrisenche), de même
dans toutes les communes où les gens se connaissent, dans les associations
d’agriculteurs, d’éleveurs, à la coopérative
Cofruits, dans les Consortiums d’amélioration foncière.
Le patois n’est donc pas une langue éminemment familiale,
mais elle a encore un rayonnement social.
Très souvent, je parle aussi en français, car j’aime
m’exprimer dans cette langue. Je n’ai jamais vécu en
France mais j’ai fait des efforts pour mieux la parler, même
après l’école : je lis les journaux français,
je suis abonné à Campagne solidaire, le journal
de la Confédération Paysanne, un syndicat français
plutôt alter mondialiste.
Les langues du désir
?
J’aimerais parler mieux français, mais j’aimerais aussi
connaître d’autres langues. J’ai étudié
l’anglais à l’école, mais faute de pratique
je l’ai presque complètement oublié, car j’ai
très peu de contacts avec les Anglo-saxons. Je préférerais
connaître les langues néo-latines comme l’espagnol
et le portugais et j’aime beaucoup la littérature espagnole.
Je n’aime pas les auteurs nord-américains, je préfère
les sud-américains.
Quelles langues envisages-tu
pour la Vallée d’Aoste?
Je crains que l’anglais ne devienne trop envahissant, même
si, actuellement, il facilite les communications au niveau international.
Le principe de la diversité linguistique, perçue comme une
richesse, qui règle maintenant l’Union européenne,
doit être garanti.
Sans aucun doute, je pense à une Vallée d’Aoste plurilingue,
même si je crains que d’ici peu le patois risque de n’avoir
plus d’utilité sociale. Je suis profondément convaincu
que le patois est l’unité de mesure pour voir, à tout
moment, le degré de diversité qui règne en Vallée
d’Aoste. Si on dit “ moi, je suis valdôtain ”
et qu’on est fier de le dire, on a forcément conservé
cette langue qui nous caractérise.
Livio Munier
49 ans, agriculteur à Charvensod.
La Tour de Babel
Alla scuola per operatori turistici a Saint-Vincent ho
studiato il francese, il tedesco e l’inglese. Penso di conoscere
bene il francese, il tedesco purtroppo non l’ho più praticato
e ho dell’inglese una comprensione abbastanza buona. Sono cresciuta
in un “milieu” francoprovenzale per cui conosco bene il patois
che è ancora molto usato in Valle d’Aosta. Il BREL (Bureau
Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique) con “L’école
populaire de patois” ha contributo notevolmente alla difesa e alla
diffusione di questa lingua. Coloro che non hanno mai parlato in patois,
si iscrivono ai corsi dell’école per integrarsi maggiormente
nel territorio e appropriarsi della cultura valdostana.
In consiglio comunale, nelle discussioni più vivaci, quelle che
prendono le “trippe”, il patois ha la meglio sull’italiano
e sul francese.
Di quale lingua hai bisogno
per lavorare?
Sono impiegata all’anagrafe nel Comune di Pontey, e l’italiano
è la lingua che utilizzo prevalentemente sul lavoro. Ricorro raramente
al francese, solo nel caso di adempimenti specifici. Recentemente un utente
ci ha richiesto un documento in lingua francese e non è stato facile
soddisfare la sua richiesta. Ci sono però dei comuni - in cui il
francese è davvero parificato all’italiano - dove rilasciano,
per esempio, anche le carte d’identità in francese. La lingua
che facilita i rapporti con la gente del luogo è indubbiamente
il patois che elimina ogni sorta di diffidenza ed aumenta la familiarità
tra un servizio e i suoi utenti. Io, pur non abitando a Pontey, se mi
rivolgo ai cittadini con qualche parola in patois, ricevo sorrisi di gratitudine.
Vorresti imparare un’altra
lingua?
No. Mi piacerebbe, invece, che il patois rinascesse, perché purtroppo
sta cadendo in disuso. I bambini piccoli non lo parlano più. Mi
ha fatto molto piacere sapere del centro estivo con animatori patoisants
realizzato ad Introd dall’Associazione “Esprit Valdôtain”.
