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I
tempi in cui l'insegnante si metteva in gioco.
Un testo che ha il senso di un “amarcord”.
Racconta una storia che oggi non c'è più negli stessi termini,
ma che pensiamo sia utile conoscere. Certo non si confronta, se non in
controluce, con la realtà di oggi, ma ha un valore storico ed educativo
talmente straordinario da perdonargli questa assenza. Sapere che la riflessione
pedagogica partì nelle tiepide notti di Champorcher e che la teoria
lì elaborata avrebbe aperto successivamente a tante scuole italiane
ed europee le strade della sperimentazione e della verifica del “lavoro
teatrale nella scuola”, ci riempie di orgoglio e un po’ ci
emoziona.
“Che mestiere fai?” chiese un bambino a
Passatore. “Gioco con i bambini” fu la risposta.
Tratto da Io ero l’albero, tu il cavallo
Philippe Noiret, il grande attore francese, racconta che ogni sera, prima
di recarsi a teatro, rivolgendosi alla figlia, intenta a studiare, la
salutava con una espressione apparentemente bizzarra: “Bonsoir,
ma chérie, papà va jouer”.
Non si tratta soltanto di una banalità linguistica comune al mondo
occidentale (jouer, to play, jugar, spielen), ma di un modo di intendere
il teatro come luogo deputato dove si perpetua la sacralità del
gioco.
Un certo attore italiano, invece, in virtù di un lessico meno simbolico
e più economicamente rassicurante, era costretto a dichiarare in
famiglia “Vado a recitare”, cioè a lavorare, attenuando
la gioia che gli derivava dall’esercizio ventennale del gioco
dell’attore.
Nel gennaio 1969 (era il tempo delle ideologie e della contestazione:
l’operazione di totale cambiamento del mondo sembrava a portata
di mano) egli si mise in testa di recarsi personalmente con gli
strumenti del suo “lavoro” nelle scuole di Torino, allo scopo
di confrontare il proprio gioco scenico con il massimo esperto naturale
dell’attività ludica, il bambino. Il caso volle che il confronto,
oltre che rivelarsi interessante, avvenisse alla presenza di maestri che
appartenevano al Movimento di Cooperazione Educativa, un’associazione
di insegnanti presente sul territorio nazionale, mossi, da vocazione professionale
ed impegno sociale, a cercare e sperimentare le strade di una pedagogia
moderna e democratica, diversa dal corrente autoritarismo didattico. Il
Movimento agiva attraverso la cooperazione e lo scambio dei dati della
ricerca tra gruppi territoriali, e spesso si confrontava con studiosi
ed esperti che venivano invitati a periodici incontri, tenuti generalmente
durante le vacanze in vari luoghi della penisola.
L’attore fu ospitato proprio a Champorcher, nel settembre dello
stesso anno, a raccontare le prime esperienze dirette di attività
teatrale con i ragazzi, in occasione di un corso promosso dal gruppo valdostano
del MCE. In seguito, quell’ameno paese sarebbe diventato un luogo
di ritrovo abituale per stage e incontri dei gruppi del Movimento.
Agli appuntamenti l’attore partecipò sovente in
qualità di organizzatore di momenti attivi di teatro e di libera
espressione e, insieme ai suoi collaboratori, ebbe modo di sperimentare
con gli insegnanti alcune tecniche di gioco teatrale. Lo scopo era di
verificare la disponibilità dell’adulto, mettendolo fisicamente
e psichicamente alla prova attraverso lo strumento del teatro, per recuperare
la parte emozionale, espressiva e comunicativa di ognuno. Dal punto di
vista educativo si tese a promuovere e cercare una dimensione ludica,
creativa e antiautoritaria nei rapporti insegnante/alunno, genitore/figlio,
adulto/bambino.
Essendo trascorso molto tempo da quegli incontri, in
mancanza di specifica documentazione, si stenta a restituirli alla memoria
ricostruendo un quadro organico. Un fardello di dati, episodi, azioni
riemerge dai confusi ricordi dei partecipanti, come i cocci di un mosaico
di insicura ricomposizione. Disordinatamente riemergono eventi, goduti
e subito consumati nel gioco dell’improvvisazione teatrale, quasi
come sogni:
• Un viaggio iniziatico in salita a ridosso degli alberi di un boschetto
scosceso sottostante il Ristorante Le Coq, con fermate obbligatorie
in diverse stazioni dove i partecipanti dovevano sostare per sottoporsi
a prove di liberazione ideologica e comportamentale. Al termine del percorso
l’iniziato veniva ufficialmente accettato nel mondo della libera
espressione.
• La metafora della genesi dell’attore: in una atmosfera magica
di suspense, una placenta fatta di sacchi neri di plastica avvolgeva i
corpi inerti delle persone, le quali, spinte dal bisogno di emanciparsi
dagli stereotipi della quotidianità, squarciavano l’involucro
costrittivo, per emergere alla luce della libera espressione
della corporeità.
