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Utopie,
metafore e fiori di serra
Per fare della scuola una comunità
di ricerca occorrono persone motivate e una struttura integrata di supporto.
Troppo semplice? Può essere, ma perché non provarci?
Quando mi è stato chiesto un contributo sulla ricerca nella scuola,
ho aderito con entusiasmo, nella convinzione che la questione fosse sostanziale
e nella presunzione che l'articolo sarebbe stato facile da scrivere.
Stiamo infatti trattando di una problematica che è da anni al centro
di un dibattito molto ampio, legato a due istanze complementari e nodali
per il miglioramento dell'educazione: come sviluppare la competenza professionale
dei docenti e come mettere a punto metodi e strategie didattiche adeguate
ed efficaci.
Da decenni sperimentata in diverse forme, a partire dalle ormai classiche
ricerca-azione e ricerca assistita, fino ad esperienze variamente modulate
di ricerca-form-azione, pare che la ricerca fatta con insegnanti e da
insegnanti sia la via maestra per un vero salto di qualità della
scuola. D'altra parte è ormai ampiamente dimostrato come un approccio
cooperativo costituisca un potente fattore moltiplicatore, in termini
di elaborazione concettuale e di apprendimento individuale, per gli adulti/professionisti
come per i ragazzi/studenti.
Però mi sono resa conto che, se molto c'è da dire sui
perché e sui come promuovere e sostenere esperienze
di ricerca nella scuola (aspetti sicuramente presentati in altri articoli
ed in modo più rigoroso e qualificato di quanto potrei fare io)
la domanda che mi è stata posta è essenzialmente diversa.
Metafore e fiori di serra
Infatti, parlare di scuola come comunità di ricerca
significa interrogarsi sul senso e su modi possibili attraverso cui l'intera
comunità scolastica si trasforma in una comunità di ricerca:
cosa ben diversa dalla realizzazione, in determinate condizioni, di esperienze
di avanguardia indispensabili, encomiabili, indimenticabili, ma…
straordinarie. Per il numero e le caratteristiche dei docenti coinvolti,
per la frequenza nella loro carriera professionale, per la grande quantità
di risorse e di energie che richiedono, per la loro straordinarietà,
appunto, esse non sono sufficienti a qualificare un intero sistema.
L'ipotesi che la scuola possa diventare comunità di ricerca poggia
su interpretazioni di grande potenziale evocativo: l'insegnante visto
come ricercatore dell'azione didattica e le scuole come veri
e propri laboratori dell'innovazione. Idee che si sono largamente
diffuse in questi ultimi anni, diventando, in qualche modo, parte della
cultura professionale in campo educativo tanto da essere assunte a livello
normativo con l'attribuzione alle Istituzioni scolastiche dell'Autonomia
di ricerca, sperimentazione e sviluppo e da produrre la formidabile svolta,
in ordine agli interventi per lo sviluppo professionale dei docenti, impressa
alla fine degli anni ’90, sotto la direzione di Mario Dutto, dal
Coordinamento per la formazione degli insegnanti del MPI(1).
Fiori di serra e suggestive metafore? Oppure strade realmente percorribili
in maniera efficace e diffusa? La questione riguarda, da una parte, il
modo stesso di intendere e di fare scuola, dall'altra, prima ancora delle
modalità per realizzare esperienze di eccellenza e per diffonderne
gli esiti, il senso e la fattibilità di un disegno possibile
di miglioramento complessivo della qualità dell'istruzione all'interno
del quale quelle esperienze si collocano.
Imparare ad imparare
Oggi, alle soglie della società della conoscenza,
l'educazione viene riconosciuta ai più alti livelli istituzionali
come fattore strategico di sviluppo personale e sociale(2).
Le stesse istanze ingenue e le improbabili aspettative, che vengono spesso
indebitamente scaricate sulla scuola come se fosse l'unica responsabile
dell'educazione, sono indicatori evidenti che essa ha un senso e una mission
cui non può rinunciare.
