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Così
banale, così bello
Esperienze di didattica interculturale
leggendo oggetti e immagini del nostro quotidiano che l’occhio non
sa più vedere né decodificare.
“L'occhio dello straniero
vede solo ciò che già conosce"
Proverbio Dogon
I musei servono a incantare, ma più che altro
servono a scoprire l’incanto.
Bettelheim diceva che “troppo spesso i musei odierni cercano di
trasmettere ai bambini un tipo di conoscenza dalla quale non nascerà
alcun senso di meraviglia”. Queste affermazioni si rivelano in tutta
la loro provocatorietà per il sistema educativo in generale.
In un mondo dove la meraviglia sembra essere esclusivamente associata
allo spettacolare, al teratologico, come accadeva nelle wunderkammern
del Seicento, pare che nient’altro sia più in grado di sollecitare
la capacità di stupirsi e di vivere l’esperienza della contemplazione
estetica.
Attraverso qualche esempio tratto da percorsi espositivi a carattere interculturale,
vorrei invece mostrare come un buon uso dell’esperienza estetica
possa scaturire dall’incontro con la normale “quotidianità”
e come, attraverso questa, sia possibile vivere un senso del “bello”
alternativo all’estetica imperante proposta dai mass media. Quotidianità,
intesa come esperienza di cose che paiono banali, perché comuni;
come può esserlo l’incontro con una bottiglia d’acqua,
un paio di jeans o un segnale stradale. Oggetti considerati “non
autentici” e quindi nemmeno degni di entrare nei templi delle meraviglie,
ma che, proprio grazie ad un eccesso di cose “uniche” e di
super-immagini che segnano lo scenario globale contemporaneo, divengono
strumenti potenziali e provocatori per lo sviluppo di una lettura critica
della realtà.
Mettere in scena l’estetica
della quotidianità e produrre meraviglia
La politica dell’estetica e il rapporto con i mass
media nel mondo cosiddetto globale è oggi di estrema importanza
per un ripensamento delle pratiche educative più in generale.
Il pubblico, non solo quello dei più giovani, trae la sua nozione
d’arte e di estetica dalla pubblicità, dai videogames,
dai blockbuster hollywoodiani, oggi sempre più segnati
da una necrofilia delle immagini, di cui tutti, indistintamente, facciamo
esperienza quotidiana: videogames come scene di vera guerra o
rappresentazioni televisive di guerra come scene di veri videogames.
La meraviglia o lo shock provocato davanti a queste immagini non ha eguali:
che cosa c’è di più scioccante e reale di un attacco
alle Torri gemelle o di uno sgozzamento in diretta di esseri umani sequestrati?
Nel mondo contemporaneo abbiamo quasi elaborato una strategia di lettura
estetica dell’effetto shock a sorpresa, del destabilizzante.
Mappe, rotte e paralleli, persone, viaggi di carte e rappresentazioni
del mondo è un percorso espositivo interculturale, giunto
alla seconda edizione (conclusasi il 5 marzo 2006 al Palazzo della Gran
Guardia di Verona): attraverso una lettura “decentrata” della
cartografia e della storia, esso fornisce gli strumenti per rivedere in
modo critico alcune convinzioni antropocentriche, soprattutto il rapporto
tra la modalità di conoscenza cartografica e la relazione con il
mondo (dalla percezione del corpo alla rappresentazione dello spazio e
del tempo). È una proposta che sorge in reazione ad un mondo globalizzato
che fatica a trovare la via del dialogo fra le sue molteplici diversità.
La cartografia nel percorso espositivo diviene così pretesto per
riflettere sulle nuove geografie del quotidiano, in un percorso antropologico
che attraversa esperienze di confine, di identità, di globalità,
dall’abitare al vestire, all’uso delle cose.
La carta geografica, si sa, non è il territorio, ma una sua rappresentazione
o al massimo una sua percezione. Essa fornisce solo un’immagine
incompleta e parziale della realtà. A partire da tale presupposto
si mettono in scena immagini e oggetti della contemporaneità e
si fa esperienza in modo ludico con i visitatori piccoli e grandi di come
questa rappresentazione (la piatta e superficiale carta) abbia ormai condizionato
il nostro modo di leggere la realtà. Il percorso viene vissuto
come una scoperta: più di un bambino ha dichiarato al termine della
visita di, per la prima volta, aver compreso la bellezza della geografia,
al di là dei nomi dei capoluoghi, delle vette e dei numeri…
La televisione, per esempio, può essere vista come una semplice
mappa, ma anche come un mondo da scoprire, qualora ci interrogassimo in
modo critico su ciò che non appare nello schermo. Così un
paio di jeans taglia 42, se indagato in profondità (al di là
della “mappa”) ci aiuterà a riflettere sulla costruzione
culturale dei confini del corpo in paesi diversi. Fatima Mernissi ci ha
aperto gli occhi su come la taglia 42 rappresenti il chador occidentale.
