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Nulla è certo

Il motore della ricerca nella e sulla didattica è il dubbio, inteso come via per conoscere. Aiuta l’apprendimento un animo ricco di insoddisfazione in grado di spingerci verso nuove soluzioni.

Il termine ricerca designa un'attività che mette alla prova un'ipotesi, la quale permette di giungere a delle conclusioni che contribuiscono ad accrescere o a generalizzare la conoscenza. La ricerca è generalmente un'attività condotta con sistematicità e diretta verso un certo obiettivo, che prevede una serie di procedure formalizzate orientate a raggiungere quest'ultimo. Ma perché occuparsi di ricerca educativa? Perché desideriamo imparare di più circa le programmazioni efficaci e le metodologie di istruzione più adeguate per aiutare gli allievi ad imparare? Perché cerchiamo di scoprire i rapporti fra le variabili nelle regolazioni educative e negli interventi di programma? Perché desideriamo capire i contesti culturali nei quali le scuole operano e in cui tentano di ridurre i pregiudizi e le disuguaglianze?
Possiamo affermare che la ricerca non è solo un modo di operare, ma rappresenta un modo generale di concepire la scuola e il sapere. Essa sorge per una necessità avvertita dai soggetti di trovare una risposta ad un problema. Dal punto di vista del ricercatore, si può dire che si studiano i fenomeni pedagogici perché si è curiosi o appassionati ed anche perché è parte integrante del ruolo accademico e costituisce un fattore centrale nella promozione culturale.
Il viaggio del ricercatore può essere lungo, ma è guidato, almeno in parte, da “venti ontologici ed epistemologici”. Individuale o collettivo, esso si trasforma in un percorso di ricerca educativa, quando diviene componente di una ricerca più generale che riguarda diversi sensi e significati pedagogici. Se, dal punto di vista dell'insegnante, la ricerca educativa è finalizzata soprattutto ad accrescere la conoscenza nel settore dei processi di insegnamento-apprendimento e se, dal punto vista generale, il suo scopo principale è quello di spiegare i fatti educativi, questo ci porta a non poterne disconoscere anche il carattere di applicabilità, cioè quel carattere che mette in grado i soggetti di produrre azioni sistematiche dirette alla risoluzione di problemi pratici.
È però altrettanto vero che non tutti i risultati della ricerca sono strade ripercorribili nella prassi o che sia sempre facile estrarre da essi principi educativi utili nella pratica. Si è oggi consapevoli, infatti, della complessità che guida il processo di spiegazione scientifica nell'ambito delle scienze umane, ma anche del circolo virtuoso che è necessario stabilire tra ricerca e didattica, se non si vuol ricondurre la relazione tra questi due termini ad un rapporto del tipo “si fa ricerca e si spende”, con il quale si tornerebbe alla “ricetta educativa” e ad una sorta di “conformismo didattico”. È qui che la ricerca empirica, ed in particolare lo sperimentalismo, può venirci in aiuto specie quando i suoi risultati consentono di migliorare la professionalità docente nel suo complesso e di rendere più incisiva l'azione dell’insegnante. Quando parliamo di ricerca empirica in educazione si vuole intendere che il lavoro di ricerca si effettuerà sul campo, cioè che si servirà della conferma dei fatti per avanzare spiegazioni circa un fenomeno e riguarderà alcuni aspetti della pratica educativa. La ricerca empirica è distinta in ricerca sperimentale, quando è previsto un intervento sulle variabili indipendenti (cause), e in ricerca osservativa se tale intervento non si verifica. Quella che ci interessa qui è la ricerca sperimentale, che più delle altre si pone l'obiettivo di “cambiare” una situazione intervenendo in essa, e nel fare ciò non può prescindere dalla collaborazione fra ricercatori (accademici e non accademici) e docenti, ridefinendo la relazione che intercorre tra: Teoria (scienza pura) => teoria applicata (scienza applicata) => Pratica.
