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Il gioco al tempo della globalizzazione

Niente come il gioco ci restituisce il senso di un’appartenenza globale ad un insieme più vasto. L’atto ludico rappresenta una struttura complessa, una pluralità di esperienze che sollecita capacità progettuali e mette in gioco l’affettività e le conoscenze di ogni giocatore. Non si può fare a meno del gioco.

Non mi pare inutile ricordare che il gioco rappresenta, per l’uomo e per il bambino, una dimensione fondamentale che li pone all’interno di una pluralità di esperienze. Il bambino, l’uomo gioca ed il suo gioco risponde ad un bisogno profondo del suo essere. Attraverso il gioco si scopre il mondo, si entra in relazione col proprio ambiente, con gli oggetti, con le persone che lo popolano.
Il gioco, quindi, ha una funzione di autoconoscenza, ma anche di legame con gli altri e di connessione, infine, con il mondo della natura. Niente come il gioco, dal punto di vista dell’attività umana, ci restituisce il senso di un’appartenenza globale ad un insieme più vasto. In questo senso è essenziale interpretare il gioco come una forma specifica di comunicazione. L’uomo che gioca è essenzialmente un uomo che comunica. L’atto ludico non è qualcosa di biomeccanico, ma rappresenta una struttura complessa, la pluralità di esperienze a cui si accennava inizialmente, che richiede e sollecita capacità decisionali, progettuali, che si alimenta di specifici modelli culturali di comunicazione, che mette in gioco l’affettività e le fantasie di un giocatore, di interi gruppi sociali.
Il gioco è dunque un bisogno fondamentale dell’uomo in quanto tale e permette, a sua volta, di rispondere ad alcuni bisogni fondamentali.
Da quest’angolazione può essere utile distinguere il gioco dai giochi. Il gioco è la situazione ludica per eccellenza ed esprime il sentirsi causa di un’azione senza essere obbligatoriamente inserito in un contesto di regole. Roger Caillois parlava di “paidia” per esprimere appunto questa immediata turbolenza.
Il gioco è prima di tutto un’esperienza personale.
Il sentimento del gioco è noto solo a chi gioca. Non si può, nel gioco, essere enologi astemi. Ma solo chi gioca sa di “essere nel gioco”. Essere nel gioco non è qualcosa di legato al rispetto delle regole, ma dipende da chi gioca. Il gioco è un atto libero e volontario. Un bambino può non sentirsi a suo agio nel gioco, può non giocare eppure rispettare apparentemente tutte le regole. Molti giochi di tradizione conoscono questa dinamica ed hanno previsto la possibilità di “uscire dal gioco” senza rompere il gioco, senza interromperlo.
Il gioco esprime così una libertà individuale fondamentale per il benessere della persona.


Ma il gioco si esprime concretamente anche nei giochi. Sempre Caillois parlava di “ludus” per identificare quella dimensione del gioco che viene regolata.
I giochi sono raggruppabili in diverse categorie, molte sono le classificazioni. In ogni caso i giochi vengono ordinati in base alla loro struttura di regole, eventualmente in base agli spazi utilizzati, agli strumenti necessari. I giochi rappresentano quindi il versante normativo della questione: organizzano il gioco in articolate manifestazioni ludiche che esprimono in maniera visibile l’aspetto del riferimento alla cultura di appartenenza. Il gioco si gioca, ma siamo giocati dal gioco. È chiaro che vi è una stretta relazione tra il sentimento del gioco ed il sistema dei giochi. Ma è quel riferimento dialettico che esiste sempre tra il soggetto ed il suo universo culturale di riferimento.
Roger Caillois nel libro I giochi e gli uomini propone una partizione dei giochi in quattro grandi categorie che corrispondono a quattro piaceri fondamentali:
1. Il piacere della competizione: l’agon, affrontarsi, collaborare, opporsi, misurare nel gioco le proprie capacità, sviluppare forme diverse di adattamento all’ambiente. La competizione non va appiattita sull’agonismo esasperato, ma non può essere neppure negata come componente essenziale della natura stessa del gioco e dei giochi. La competizione implica la stima dell’altro, il rispetto.
2. Il piacere dell’azzardo: l’alea, il gioco provoca una sfida non sempre regolata da elementi troppo oggettivi. Il piacere di confrontarsi con il caso, con il destino. Tutti i giochi hanno una parte di azzardo, ma è evidente, anche dal punto di vista culturale, la significatività dei riti di sfida di forze che ci superano.
3. Il piacere della vertigine: l’ilinx, non si può stare sempre con mani e piedi incollate al terreno. Il gioco stimola il piacere del non stare sempre in perfetto equilibrio; c’è il piacere dell’avventura, del rischio che si esprime in modi molto diversificati. Alcuni hanno parlato di “flirt” con la morte. È l’audacia calcolata che ci permette di affrontare ansie, paure.
4. Il piacere del travestimento: la mimicry, la possibilità di essere “altro da sé”, di evadere, di uscire dal proprio personaggio, di sperimentare, in un cerchio protetto, altre forme della nostra identità. Giochiamo con noi stessi, prendiamo le distanze dalle costrizioni abituali della nostra vita, ma è anche la ricostruzione ludica dei meccanismi di quello stesso mondo. Giocare a “far finta di” è il gioco più antico ed immediato degli esseri viventi. È il sale stesso della comunicazione.
Questa ripartizione è sempre utile e feconda: specie per comprendere come il gioco sia così radicato nella nostra vita.