Se si comincia da piccoli a parlare il patois utilizzandolo anche in momenti
ludici, ci sono più probabilità che questa lingua diventi
parte della vita emotiva e sociale di ognuno e non scompaia.
Che cosa significa far parte
di una compagnia di teatro popolare e recitare in patois?
Il gruppo a cui appartengo è territorialmente misto (area Aymavilles-Saint-Pierre).
Parliamo dieci patois diversi. Quando recitiamo, si avvertono tutte le
differenze linguistiche dei vari patois e questa peculiarità è
il bello e la ricchezza del nostro gruppo, perché “La Tor
de Babel” è una Babele di patois. Recitare in patois significa
portare sul palco, indipendentemente dalla pièce che viene recitata,
quella valdostanità che ci appartiene e che fa riferimento alla
lingua, alle nostre radici, alle tradizioni.
Elena Foudon
32 anni, impiegata comunale, Assessore all’Istruzione
e cultura a Verrayes, fa parte della compagnia di teatro popolare in patois
“ La Tor de Babel ”.
Pour apprendre une langue
il faut l’aimer
J’ai fréquenté les deux premières
années d'économie à Paris, ensuite je me suis inscrit
à l’école hôtelière et j’ai suivi
des cours accélérés, pour les fils d’ex-combattants
sous les drapeaux de l'armée française, qui prévoyaient
six mois de stages en Europe.
Je me considère comme quelqu’un qui a eu de la chance. Au
Maroc, mon pays d'origine, pendant les premières années
de l'école primaire, je n’ai étudié que l'arabe
et en troisième année j’ai commencé à
apprendre le français ; jusqu'au collège toutes les matières
scientifiques étaient en français. Maintenant, au Maroc,
les programmes viennent de changer et même les matières scientifiques
sont aussi en arabe, et cela empêche de bien maîtriser la
langue étrangère : le français par exemple.
Au lycée, on devait apprendre une troisième langue : l'anglais,
l'espagnol ou bien l'allemand. Le hasard a voulu qu'on me mette dans la
classe d'allemand où personne ne voulait aller. Cela a été
une chance pour moi parce que ça m'a permis d'avoir le visa pour
quitter le Maroc et de pouvoir étudier.
Pour toi, c'est quoi apprendre
une langue ?
Une langue, c’est un engagement. Il faut surtout apprendre à
aimer les langues, car elles permettent d'ouvrir pas mal de portes. Il
y a des traditions, des cultures, tout un ensemble de savoir-faire derrière
n’importe quelle langue. Il est donc important de maintenir le patois
valdôtain, une langue régionale avec des racines, une culture.
Et d'ailleurs, moi aussi je ne veux pas perdre mon arabe et ni même
mon berbère, la langue des premiers habitants du Maroc. Pour apprendre
une langue il faut l’aimer. Si on n'aime pas des gens à cause
de leur façon de faire différente de la nôtre, et
bien, il faut commencer à les comprendre et peut-être qu’on
va commencer à les aimer.
Quelles langues utilises-tu
le plus ?
J'ai toujours travaillé dans le domaine de la restauration et j’ai
pu constater que n'importe quelle langue permet un contact et tout contact
facilite la tâche.
Pour moi le côté humain est très important. Lorsque
j’étais médiateur, interprète auprès
du tribunal d’Aoste et quand je faisais mon tour à l’hôpital
pour rencontrer les malades étrangers hospitalisés, qui
avaient des difficultés à communiquer, j’ai pu vérifier
que la médiation linguistique permet de résoudre pas mal
de problèmes pratiques.
L'expérience de la médiation m'a démontré
que plus on sait de langues, mieux on est avec les autres.
Quels problèmes rencontrent
les Marocains avec les langues ?
Je dirais qu'ils n'ont pas de problème avec les langues ; ils ont
plutôt des problèmes avec eux-mêmes, avec leurs origines.