Il valore del metodo sperimentale nel processo di conoscenza delle scienze della formazione, in tutte le situazioni che consentono lo svolgimento di ricerche metodologicamente controllate, testimonia, allo stato attuale, una vitalità interna al settore degli studi pedagogici che risulta indispensabile per evitare di cadere in fughe ideologiche che pongono obiettivi, ma non li realizzano, promuovendo piuttosto una didattica che ricerca una logica critica e sperimentale idonea a verificare costantemente la rispondenza dei risultati ai fini perseguiti.
Un esperimento didattico è un esperimento finalizzato a verificare determinate ipotesi concernenti i processi di insegnamento-apprendimento e richiede pertanto che il ricercatore modifichi intenzionalmente una certa situazione e che sia possibile misurare gli effetti del cambiamento provocato. Comunemente invece si parla di sperimentazione in maniera impropria, nel senso di nuovo, di non provato o di differente, ma il fatto che una procedura sia sperimentale non la dispone automaticamente nella categoria di ricerca. Le procedure radicalmente nuove dovrebbero, tuttavia, essere rese all'oggetto di ricerca convenzionale in una fase iniziale per determinare se siano sicure ed efficaci. Quindi, attiene alla responsabilità dei ricercatori, per esempio, insistere su un'innovazione importante che è inserita all'interno di un progetto di ricerca. Per questi motivi, sia l'“esperimento” sia l'intero progetto di ricerca (e corrispondente alle pratiche metodologiche) sia un nuovo metodo di istruzione sono conformi a determinati obblighi etici fra i quali quello deontologico (generato dagli obblighi fiduciari della professione insegnante) e quello umano che devono presupporre di non produrre dei “danni” nei soggetti coinvolti. Importante, inoltre, in questa costellazione delle funzioni, l'obbligo etico del ricercatore di includere nell'“esperimento” una comunicazione chiara, non solo quella che riguarda le pubblicazioni professionali, ma anche quella del dialogo con gli altri professionisti.
Si pone tuttavia il problema di come incidere sul mondo della ricerca e su quello della scuola in modo da ottimizzare lo scambio tra “ricercatori” e “operatori” a vantaggio di entrambi i gruppi. La conduzione di un progetto di ricerca è un'attività sociale oltre che tecnica (Huberman, 1999, p. 289) e il coinvolgimento degli attori e degli utenti nei progetti può essere più importante dei risultati stessi nella misura in cui i problemi studiati vengono esaminati dalle persone che sono loro vicine e che se ne fanno interpreti presso le scuole.
Se è vero quindi che la ricerca ha anche necessità operative, esige allora un contatto adeguato con la realtà in cui si inscrive e con le persone che la definiscono.
È per questo motivo che non va “venduta” alla scuola, ma realizzata insieme ad essa. Michel Huberman (Idem) asserisce che la ricerca educativa deve essere sostenuta da “agenti di collegamento” tra centri di ricerca e personale scolastico che possono assumere forme e ruoli diversi (dirigenti scolastici, supervisori, ecc.) in grado di funzionare da ponte tra persone che padroneggiano “schemi mentali e regole dei due universi”. Si tratta di due distinti micro-mondi sociali, quello degli “insegnanti” e quello dei “ricercatori”, che determinano diversi flussi di conoscenza nello svolgimento di una ricerca educativa, la cui qualità deriva dai tipi di interazione tra i due mondi ed è influenzata da come i soggetti considerano la conoscenza e le percezioni ad essa corrispondenti. Gli insegnanti tenderebbero a descrivere il loro lavoro in termini individualistici enfatizzando l'unicità di ogni classe e il ruolo centrale delle proprie preferenze personali nella scelta delle strategie di insegnamento e sarebbero interessati ad ottenere risposte immediate circa le reazioni dei loro studenti piuttosto che a ragionare su obiettivi a lunga scadenza (Doyle, Ponder, 1977); in altri termini, essi sarebbero più rivolti ad analizzare aspetti concreti e procedurali che dimensioni astratte dei problemi: individualismo, immediatezza e concretezza sarebbero parte integrante delle loro pratiche (pp. 4-5).