In una prospettiva di long life learning, il suo ruolo viene
rafforzato nelle finalità(3), ma anche modificato nelle
priorità, nella richiesta di sinergie e di raccordi con altre istituzioni,
nelle modalità di funzionamento, negli obiettivi concreti da perseguire
e, conseguentemente, nei metodi da privilegiare.
In un quadro sociale, culturale e tecnologico di continua trasformazione,
dagli sviluppi non prevedibili, con effetti nella vita di ciascun individuo
molto più significativi e sensibili che in passato, alla scuola
viene chiesto di trasmettere più valori e principi culturali che
contenuti e informazioni, peraltro fin troppo numerose e facilmente reperibili
da altre fonti.
I media hanno acquisito, che lo si voglia o no, un ruolo preponderante
nella diffusione, tanto rapida quanto occasionale ed effimera, delle conoscenze.
Le nozioni da considerare essenziali si modificano sempre più rapidamente
e sempre più assumono carattere strumentale. L'apprendimento è
una necessità che accompagna ciascuno per tutta la vita. La capacità
di imparare diventa un fattore strategico su cui investire per il futuro
e lo sviluppo delle competenze necessarie per apprendere un obiettivo
centrale dell'azione didattica.
La Commissione Delors individua quattro filoni di apprendimento da considerare:
imparare a conoscere, a fare, a vivere con gli altri, a essere(4).
Il suggerimento di R. M. Torres, ex ministro dell'istruzione in Ecuador,
di aggiungerne un quinto, imparare a cambiare, ha il merito di sottolineare
la centralità della dimensione del cambiamento che considererei
piuttosto come chiave di lettura trasversale a tutti i processi peculiari
dell'educazione.
Il cambiamento è, infatti, oggi come ieri, la matrice, l'essenza
dei processi di insegnamento/apprendimento che la scuola deve essere,
in primo luogo, capace di indurre, accompagnare e favorire. Ma è
anche una condizione di contesto ineludible cui essa deve far fronte per
esercitare adeguatamente il proprio ruolo conservando la propria identità
di comunità educante.
Anche la scuola, quindi, deve imparare ad imparare, deve dotarsi
degli strumenti e delle competenze per adattare, riorientare e modificare
le proprie pratiche, contenuti e modalità di funzionamento in base
alle effettive esigenze sociali e individuali.
Il riferimento può essere un modello di sviluppo della scuola come
organizzazione capace di “costituirsi in sistema esperto, caratterizzato
da una competenza diffusa, nel quale l'innovazione sia elemento fisiologico
di miglioramento e la ricerca un fattore integrato nel tessuto stesso
dell'agire quotidiano”(5). Si tratta di un modello
che, pur con linguaggi diversi, è assolutamente affine a quelli
ormai più che largamente diffusi nell'industria e nei servizi,
laddove si riconosce, come fattore essenziale per la produttività
e l'efficacia delle prestazioni, la capacità delle organizzazioni
di sviluppare e gestire, al proprio interno, processi di miglioramento
considerando tra le prospettive di base e gli indicatori di performance
del management gestionale e strategico, l'apprendimento e l'innovazione
(learning organisation).
E allora, forse, la domanda diventa: e perché no? Se il principio
di co-elaborazione (perché è di questo che essenzialmente
stiamo parlando) come fattore cruciale per essere in grado di rispondere
alle esigenze dei rispettivi stakeholder(6) funziona
per chi produce microchips, elettrodomestici e per chi fornisce
servizi di carattere amministrativo, assistenziale, turistico o quant'altro,
perché non dovrebbe valere per un'istituzione per cui l'apprendimento
non è solo un fattore strategico di successo da integrare nei processi
di produzione/erogazione, ma è il processo produttivo e il prodotto
principale?
Si aprono, in questo modo, prospettive che stravolgono completamente il
rapporto tra ricerca e pratica professionale poiché l'integrazione
tra le due non è più questione comunicativa, come nel tradizionale
rapporto tra chi fuori pensa e sviluppa e chi dentro
applica e realizza, ma metodologica. Si tratta, infatti, da una parte
di individuare e sviluppare metodologie proprie di una didattica-ricerca
che siano nel contempo metodi di elaborazione e strumenti di progettazione,
attuazione e valutazione-riorientamento della pratica didattica, dall'altra
di adattare metodi e strumenti propri della ricerca scientifica in base
alle esigenze della scuola.