Il rapporto tra gioco e cultura
Il rapporto tra gioco e cultura è stato al centro di numerosi studi e ricerche. Eppure molto spesso lo vediamo sottovalutato. Johan Huizinga nel suo libro Homo ludens ha sostenuto che la stessa cultura sorge in forma di gioco, la cultura è dapprima giocata. Roger Caillois riteneva possibile scrivere una sociologia a partire dai giochi stessi e dichiarava che quanto si esprime nei giochi non è diverso da quanto si esprime nella cultura.
Paul Ariès, nel libro Padri e figli nell’Europa medioevale e moderna, scrive: “nella società di un tempo… i giochi andavano molto al di là dei furtivi momenti che ci si dedicava: costituivano uno dei principali mezzi di cui disponeva una società per rinsaldare i legami, per avvertire il senso della vita in comune”.
Claude Lévi-Strauss nel suo fondamentale libro Il Pensiero Selvaggio racconta di un gioco che assomiglia al nostro calcio, praticato dagli indigeni Gahuku-Gama della Nuova Guinea in cui non vi sono dei vincitori, ma in cui è fondamentale il rituale. La stessa situazione la ritroviamo in molti giochi tradizionali della nostra cultura (si pensi allo Sparviero, al gioco dei Quattro Cantoni) ma anche nella cultura africana (si pensi al gioco da tavoliere dissimmetrico de “La tigre ed i sette leopardi” in cui è nota sin dall’inizio la conclusione del gioco, ma il bello del gioco sta appunto nel giocare, nel resistere il più possibile alle prese dei leopardi).
Pierre Parlebas, nel libro Giochi e sport ricorda come nella tradizione della popolazione dei Dogon (Burkina Faso) non vi siano giochi di palla a causa delle condizioni ambientali in cui vivono quelle popolazioni.
Faccio questi esempi per sottolineare come il gioco ed i giochi siano strettamente connessi ai significati ed alle condizioni culturali in cui nascono e si evolvono.
Roland Barthes in Miti d’oggi fa una serie di belle analisi, ad esempio, del gioco del Catch leggendolo come la metafora del conflitto tra Bene e Male. Poi qui studia anche il Tour de France, la corsa ciclistica forse più famosa, per comprenderla quale epopea del superamento del Male, del raggiungimento della Salvezza oltre il mito della Montagna da
scalare, mentre i Giochi Olimpici sono presentati come il “mito assoluto” della competizione.
Come ha rilevato bene Pierre Parlebas, l’etnomotricità ricollega l’azione motoria ed il gioco in genere, al campo storico e sociale.
Il gioco, dunque, è nello stesso tempo prodotto e produttore sociale. Il gioco, e tutte le sue articolazioni, diffondono dunque, spesso meglio di un manuale di educazione civica, il modello di comportamento auspicato da un dato gruppo sociale. Come scrive Pierre Parlebas “gli universali del gioco non sono neutri: essi veicolano modi di comportarsi e di incontrarsi conformi ai modelli valorizzati dalla società che li promuove”.
In effetti, il problema è che questo fenomeno è in parte negato. La gratuità apparente delle liturgie ludiche maschera il significato di acculturazione che esse racchiudono. Si pensi al fenomeno dello sport nella nostra società: viene presentato come qualcosa di esterno al campo sociopolitico. Sono “naturalizzati” quando invece sono immersi nella cultura. “Ogni ludismo è etnoludismo”.
Prendiamo l’esempio famoso della lotta. La versione da noi conosciuta e diffusa della lotta greco-romana ha una precisa organizzazione: combattimenti di tre riprese di tre minuti, saluto dei lottatori, abbigliamento codificato, gironi di qualificazione, finali…
In Senegal esiste un’altra forma di lotta (codificata da una federazione) che si chiama Lamb. Questo tipo di lotta ha una durata notevole: cortei di presentazione, riti di preparazione, danze, mascheramenti… può durare ore. È chiaro che risponde ad esigenze culturali ed istituzionali molto diverse. Sostituire il Lamb con la nostra lotta porterebbe ad una deculturazione corporea molto grave.
Eppure lo sport sta tentando questa egemonia, questa globalizzazione delle pratiche ludiche e corporee. Mentre la maggior parte delle pratiche umane (religione, lingua, sistemi politici) provocano conflitti, lo sport sembra godere di una universale considerazione. La sua globalizzazione è un dato acquisito e si presenta come una motricità transculturale, un linguaggio da tutti compreso e comprensibile che favorisce un’intesa universale. Non sono certo contro lo sport, ma vorrei chiarire che il dominio dello sport non è un fatto naturale, ma il risultato di un processo più ampio che si appoggia sulla semplificazione di alcuni tratti caratteristici della dimensione ludica e corporea. È come se la ricchezza dell’espressione ludica potenzialmente possibile si sia contratta in una serie di pratiche che, malgrado la loro apparente diversità, rinviano ad alcune costanti.
E mi riferisco al fatto che lo sport garantisce lo spazio standardizzato e privato di ogni incertezza (stadio, piscina, palestra); valorizza la prodezza individuale, privilegia il modello del duello, conferma i ruoli stereotipati del maschio e della femmina.
In una prospettiva interculturale autentica occorre dunque considerare lo sport quale una categoria etnomotoria specifica tra le molte altre possibili ed i valori di cui è portatore non come qualcosa di universale e superiore. Imporlo a scapito di molte altre pratiche ludiche tradizionali significa privare molte comunità, la nostra occidentale compresa, della loro identità ludoculturale che è ben più articolata e ricca.