I ricercatori, invece, sembrerebbero più impegnati a dare frutto alle loro aspirazioni e ad affermare di che cosa ci sarebbe bisogno e di quello che sarebbe necessario accadesse a livello di sistema. Ma tutto questo potrebbe essere evitato, a parere di Schön (1993) e di Elliott (1991), se si facesse leva su un processo chiamato “pratiche riflessive”, alleato della ricerca-azione, della quale permette di migliorare le pratiche. Trattando i processi di ricerca-azione e le pratiche riflessive, questi due autori si concentrano sull'empowerment dei ricercatori. Il loro discorso si traduce in una ri-collocazione e ri-distribuzione dei ruoli e dei compiti della ricerca, ma soprattutto in una riflessione sul processo decisionale che, essendo un esercizio di significazione, di attribuzione di senso alle componenti di tale processo decisionale e realizzativo (stakeholder e loro azioni), porta a definizioni operative specifiche che devono certamente implicare il coinvolgimento dei diversi attori sociali.
Lo sperimentalismo, attraverso l'esperimento scuote tale re-distribuzione e afferma il bisogno di aderenza alla realtà che nasce dall'analisi dei fenomeni educativi e dall'osservazione di fatti specifici. Introdurre nel fare educativo lo studio dei problemi guardando alle tecniche di analisi rigorose allo scopo di preservare la didattica da opinioni o sensi comuni, vuol dire poter sfuggire all’influenza della soggettività cui sono esposti spesso i contesti educativi. Il miglioramento dell'apprendimento e dell'insegnamento dipende dallo studio e dalla ricerca sull'insegnamento pertanto non ci può essere che convergenza tra ricercatori di pedagogia, insegnanti ed educatori. Quando si pensa all'insegnamento come ricerca si pensa ad un allievo centralmente attivo e costruttivo e ad un insegnante capace di spogliarsi dagli abiti delle certezze. Gli insegnanti, come d'altra parte i ricercatori della pedagogia, fondano il loro operato sul dubbio, un dubbio “reale e vivente”, non un dubbio universale, che viene considerato il motore della ricerca, peirceianamente inteso, che conduce l'uomo a formarsi determinate credenze e apprendimenti. Il dubbio è ciò che accompagna l'insegnamento e l'apprendimento e che crea quello stato mentale di insoddisfazione che l'uomo tende a trasformare in stato d'animo tranquillo con l'introduzione di nuovi apprendimenti. L'ammettere l'eventuale esistenza di una credenza iniziale non verificata, non necessariamente vera, e suscettibile di emenda, ci riconduce alla riflessione del “fallibilismo didattico”. Ciò vuol dire, nella prassi didattica, spogliarsi degli abiti delle certezze, adottando pluralismo nei punti di vista, interdisciplinarità, ricerca continua, interazione tra sfera cognitiva ed affettiva.
È ormai indubbio che la scuola non può reggersi su azioni prescrittive e attività ripetitive, ma deve trasformarsi in un luogo in cui l'esperienza parte dai problemi e si fonda sul dubbio come via del conoscere, ossia un metodo scientifico incentrato sull'ipotesi. Non si può più riproporre la vecchia idea “vediamo che cosa succede se”. La ricerca esige che la realtà sia letta sempre in modo diverso in rapporto all'atteggiamento del dubbio e di ricerca nei confronti della realtà stessa. Una didattica che fa ricerca si pone il problema di abituare l'allievo a selezionare, ad utilizzare la massa crescente di informazioni, a leggerle e a decodificarle. Questo perché il bambino di domani deve dominare il sapere non subirlo passivamente, ma deve, in questo senso, dotarsi di strumenti culturali adeguati. È opportuno tuttavia che la didattica non divenga pseudo-didattica e la ricerca pseudo-ricerca, cioè che riguardino ed affrontino solo problemi convenzionali. La valutazione, la ricerca sull'individualizzazione, ecc. non nascono che dalla pedagogia sperimentale che più di ogni altra apre nuove forme di negoziazione soprattutto verso una ricerca orientata alla decisione, cioè a un modo di fare ricerca che permette di assumere decisioni (seppur provvisoriamente) e quindi essere in grado di comprendere i problemi urgenti e i cambiamenti in atto nella scuola; uno strumento con il quale ricercatori e docenti insieme riescono ad arricchire le conoscenze del sistema formativo.