• Durante un congresso nazionale del Movimento, all’interrogativo
in discussione su come aiutare l’Io diviso (Laing) tra
razionalità ed emotività, l’attore rispose
mediante segni cromatici, oggettuali, spaziali e operativi. Divisi in
due gruppi, i partecipanti dovevano tendere contemporaneamente lungo il
soffitto di una stanza (del Ristorante Le Coq…) due orditi di fili
di lana, uno superiore di colore rosso, che avrebbe significato l’aspetto
emozionale della persona, l’altro sottostante di lana blu, cioè
la razionalità, intesa come freno dell’emozione. Ne scaturì
un arduo gioco simbolico di mani e braccia protese ad effettuare la doppia
e contrastante tessitura di fili blu e di fili rossi. (Fu un’azione
collettiva di
un positivo conflitto, dall’esito veramente intenso, trascinante
e partecipato).
• E ancora, i tanti momenti di improvvisazione teatrale durante
i quali compassati maestri, sotto gli occhi perplessi dei villeggianti
e dei locali, vestirono ironicamente i panni dei personaggi della loro
realtà, direttori didattici, alunni, colleghi, genitori, familiari;
eseguirono canti liberi, più o meno ispirandosi alle tecniche
di Freinet; intrecciarono libere danze al ritmo brasileiro del tico-tico;
elaborarono al magnetofono ricerche d’ambiente attraverso la registrazione
dei suoni e degli echi della natura.
Finora si è parlato di frammenti di un mosaico della memoria. Un
elaborato documento teorico inserito tra le pagine di un saggio dell’epoca
(Io ero l’albero, tu il cavallo…) descrive attentamente
le fasi di un dibattito sul gioco e sul lavoro teatrale nella scuola avvenuto
ancora a Champorcher dal 28 giugno al 15 luglio del ’71, durante
uno stage di base imperniato sulla verifica operativa dei vari gruppi
territoriali.
Il racconto dell’attore, dalla stentata ricostruzione dei ricordi,
può dunque continuare con citazioni di prima mano dell’esperienza.
“Si volle vivere la vita dello stage, per cercare un inserimento,
non solo a livello tecnico, ma soprattutto in una ricerca di rapporti
umani, interpersonali prima che di gruppo”.
Tra le persone più interessate c’era soprattutto il bisogno
di approfondire e di confrontarsi sui significati della libera espressione,
attraverso la stesura di un documento analitico (la cui lettura oggi appare
nel linguaggio e nei contenuti ideologica e velleitaria), nonché
di formare il gruppo MCE di teatro.
Il documento sosteneva il carattere di globalità della
libera espressione, inteso non come momento educativo settorializzato,
in quanto, canto, pittura, ritmo, modellaggio, gesto, linguaggio verbale,
“proprio perché strumenti di creatività e fantasia,
offrono alla ricerca possibilità di indagine attiva e quindi di
permanente intervento dialettico del ragazzo stesso sulla sua realtà,
in tutti i molteplici aspetti”. A proposito del gioco e della festa
il documento ribadisce:
“Il bambino, come l’adulto per altro, non conosce che feste
stereotipate ed occasioni di felicità comunitaria tutte strutturate
dall’alto… La nostra festa è invece occasione di gioco
e di autogestione dell’espressione... Infatti il libero giocare
è interpretare costantemente il reale, riproponendolo nelle sue
possibilità inattese e non codificate, è pertanto la negazione
del dominio delle cose sugli uomini: giocare vuol dire progettare realtà…
Di qui la sua carica eversiva”.
A Champorcher l’attore-animatore proponeva agli
insegnanti “considerati nella loro funzione di animatori stabili
della conoscenza” nuove modalità operative.
Nel documento teorico ricordato veniva anche introdotta una interessante
annotazione a proposito del rapporto dei bambini con la pubblicità,
pericolosa realtà politico culturale che stava emergendo: “Nella
pubblicità si tende a reclamizzare un prodotto presentandone l’acquisto
come una scelta creativa da parte del consumatore”. Si pensi alla
bizzarria dei test per valutare la creatività o alla diffusione
di oggetti semi lavorati reclamizzati come “fai da te”.
Questa considerazione del ’71 ha quasi il sapore di una profezia,
sugli spazi di libertà del gioco agli albori del 21° secolo.
Ma questo discorso ci allontana dal tono positivo che ci ha accompagnato
nel racconto. Perciò preferisco concludere con una oggettiva constatazione.
La teoria elaborata a Champorcher avrebbe aperto successivamente a tante
scuole italiane ed europee le strade della sperimentazione e della verifica
del “lavoro teatrale nella scuola”.
Da parte sua l’attore, arricchito di nuovi valori da quegli
straordinari incontri, durante il proseguimento della sua attività,
ha ripreso con maggior vigore la ricerca di altre poetiche, nuovi spazi
e altri compagni del libero gioco del teatro.
Franco Passatore
Bibliografia
AA.VV. (1970), Il lavoro teatrale nella Scuola, La Nuova Italia, Firenze.
Passatore F., De Stefanis S. (1972), Io ero l’albero, tu il cavallo,
Guaraldi, Rimini.
AA.VV. (1972), Il Teatro dei ragazzi, Guaraldi, Rimini.
AA.VV. (1973), Le Botteghe della Fantasia, Emme Edizioni, Milano.
PASSATORE F. (1976), Animazione/dopo, Guaraldi, Rimini.
LASTREGO C., TESTA F., PASSATORE F. (1987), Mi piace fare teatro (voll.
I-II), Mondadori, Milano.
BONAVERI F., PASSATORE F. (1988), I libri Domino, Mondadori, Milano.
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