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Edutainment: educazione e gioco in ambienti interattivi

Manca ancora una strategia educativa capace di contestualizzare il gioco interattivo e di riequilibrare la grande offerta di videogame e di consolle che attraggono le nuove generazioni.
Se l'interattività non sarà solo intesa come un “cliccare a vanvera”, ma come una nuova forma d'interazione sociale e cognitiva, saremo in grado di giocare l'opportunità della società dell'informazione, per non esserne giocati.

L'uomo è veramente tale soltanto quando gioca.
Friedrich Schiller


La dimensione ludica da sempre rappresenta la forma più spontanea di relazione interumana: attraverso quest'interazione ci si misura con lo spazio e il tempo imparando a condividerli.
Se il gioco è il luogo ideale della simulazione e della libera sensorialità è quindi plausibile estendere questa potenzialità nell'ambiente artificiale dell'ipermedia, dove iniziamo a dimensionarci in un nuovo spazio-tempo, quello digitale.
Qui entrano in gioco (e questa parola non capita qui per caso) altri fattori, quelli generati dall'interattività e quelli legati al "colpo d'occhio", ovvero la velocità di rilevamento di un'immagine che produce informazione.
In questo senso alcuni videogame possono svolgere la funzione di palestra sia percettiva sia cognitiva, da certe fiction interattive (tra i tanti esempi, quello che qualche anno fa ha conquistato una forte attenzione: Tomb Raider con la protagonista Lara Croft, amatissima eroina virtuale, estesa anche al cinema) fino all'edutainment cosiddetto, in cui si coniugano l'educational con l'entertainment, lo spettacolo, il gioco.
È qui che va aperto (senza perdere più tempo, sono più di dieci anni che se ne parla) un dibattito responsabile sulla ridefinizione dei modelli pedagogici in relazione al mondo che cambia. È opportuno in tal senso superare tutti quegli scrupoli (spesso espressi da chi non è disposto a comprendere le nuove dinamiche psicologiche emergenti) sull'inibizione del pensiero logico-razionale a fronte della sensorialità sollecitata dalla pulsione interattiva.
Il vero obiettivo è mettere in relazione i principi basilari dell'apprendimento: quello alfabetico che sta alla base delle dinamiche logiche e quello audio-visivo, e ancor più quello interattivo, capace di potenziare l'intelligenza percettiva ed emozionale.
Manca ancora, dopo tutto questo tempo, una strategia educativa ed insieme editoriale capace di contestualizzare questo fenomeno del gioco interattivo, per riequilibrare la grande offerta di videogame e di consolle che attraggono inesorabilmente le nuove generazioni,
in un'ansia consumistica di oggetti senza qualità.
Ma la qualità c'è e va cercata, anche in molti di quei prodotti. Ma ancora di più quella qualità va inventata con una seria, e ludica, produzione di oggetti che sappiano armonizzare le abilità narrative con quelle interattive, utilizzando più che altro il web.
È infatti necessario tradurre nei contesti digitali
le capacità di raccontare secondo le nuove dinamiche percettive, per condurre i più giovani nell'esplorazione, nell'esperienza-conoscenza di un mondo sempre più complesso.
È in questa mobilità immaginaria che troverà sviluppo la nostra evoluzione culturale in una società dell'informazione connotata dalla molteplicità dei segnali. Un'evoluzione possibile non per via tecnologica ma per via psicologica. Ciò sarà possibile se si riuscirà ad attivare quella flessibilità e quella selezione qualitativa che stanno alla base di un'agilità ludica in grado di giocare l'opportunità della società dell'informazione, per non esserne giocati; se saremo in grado di fare dell'interattività, non solo una coazione a ripetere, un “cliccare a vanvera”, ma una nuova forma d'interazione sociale e cognitiva.