Questo è tanto più vero nella scuola dell'autonomia che, proprio in merito alla ricerca, amplia il raggio d'azione degli insegnanti ed esplicita meglio le sue esigenze. Si apre, rispetto al passato, un nuovo scenario che vede insegnanti e ricercatori impegnati in ricerche-interventi capaci di cambiamenti specifici e settoriali. Sembra essere in quel clima “caldo” che si trovava a vivere John Dewey quando negli anni 1896-1904, professore all'Università di Chicago, nel pieno delle polemiche tra conservatori (fautori di una scuola rigida) e progressisti (che auspicavano un insegnamento fondato sugli interessi e impartito a tutti senza distinzioni di razza e di ceto), non solo si schierò apertamente dalla parte di questi ultimi, ma fondò, annessa all'Università, una “scuola elementare-laboratorio” dove avviare una serie di sperimentazioni ispirate alle sue teorie esposte per la prima volta in modo organico ne Il mio credo pedagogico (1897). Quella di Dewey si connota come una didattica impegnata a costruire un'educazione incentrata sulla scientificità, alla quale viene affidato il difficile compito di realizzare una società democratica e di formare un cittadino che abbia una sua capacità di pensiero e spirito critico, che sia dotato di “una mentalità moderna, scientifica ed aperta alla collaborazione” (Cambi, 2001, p. 457).
L'incontro tra professionisti della didattica e ricercatori sulla didattica si esprime proprio nel momento in cui si fa scienza pedagogica, cioè quando si tenta di parlare di educazione ricostruendo e riorganizzando continuamente l'esperienza didattica, nel continuo sforzo teso al miglioramento delle condizioni di apprendimento e di insegnamento scolastico, cercando di sollecitare allievi e insegnanti alla ricerca di soluzioni migliori ai problemi comuni. Credo sia necessario che gli insegnanti assumano, nelle concrete condizioni lavorative, il lavoro di ricerca come approccio consueto alla didattica che permetta loro di tenere conto e di comprendere meglio l'evoluzione del sapere didattico, delle discipline, dell'estrema varietà dei contesti e così via.
Di per sé i movimenti di idee nelle loro dimensioni più astratte, o i paradigmi, non giocano un ruolo necessariamente determinante, anche se l'apparato teorico permette una lettura e una spiegazione dei fatti osservati e descritti. La complessità dell'azione didattica richiede l'assunzione e la diffusione di pratiche di ricerca che rendono possibile una rivisitazione continua delle condizioni concrete di lavoro di insegnanti e studenti. Tutto questo ha implicazioni profonde per gli educatori.
Gli insegnanti non sono semplicemente “insegnanti”, ma sono chiamati, in virtù degli obblighi etici della loro professione, anche come ricercatori, a interpretare le esigenze della scuola. Per questo credo che la ricerca nella didattica, come la ricerca sulla didattica, condividano una stessa certezza, che niente è certo.

Antonella Nuzzaci

Bibliografia di riferimento
CAMBI F. (2001), Storia della pedagogia, Laterza, Roma-Bari.
DEWEY J. (1989), Il mio credo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze.
DOYLE W., PONDER G.A. (1977), “The Practicality Ethic in Teacher Decision Making”, in Interchange, 8, 3, pp.1-12.
ELLIOTT J. (1991), Action Research for Educational Change, Open University Press, Buckingham.
HUBERMAN M. (1999), “The Mind is Its Own Place: The Influence of Sustained Interactivity with Practitioners on Educational Researchers”, in Harvard Educational Review, 69, 3, pp.289-319.
SCHÖN D.A. (1993), Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari. (ed. or. (1983) The Reflective Practitioner: how professionals think in action, Temple Smith, London).

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