Un cambiamento necessario
Perché
dunque scuola come comunità di ricerca?
In primo luogo, perché ciò che avviene quotidianamente nella
scuola è ricerca. Collegare, sperimentare, riconfigurare
rappresentazioni mentali, elaborare modelli concettuali, trarre dall'esperienza
e dalla riflessione su di essa nuove soluzioni, ma anche saper riutilizzare
quanto appreso in contesti diversi… Esistono forse atti di carattere
cognitivo che appartengono ai processi di ricerca piuttosto che ai processi
di apprendimento?
Perché, insegnando ed imparando, si costruisce conoscenza e lo
si fa in un contesto di interazione sociale strutturato. Gli insegnanti
possono organizzare situazioni didattiche tali da alimentare e facilitare
questi processi oppure possono ignorarli, considerandoli elementi di sfondo,
prerequisiti o addirittura osteggiarli, creando condizioni sfavorevoli
e poco motivanti. Un apprendimento c'è, comunque: nessuno esce
dall'istruzione formale con la stessa testa con cui vi è entrato.
E, comunque, in questo risultato c'è una responsabilità
della scuola.
Perché non si può insegnare ciò che non si sa: i
ragazzi imparando fanno ricerca, elaborano, co-costruiscono saperi
e i docenti, se vogliono davvero insegnare qualcosa, non possono non essere
ricercatori per loro e assieme a loro.
Perché il mestiere di insegnante sta cambiando, come tutti i mestieri.
Quale ragioniere, geometra, meccanico, chirurgo, casalinga può
pretendere di fare il proprio lavoro oggi come ieri e si può illudere
di farlo allo stesso modo tra dieci anni? Essere comunità di ricerca
vuol dire condividere problemi e insieme costruire soluzioni, imparando
nel contempo a risolverli, aumentando le proprie competenze i saperi collettivi.
Perché, infine, essere comunità di ricerca significa essere
un'organizzazione in grado di affrontare le nuove situazioni che via via
si presentano, capace di dotarsi e di sviluppare, se necessario, conoscenze,
competenze, metodi e strumenti adatti a rispondere in maniera flessibile
ad esigenze di formazione differenziate e mutevoli.
Utopia? Può darsi. Però temo si tratti di un cambiamento
necessario. Per due motivi: la credibilità della scuola e
il futuro dei nostri figli.
Una strategia possibile
Se così fosse, la domanda diventa: come? Quali
sono gli elementi, le condizioni che possiamo ragionevolmente considerare
determinanti per il successo di una simile operazione?
L'elemento fondamentale è l'atteggiamento delle persone. Non può
esistere comunità di ricerca senza motivazione, voglia di migliorare
il proprio modo di lavorare, di stare a scuola; senza disponibilità
a mettersi in gioco, a intraprendere nuove strade, a confrontarsi positivamente
con altri punti di vista.
Dirà qualcuno: è facile per chi sta fuori far proclami,
ma chi lavora sul terreno è schiacciato, ogni giorno, tra riunioni,
compiti da correggere, burocrazia, riforme di tutti i generi e poi, anzi
prima, bisogna pure fare scuola: insegnare, gestire conflitti, motivare
anche quei ragazzi che hanno voglia di far di tutto meno che studiare.
Non c'è da stupirsi che non siano molti quelli che trovano il tempo
e le forze per andare oltre la quotidianità.
Supponiamo però che ognuno di questi docenti sappia di poter accedere,
quando gli servono, ad una serie di risorse che possono essergli
di aiuto per affrontare problemi e per migliorare le sue competenze, per
avere spunti di lavoro, suggerimenti, indicazioni metodologiche, modelli
di riferimento, sia che si tratti di materiali, strumenti, pubblicazioni,
sia di interventi formativi, accompagnamento scientifico o semplicemente
il consiglio di un esperto, sia, infine, della possibilità di confrontarsi
con colleghi interessati alle stesse problematiche.