Certains doivent prendre encore une décision fondamentale : s'installer
complètement dans le pays où ils sont, ou rentrer chez eux.
Le fait de connaître l’arabe nous permet d’apprendre
facilement les autres langues.
La question des langues se pose pour les immigrés qui viennent
d'arriver et qui n'ont pas reçu une base scolaire dans leur pays
d’origine. Ne pas comprendre les autres c'est un grand problème,
mais au début, le seul intérêt de l’immigré
est de trouver un travail et il n’a pas le temps de fréquenter
des cours de langue italienne.
Par contre, apprendre une langue ça permet d'apprendre la culture
du pays d'accueil, dans ce cas précis la Vallée d'Aoste,
et ça permet l'intégration. C’est l’immigré
qui doit faire le premier pas et ce n’est qu’après
que les autres vont s’intéresser à nous, à
nos origines, à notre culture. Ils auront peut-être envie
de mieux nous connaître.
La langue du désir…
J'adore les langues. Je parle l'arabe, un peu le berbère, le français,
l'allemand, l'italien et l'anglais que j’ai appris en travaillant.
J'aimerais en parler davantage, mais il y a le travail, l'engagement avec
l'Association, la famille, il reste très peu de temps.
Ton regard d'ailleurs sur la
réalité linguistique valdôtaine…
La chose qui m'étonne le plus, c'est que parfois les gens qui habitent
ici en Vallée d'Aoste sont contre le français alors que
c'est un capital pour eux. Les enfants qui fréquentent l’école
d’ici sont privilégiés, car ils reçoivent une
instruction qui les prépare à la langue française.
C'est un avantage, ce n'est pas un inconvénient !
Mostafa Moutazakki
37 ans, Président de l'AMIVA, Association des
Marocains Immigrés en Vallée d'Aoste, barman, médiateur
interculturel.
Più lingue, più
turisti
Ho frequentato il liceo linguistico di Courmayeur perché
ritenevo che in una Regione come la Valle d’Aosta, dalle enormi
potenzialità turistiche, la conoscenza di più lingue fosse
indispensabile. Ho imparato senza difficoltà l’inglese, del
tedesco ho una conoscenza puramente scolastica, conosco bene il francese.
Ho ottenuto poi a Chambéry una “Maîtrise en Tourisme,
Hôtellerie et Transports”.
Ho continuato a studiare l’inglese abbandonando invece il tedesco.
Per diletto ho studiato anche un po’ di spagnolo. La lingua però
di cui vado più fiera è il patois, una lingua che è
una ricchezza e che andrebbe coltivata.
Sono nata nel 1971 e faccio parte di quella generazione i cui genitori
si vergognavano di parlare ai propri figli il patois. Io vorrei, invece,
insegnarlo con orgoglio ai miei figli. Molti miei coetanei sono stati
penalizzati, non hanno avuto la “chance” di imparare questa
bella lingua e adesso parlano solo in italiano. Risiedo a Pré-Saint-Didier,
dove il patois è ancora molto parlato.
Di che lingua hai bisogno per
vivere?
Il francese e l’inglese mi sono indispensabili. Come assessore al
turismo, ho incontrato spesso realtà francesi con cui si potevano
avviare progetti di collaborazione. Ultimamente sono stata in Austria
con il Consorzio di Operatori Turistici per vedere da vicino come funzionano
le stazioni turistiche e lì mi sono resa conto che il mio tedesco
andava rispolverato. Fortunatamente ho potuto utilizzare sia il francese
che l’inglese per comunicare con gli altri operatori.
In Valle d’Aosta, regione a vocazione turistica, è fondamentale
conoscere più lingue, per soddisfare una clientela sempre più
eterogenea che ormai arriva da ogni parte del mondo.
Alessandra Uva
34 anni, libera professionista a Courmayeur, Assessore
al Turismo del comune di Pré-St-Didier, membro dell’esecutivo
dell’AIAT Monte Bianco, Vice presidente del Consorzio per Operatori
Turistici del Monte Bianco.
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