Ludicità come biodiversità
Il gioco, con la sua multiforme diversità culturale, rappresenta un potenziale laboratorio, non solo per la memoria del mondo, ma anche per la memoria del corpo, soggettivamente e culturalmente inteso.
La grande varietà dei giochi tradizionali in termini di relazioni, strumenti, situazioni di confronto, immaginazione e fantasia è una “riserva di biodiversità culturale” per il corpo che dovrebbe essere dichiarata patrimonio dell’umanità. Si pensi ai giochi delle popolazioni Dogon del Mali che vivendo in una regione caratterizzata da falesie e dirupi non praticano né giochi con la palla né giochi che richiedono grandi spazi orizzontali, sviluppando invece pratiche corporee di destrezza circoscritta; ai giochi nigeriani come Il leone degli Yoruba, particolare gioco di presa; ai giochi paradossali (che implicano un contratto ludico simultaneo e contrario: prendere ed essere preso) I tre campi o Palla seduta che potrebbero anche non avere un vincitore finale; ed anche al già citato Lamb. Persino in un ambito limitatamente europeo troviamo una notevole diversità di situazioni tra le pratiche corporee delle culture bretoni, basche o salentine. Ad essere in gioco è dunque il corpo stesso che sarà tanto più povero quanto più uniformato a comportamenti motori fissi. Probabilmente certi comportamenti estremi e trasgressivi nell’uso del proprio corpo da parte di alcune fasce di adolescenti sono la reazione al muro della noia in cui per anni è stato gettato il loro corpo dai riti di una ludicità corporea imposta.
Il corpo è un rivelatore sociale, ovvero qualcosa che riflette le scelte di un gruppo sociale, ma è anche un laboratorio sociale che “inventa” (trova, dunque) relazioni, che mette alla prova strumenti ed oggetti della quotidianità. Oggi, semplicemente, i bambini non s’incontrano più nel quotidiano se non in recinti preconfezionati che mortificano il corpo. Ed i pochi luoghi liberi sono desolanti per la povertà della loro qualità e per la pressante presenza degli adulti. Nel bene e nel male, infatti, il corpo che gioca dei bambini è sempre più “gestito” dagli adulti: animatori, ludotecari, istruttori… prolungamento del controllo parentale che limita l’autonomia.