“Qui in occidente, se hai i fianchi larghi, sei semplicemente fuori
dal confine. Scivoli nel margine della nullità”
afferma la scrittrice di origine marocchina. - “Puntando il riflettore
sulla femmina paradolescente, l’uomo occidentale vela le donne più
vecchie, quelle della mia età, avvolgendole nel chador
della bruttezza”. Se ne deduce che tutto ciò trasforma l’invisibile
frontiera in un marchio direttamente impresso sulla pelle di
una donna. Conclusione: le donne occidentali, che guadagnano in esperienza
con l’età e divengono mature, vengono dichiarate brutte dai
profeti della moda alla stregua delle iraniane che consumano lo spazio
pubblico. Tutto ciò scatena una serie di interessanti domande e
reazioni da parte dei piccoli visitatori non ultime quelle sul tema dell’anoressia.
Ancora. L’immagine di una coppia che danza, lui magro e lei dai
fianchi generosi, è accompagnata dalla scritta “Chi è
in linea?” Sarà la donna ad essere percepita come “grassona”
(non in linea), ma potrà essere percepita “in linea”
da bambini provenienti da paesi dove quelle forme sono vissute come segno
di bellezza. Da qui si passerà a cogliere le relazioni storiche
tra i corpi e le società che li rappresentano, si discuterà
dei rapporti tra essi e il mercato a partire dalla storia dell’arte
sino agli odierni saloni di bellezza.
Non diversamente si andranno a cercare i confini di una bottiglia d’acqua
la quale si trasformerà in un prezioso strumento per parlare di
geopolitica. L’esperienza di vivere in una tenda, dove la mobilità
ci fa sentire tutti "ospiti e stranieri" della terra, mentre
possedere una casa in muratura, o abitarla a lungo, ci induce a percepirci
padroni della terra abitata ci aiuterà a capire il significato
di confine. Da ciò si passa all’esperienza dell’essere
“dentro” e “fuori”, a partire da punti di vista
e culture differenti. Si capisce così come anche il concetto di
straniero sarà costruito a seconda dei differenti contesti e diverse
modalità del vivere e dell’abitare. E così per l’identità
si scopriranno modi diversi di concepirla in varie parti del mondo.
Il percorso espositivo è ricco di queste e molte altre provocazioni
alla scoperta di nuove geografie del quotidiano.
Leggere un mondo nei segnali stradali
di “attenzione bambini”
“Mai dire squola - Percorsi educativi dal
mondo” è un viaggio interculturale realizzato attraverso
100 sagome che riproducono il segnale “Attenzione - Bambini”
così come è concepito in altrettanti paesi del mondo.
La mostra, sinora visitata, in classi scolastiche o in gruppi, da non
meno di quindicimila alunni del Veronese (all'Ex Arsenale) e di Genova
(Magazzini del Cotone / Biblioteca Internazionale per Ragazzi “E.
De Amicis”), è un percorso progettato e realizzato nell’alveo
di una lettura antropologica della realtà. Accompagnato da un catalogo
“attivo” (edito da Manni di Lecce), intende condurre al di
là del significato immediato di un cartello, metterne a fuoco i
dettagli, inaugurare nuove connessioni, dischiudere altri punti di vista.
Attraverso una lettura critica dei segnali, che sono di immediata comprensione,
ma si prestano ad essere variamente indagati, si traggono informazioni
sui modelli educativi, sull’ambiente scolastico, sulla famiglia,
sulle relazioni tra i generi, sull’alimentazione, sull’uniforme.
La scelta di proporre segnali di vari paesi nasce dalla volontà
di creare una didattica trasversale, a seguito di un’esperienza
nel campo della cosiddetta didattica “interculturale” precedentemente
condotta in un museo. Essa ha rivelato le potenzialità ma anche
i limiti di un percorso che presenti i tratti peculiari di un singolo
paese o regione (presuntivamente omogenea) del mondo.
Tentare invece un percorso trasversale, nel quale tutti i ragazzi si possano
mettere in gioco “alla pari”, ciascuno dall’ottica della
propria territorialità, si è rivelata una scelta di successo.
Esemplare è il caso di un bambino del Marocco, che si è
messo di fronte ai suoi compagni di classe a leggere ad alta voce le scritte
in arabo di taluni segnali. Grande è stata la sorpresa dell’insegnante
che ha confessato di non sapere, dopo quasi due anni di lavoro in quella
classe, che quell’alunno conoscesse la lingua araba. Azioni linguistiche
simili, intraprese da scolari di origine non italiana, si sono verificate
più volte e se ne sono resi protagonisti anche alunni inseriti
solo da pochi giorni nella classe.