Giocare e imparare navigando
La multimedialità, e ancor più la telematica, si stanno rivelando non solo dei buoni strumenti ma degli ambienti in cui interagire, inventando nuove forme di comunicazione.
In questo senso il sistema educativo ha iniziato a riconoscere quanto sia importante misurarsi con queste possibilità attivando progetti che rendano facile e amichevole l'approccio con i nuovi media interattivi.
Nella comunicazione multimediale il fatto stesso di far interagire il principio cognitivo (la testualità, fondamentalmente) con quello percettivo (le immagini e i suoni) induce ad un rapporto che definisco di edutainment: un modo in cui l'educazione si coniuga con il gioco inteso come modalità scatenante di risorsa umana, attiva e collaborativa.
L'edutainment è generalmente riferito ai CD-Rom, ma anche Internet sempre più ci mostra all'interno di siti educativi, le più diverse applicazioni ludiche concepite proprio come giochi on line che invitano alla partecipazione attiva e, in alcuni casi, condivisa a distanza con altri utenti.
Questo discorso apre su almeno tre fronti: l'educazione, il gioco e la comunicazione. Intendo qui far concentrare l'attenzione sul primo, per tentare di dare un impulso ad uno dei compiti più importanti della nostra società, l'educazione e una formazione continua in grado di affrontare il mondo che cambia.
Se educare significa stimolare un approccio dinamico con le conoscenze, tirare fuori risorse più che mettere dentro informazioni, ci si rende conto di come l'impianto dell'istruzione tradizionale sia impreparato alle metamorfosi sociali provocate dai media.


Conoscere attraverso la simulazione
C'è un libro che consiglio vivamente: Computer per un figlio (Laterza, 1999). È di Francesco Antinucci dell'Istituto di Psicologia del CNR, uno dei maggiori osservatori delle modificazioni psicologiche in relazione ai nuovi media interattivi. Tra i tanti spunti d'ottima riflessione (articolati in un continuo dialogo tra genitori: tra quelli preoccupati e quelli occupati a comprendere quello che accade ai propri figli) emerge l'utile definizione delle tre variabili nell'approccio con i giochi interattivi. Criteri che corrispondono ai tre livelli di sviluppo cognitivo indicati da Jean Piaget (variabile dell’abilità che riprende il livello psicomotorio in cui si integrano la percezione e l’azione; variabile della simulazione che rimanda al pensiero logico-razionale; variabile dell’adventure che si collega al livello rappresentativo da cui si origina il pensiero simbolico).
A questo punto per entrare ancor più nel merito intendo descrivere alcune mie esperienze dirette con i videogame, per cercare di comprendere (etimologicamente: prendere con me) questi mondi.
Penso proprio che sia opportuno fare questa stessa esperienza per chiunque voglia abbandonare lo stallo da rigetto culturale per ciò che non si comprende.
Tra gli adventure, non posso fare a meno di ricordare Myst, che mi fece entusiasmare quando uscì in Italia nel 1994. Non mi interessava sparare ad astronavi, né fare il karateka, anche se ne riconoscevo la virtù “psicomotoria” dello stimolo e del riflesso; né tantomeno i giochi logici e di strategia.
Invece con Myst ho assaporato una pista che portava lontano: in quella ludicità c'era l'arte che cercavo già da tempo nel teatro. Quella di un'arte di simulazione da attraversare con lo sguardo e che ti introduce in un ambiente da esplorare.
Superato psicologicamente lo schermo, attraverso la soglia dell'interfaccia grafica, era possibile dare vita ad un'azione nella visione, come nella realtà virtuale immersiva. In Myst, infatti, invece di risolvere un enigma ci cadi dentro.
“Immagina la tua mente come una lavagna pulita, come le pagine di questo diario”, si trova scritto nel The Journal of Myst, pubblicazione della Broderbund Software, la casa produttrice del gioco. Ma sono gli stessi autori, i due fratelli Miller, Rand e Robyn, che avevano realizzato la straordinaria computer grafica dell'adventure, con due Macintosh da 24 Mb di Ram ciascuno (niente male per quei tempi), a dare il giusto tono all'esperienza da intraprendere. E ancora: “State per essere trasportati in un incredibile universo parallelo. Tutto il gioco, è stato progettato in modo che nessun elemento possa interferire con quella sensazione d'immersività che è stata fin dall'inizio alla base del nostro progetto”.
Non appaiono, infatti, istruzioni per l'uso, pulsanti da interpretare; tutta la navigazione è affidata all'intuitività dello spettatore-navigatore. La spazialità del gioco, la capacità del nostro ambientamento, diventa così più importante di quello che c'è sotto.
Una volta dentro una stanza il problema non è più sapere come andrà a finire la storia, ma uscire da quella stanza. Ti prende la smania, vuoi andare via, ma non trovi la via d'uscita. E chi ci pensa più alla storia. Devi cavartela da solo. La storia sei tu.
Sei dentro, quindi. È una condizione psicologica che non ha paragoni con altre esperienze, se non (solo per alcuni aspetti, con certe performance teatrali radicali).
Non ha niente a che fare, ad esempio, con l'immedesimazione che può essere vissuta al cinema.
No, non stai guardando dal di fuori, sei dentro: dentro l'ambiente digitale e ti ci muovi, agisci, acquisisci informazioni, fai esperienza.
In questa situazione si può comprendere di colpo, all'improvviso, come una rivelazione, cosa significhi auto-apprendimento multimediale.
Capisci che per imparare a giocare bisogna giocare a imparare.
S'impara quindi nel processo stesso del gioco, la conoscenza si articola così attraverso la simulazione virtuale.
Un altro gioco farebbe cambiare idea a molti di quelli che ancora snobbano con sufficienza queste esperienze è SimCity, e in particolare Simcity2000, la sua evoluzione.
Si tratta di uno dei più raffinati giochi di simulazione che, progettato da Will Wright già nel 1998, mette a disposizione le opportunità per costruire una città, attuando pianificazioni urbanistiche e strategie pubbliche di convivenza civile. Un gioco che ha aperto una strada che molti altri hanno percorso; penso a Virtual Polis, Habitat o, su un versante di simulazione storica, Civilization, Colonization o The age of Empires.
Per non parlare delle fiction interattive d'evocazione fantascientifica, Ubik tra i tanti, o cyber-fantasy quelle che si basano sul meccanismo del gioco di ruolo come Final Fantasy 7.
“Giocare è il processo per scoprire come funziona il modello di simulazione”, sostiene l'autore di SimCity, un modo per commisurarci con la complessità di sistemi che spesso vengono resi complicati per evitare che la società civile se ne occupi.