Gioco ed intercultura
La biodiversità ludica rinvia al gioco come strumento di sviluppo interculturale inteso come teoria e pratica del diritto alla differenza, come educazione aperta e non certo come strumento più o meno consapevole di omogeneizzazione, o veicolo di valori astratti come ad esempio, la “fratellanza universale”. Nella dimensione interculturale c'è qualcosa di più: c'è l'apprendimento ad affrontare le contraddizioni in una logica di complessità che investe il nostro quotidiano.
L'apprendimento interculturale si fonda e si alimenta su forme di apprendimento transcognitive ovvero sulla maggiore o minore capacità di “locomozione” da un atto cognitivo all'altro, da una forma mentis all'altra. La pedagogia interculturale può allora consistere nell'educare non semplicemente alla conoscenza delle differenze, riscontrabili inevitabilmente in un soggetto di origine culturale diversa, ma nell'educare alla transitività cognitiva che potrebbe favorire processi quali:
1. la permeabilità nei confronti dei punti di vista altrui;
2. la sintonizzazione con pensieri formatisi in altri contesti;
3. l'integrazione strategica in modo che il confronto non dia vita solo alla conoscenza reciproca o alla conoscenza tematica di uno stesso problema visto da angolazioni diverse.
In fondo, a ben pensarci, la questione fondamentale è il superamento della monoculturalità che enfatizza la dimensione statica dell'essere. Il gioco ed il giocare possono essere utili in questo sforzo di superamento. Riprendendo Gregory Bateson credo che occorra davvero abituarsi a pensare alla cultura non come ad una struttura fissa, ma come una “danza di parti interagenti”. E questo significa imparare non ad appiccicare etichette rigide, ma a pensare e vivere attraverso relazioni e contesti rinnovati che valorizzino l'idea che la conoscenza è il frutto dell'attenzione e della reazione a delle differenze e che l'essenza dell'apprendimento non sta nella ripetizione prevedibile, ma nell'esplorazione e nel cambiamento. Credo che il gioco ed il giocare possano essere la struttura portante di una ricerca nuova anche in questo campo.

Stefano Vitale

Bibliografia
Parlebas P. (1996), Giochi e sport. Corpo, comunicazione e creatività ludica, Il Capitello, Torino.
Caillois R. (1981), I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano.
Huizinga J. (1979), Homo Ludens, Einaudi, Torino.
Barthes R. (1974), Miti d’oggi, Einaudi, Torino.
Lévi-Strauss C. (1964), Il Pensiero Selvaggio, Il Saggiatore, Milano.
Ariès P. (1983), Padri e figli nell’Europa medioevale e moderna, Laterza, Bari.
Winnicott D. W. (1974), Gioco e realtà, Armando Editore, Roma.
Bateson G. (1971), Mente e Natura, Adelphi, Milano.

Altri testi utili
COTRONEA M., VITALE S., Arancio, Limone, Mandarino. 36 giochi della tradizione.
CEMEA del Piemonte (a cura di), La Coda del Diavolo. 75 giochi di gruppo, Il Capitello, Torino.
STACCIOLI G., Quando i bambini giocano a campana, Il Capitello, Torino.
COTRONEA M., VITALE S., Lupo ci sei? Girotondi e giochi cantati, Il Capitello, Torino.
COTRONEA M., VITALE S., Le sette pietre. Giochi sportivi tradizionali, Il Capitello, Torino.
STACCIOLI G., Una palla, un muro e... Ragionamenti ludici sul gioco e lo sport.
CEMEA Toscana (a cura di), Giochi di tavoliere, Il Capitello, Torino.

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