Come ogni percorso, anche questo ha portato alla luce delle peculiarità.
C’è innanzitutto da notare come i ragazzi italiani,
davanti al segnale del loro paese, alla domanda “Secondo voi perché
il bambino è più grande della bambina?”, abbiano risposto,
in oltre il 90 per cento dei casi, “Perché negli altri paesi
la femmina non ha la stessa importanza del maschio”, oppure “Negli
altri paesi c’è maggiore discriminazione nei confronti della
femmina”. Benché avessero davanti agli occhi, senza rischi
di ambiguità, il segnale italiano i ragazzi tendevano a leggerlo
facendo riferimento all’immaginario conoscitivo dei paesi altri.
In definitiva, l’alterità è sempre l’altro
anche quando siamo davanti ad uno specchio. Ciò induce a riflettere
su come, normalmente, i percorsi interculturali tendano sì ad accrescere
la conoscenza delle culture altre, ma con il rischio di associare qualsiasi
problematica ai paesi altri; la conseguenza è che la parola altro
finisce per equivalere a straniero. Non è quindi sufficiente
parlare in termini più appropriati delle altre culture, occorre
anche trovare un giusto equilibrio per non insistere troppo nel definirle;
si può produrre l’effetto, non voluto ma reale, di creare
un cortocircuito da “eccesso di culture”.
Difficoltà e chance della
lettura delle immagini
Dal monitoraggio svolto in questi anni a contatto con
migliaia di alunni di varie età, in occasione anche di altri percorsi
espositivi interattivi, ci siamo resi conto di come le immagini costituiscano
le loro maggiori fonti di informazione. È del resto riconosciuto,
con una certa evidenza empirica, che i giudizi e i pregiudizi sull’“altro”
sono alimentati in primo luogo dalle immagini, le quali possiedono il
frastornante potere di confondere il “vedere” con il “sapere”.
Ora, curioso è che alla domanda “Dove vediamo delle immagini
durante la giornata?”, le risposte si riferiscano quasi sempre ai
giornali e riviste, alla cartellonistica pubblicitaria o altro, ma raramente
alla televisione. Questo probabilmente perché, come si evince dalla
maggior parte delle risposte, la tv “non presenta delle immagini
ma la realtà”.
Ecco un esempio tratto da un percorso in occasione di una mostra sulle
favole del mondo. I bambini, davanti ad un miniposter raffigurante un
griot (cantastorie dell’Africa occidentale) con un vestito
molto bello e appariscente, una grande kora e una Mercedes sullo sfondo,
alla domanda della guida “Che cosa vedete in questa foto”,
rispondevano quasi in coro: “Un africano!”. E poi: “Un
povero” a testimonianza che essi hanno già in testa un immaginario
che vede l’immagine indipendentemente da ciò che essa rappresenta.
Questo tipo di reazioni ha stimolato la creazione di nuovi percorsi, nel
tentativo di scavare aspetti in apparenza scontati e banali. La domanda
formulata una volta da alcuni bambini sul senso della forma triangolare
di buona parte dei segnali esposti è stata in seguito rilanciata,
in termini ludici, in modo sistematico. Le risposte sono state quasi sempre
tautologiche. Per esempio:
Bambina/o: – Si usa il triangolo perché il triangolo indica
attenzione o pericolo. (Quasi sempre è questa la prima risposta).
Guida: – Ma perché il triangolo indica pericolo? Proviamo
a leggere le forme: forse anche queste, come i libri, hanno qualcosa da
comunicarci.
Bambina/o: – Un triangolo è una figura geometrica…
ha tre lati.
A questo punto la guida, indicando il segnale della Slovenia, fa notare
che, all’interno del triangolo, oltre ai bambini è disegnata
una forma a stella, che assomiglia a… “Un’esplosione
di bomba!”, rispondono tutti.
Alla fine, c’è sempre uno che, folgorato dall’intuizione,
esce dalla lettura geometrica scolastica e risponde: “Si usa il
triangolo perché ha le punte, come nel segnale della Slovenia”.
E sicuramente un altro completa: “Le punte pungono e fanno male!”.
Questa esperienza di “scoperta” eccita i ragazzi e li stimola
a proseguire il percorso, a volte anche liberamente, senza guida, per
tentare di carpire altri “segreti”.
Per i bambini – e gli esempi potrebbero essere molti – la
scoperta della quotidianità si è rivelata nella meraviglia.
Del resto che c’è di più strano, di più “esotico”
e sconosciuto degli oggetti più familiari? In una società
dove l’estetica imperante è quella dell’oggetto unico
e prezioso, dello shock e dell’imprevisto, condurre piccoli
e meno piccoli a svelare la realtà attraverso la lettura delle
cose quotidiane è risultato uno strumento eccellente per combattere
il rischio di idolatria nella nostra società.
Roberta Bonetti
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