La presa di coscienza dell'infosfera
I giochi di simulazione vanno considerati dei tool, degli strumenti che ci fanno riflettere, sperimentando, su quanto la società reale sia spesso condotta come un gioco di simulazione fatto male. Penso a come si potrebbero risolvere i problemi con la strategia del buon senso, della pianificazione, della progettazione partecipativa e della previsione, adottando soluzioni compatibili, rivelando magari, con dati alla mano, i meccanismi inerti di gestioni inconsapevoli.
È per questo che l'interesse per i giochi di simulazione non riguarda solo pedagoghi o insegnanti, ma tutti quelli che credono che formulare un discorso critico sul mondo della simulazione elettronica possa diventare un modo per prendere coscienza della nuova realtà che ci circonda e che ci introduce progressivamente nell'infosfera.
Nel momento in cui si parla di società dell'informazione s'inizia a percepire che il rapporto tra noi e i sistemi informatici sarà sempre più diffuso nella quotidianità, arrivando a sfumare quel rapporto decisamente contraddittorio che c'è tra l'uomo e la macchina: i computer si vedranno sempre meno, saranno miniaturizzati e mimetizzati all'interno di telecomandi, cellulari, decoder sempre più friendly, amichevoli.
La simulazione può quindi essere vista anche come una sfida per costruire una critica sociale più evoluta, un nuovo tipo di critica che tenta di usare la simulazione come mezzo per l'espansione della presa di coscienza dell'infosfera che ci avvolge.
Ma torniamo ai bambini, e sul perché abbiamo da imparare qualcosa da loro.
“I bambini di oggi stanno crescendo immersi nella cultura informatica, mentre tutti noi siamo al massimo cittadini naturalizzati” dice ancora Sherry Turkle.
La new-net-next generation potrà svolgere così la funzione di mediatrice culturale tra noi e il nuovo ambiente digitale.
Il primo fu Piaget a rilevare le modalità concrete del processo cognitivo del bambino: la sua mappatura delle cose a disposizione e la diretta manipolazione degli oggetti può oggi essere traslata nel desktop di un computer.
È ovvio che la presenza attenta dell'adulto, genitore o insegnante che sia, sarà determinante per far crescere il senso di realtà nel bambino. Se venisse lasciato troppo solo, potrebbe squilibrarsi (come accadrebbe d'altronde se passasse intere giornate leggendo fantascienza o romanzi storici o costruendo capanne nei boschi), costruirebbe il suo mondo esclusivo, il miglior mondo possibile, da cui sarà faticoso poi ricondurlo a quello condiviso con gli altri.
Non dimentichiamo come ragionano i bambini, per loro l'esperienza-conoscenza è tutto, specialmente se passa attraverso la simulazione del gioco.
È in quel contesto che liberano un'energia che definirei lo stile concreto del pensiero.


Non conosco altro modo più serio di affrontare
i problemi della vita che non sia il gioco.

Friedrich Nietzsche

Carlo Infante

Bibliografia
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