Dirà qualcuno: tutto questo esiste già. Molte persone e
istituzioni operano già per sostenere e promuovere l'innovazione
nella scuola: il Servizio Ispettivo Tecnico, le associazioni disciplinari
e culturali, i centri risorse, l'Università, l'IRRE-VDA mettono
a disposizione materiali e pubblicazioni, forniscono consulenze e informazioni,
realizzano iniziative e progetti, promuovono e seguono esperienze d'avanguardia
senza contare la varietà di siti esistenti e la quantità
di progetti su scala nazionale e internazionale.
In realtà la questione cambia completamente se si entra in una
prospettiva di ricerca: cambia il rapporto con i destinatari, cambiano
gli obiettivi, le priorità, le modalità di realizzazione.
Più che progetti preconfezionati, servono proposte aperte, risposte
e apporti personalizzati: affidabili, validati, selezionati, ma anche
reperibili senza troppa difficoltà e senza perdite di tempo. Serve
un'informazione chiara e capillare su dove, come, chi può rispondere
alle diverse necessità. Servono modalità per mettere in
comune competenze e prodotti. Servono opportunità e contesti che
facilitino la cooperazione, la co-elaborazione e il confronto. Servono
risorse che gli interessati possano utilizzare come preferiscono, quando
ne hanno l'esigenza, nella misura e con le modalità che ritengono
più opportune a partire dalla propria progettualità.
In questo senso, un sistema di comunicazione rapido e incisivo, archivi
aggiornati e consultabili facilmente, la disponibilità a monte
di una rete di esperti e collaboratori cui fare ricorso non sono più
un problema di efficienza, ma condizioni minime strutturali,
assieme a luoghi fisici e virtuali che possano costituire punti di riferimento
e alla presenza di figure tecnico-professionali specifiche di supporto.
Problemi che si possono attualmente risolvere con una certa facilità,
anche con risorse limitate purché pertinenti, a patto che si sfruttino
appieno le odierne potenzialità dello sviluppo organizzativo e
delle nuove tecnologie. Problemi che, soprattutto in una piccola realtà
come la nostra, possono essere meglio affrontati da una rete interistituzionale
che, integrando, raccordando e mettendo in comune risorse e procedure,
potrebbe gestire in modo efficace attività, iniziative, materiali
e servizi per la scuola, valorizzando le expertise presenti sul
territorio e collegandosi opportunamente con altre realtà.
Dunque la ricetta che propongo è: persone motivate e una struttura
integrata di supporto. Troppo semplice? Non so se basti davvero per fare
della scuola una comunità di ricerca. Di sicuro vale la pena di
provarci.
Irene Bosonin
Note
(1) Struttura, purtroppo, abolita nell'attuale organizzazione del MIUR.
(2) " Face aux multiples défis de l'avenir, l'éducation
apparaît comme un atout indispensable pour permettre à l'humanité
de progresser vers les idéaux de paix, de liberté et de
justice sociale. La Commission tient donc, à l'issue de ses travaux,
à affirmer sa foi dans le rôle essentiel de l'éducation
dans le développement continu de la personne et des sociétés.
Non pas comme un " remède miracle ", non pas comme le
" sésame ouvre-toi " d'un monde parvenu à la réalisation
de tous ces idéaux, mais comme une voie, parmi d'autres, certes,
mais plus que d'autres, au service d'un développement humain plus
harmonieux, plus authentique, afin de faire reculer la pauvreté,
l'exclusion, les incompréhensions, les oppressions, les guerres...
" Rapport à l'UNESCO de la Commission Internationale sur l'éducation
pour le XXIe siècle présidée par Jacques Delors,
L'éducation : un trésor est caché dedans, 1996.
(3) " L'éducation et la formation ont pour fonction essentielle
l'intégration sociale et le développement personnel, par
le partage de valeurs communes, la transmission d'un patrimoine culturel
et l'apprentissage de l'autonomie ” Livre blanc : Enseigner et apprendre
- vers la société cognitive, Cresson, 1995.
(4) Ibidem Nota 2.
(5) Piano triennale 2002-2005 IRRE-VDA - Orientamenti generali.
(6) Approssimativamente traducibile in portatori di interesse.
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