|
Contrastare
il brutto
La televisione non sa elargire
gioie o dolori, sofferenze o piaceri, ma eccitazione continua, sim-patie
o anti-patie mai destinate a tradursi in profonde em-patie.
Come dare una sterzata educativa al consumo di comunicazione?
Interrogarsi sul bello in epoca di “oppressione
simbolica” vuol dire, per chi si occupa di educazione, porsi quel
quesito che attanaglia il sociologo di fronte alla modernità: com’è
possibile oggi conciliare certe dissonanze prodotte dagli eccessi esibizionistici
della comunicazione con l’ideale di sensibilità estetica
centrato su un concetto di bello misurato e armonico che, nella nostra
cultura, è espressione di verità?
L’impianto logocentrico della cultura occidentale ci ha, infatti,
consegnato un concetto di bellezza che intrattiene un rapporto privilegiato
con le istanze oggettivanti e universalizzanti della razionalità,
infatti già Platone associava l’esperienza del bello alla
luce e alla scoperta della verità, sancendo così la matrice
logocentrica della conoscenza fondata sul connubio vista/mente. Questo
fondamento razionalistico del bello, che lo ha informato da subito di
una connotazione idealistica e astratta, elevata a virtus unificante
dalle aristoteliche qualità fenomeniche di ordine e simmetria
(Rella, 1990), ritorna nel giudizio estetico kantiano, atto teoretico
in nessun modo riconducibile all’esperienza sensibile della piacevolezza,
trattandosi di un piacere originato da una situazione di armonia tra facoltà
intellettuali.
Eppure oggi, in un’epoca in cui l’esser visti o visibili è
garanzia di essenza ed esistenza, in cui la diffusione a livello planetario
delle immagini determina un orizzonte estetico condiviso, accompagnato,
il più delle volte, da etiche di moda, il connubio tra
bellezza e conoscenza risulta fortemente compromesso da un regime di comunicazione
che sembra produrre esperienze estetiche lontanissime da qualunque armonico
equilibrio tra facoltà sensibili e intellettuali. La causa è
da ricercarsi nella difficile coesistenza sul piano valoriale di due categorie
che orientano l’umana esperienza della realtà: l’interesse
e il disinteresse, il che vuol dire analizzare il rapporto tra
sensibilità estetica e comunicazione alla luce dei processi di
riproduzione sociale che si determinano nella declinazione del gusto (Bourdieu,
1983). La domanda, infatti, è: in epoca di imperialismo delle immagini,
dominata dalla logica complementare e gerarchica di voyeurismo
ed esibizionismo, l’ideale estetico che ci viene proposto dal gioco
mass-mediatico delle apparenze e in particolare dalla TV, principale
“ladra di tempo” dei nostri bambini (Popper-Condry, 1994),
è ancora riconducibile all’asse valoriale universalistico
bello-vero-buono? Quale virtus unitiva sottende la folla di immagini
e il loro effetto di realtà che è tanto coinvolgente quanto
provvisorio e schizofrenico? In che modo la TV può far spazio all’incontro
tra piacere estetico e rigore intellettuale in vista di quell’etica
della comprensione disinteressata in cui Morin individua uno dei sette
saperi necessari all’educazione del futuro? (Morin, 2001, p. 104)
L’attenzione va rivolta non tanto a quel che si vede (i contenuti
della comunicazione destinati a diventare sempre più contraddittori
vista la loro portata planetaria), né semplicemente al modo in
cui si vede (i progetti comunicativi che orientano la disposizione dell’emittente
e del destinatario), ma piuttosto alla ideo-logica della comunicazione
non solo televisiva. Infatti, quello che va messo a fuoco è il
carattere sempre interessato della comunicazione, la cui costitutiva
struttura di mediazione, il suo essere-tra, la porta ad orientarsi
sempre pragmaticamente verso il possesso, inteso in termini di “padronanza”,
del suo oggetto, mentre ciò che connota l’esperienza estetica
della peculiare valenza universale (donde il suo rapporto privilegiato
con la verità) è il carattere dis-inter-essato
del piacere, che sussiste a prescindere da qualunque intenzione pratica
di appropriazione dell’oggetto che lo ha generato, così eletto
a rango di “bello” e talvolta di “sublime”. Ci
chiediamo allora cosa possa rendere conciliabile il concetto di bello
con le istanze pragmatiche della comunicazione, visto che nell’estetica
televisiva il gioco delle apparenze, l’attenta combinazione delle
forme, lo spreco di significanti (suoni, colori, corpi), che conferiscono
alla scena televisiva la sua caratteristica attrattiva e i suoi ben noti
effetti di fascinazione, difficilmente si lasciano inquadrare in un ordine
di esperienza diversa dall’“in-trattenimento”
davanti allo schermo. Anche senza aver letto Sartori o Bourdieu, sappiamo
tutti che i clienti della TV non sono gli utenti, cioè
i destinatari dei messaggi, ma i soggetti, pubblici e privati, che comprano
gli spazi pubblicitari, ragion per cui il regime di elevata concorrenza
in cui versa l’offerta mediatica, addotta a baluardo di democrazia
e libertà di scelta, non portandoci affatto dove ci illude di essere,
nelle piazze, nelle isole, nei tribunali, nei luoghi di guerra, negli
ospedali, nelle periferie o nei salotti per bene, ma solo in studi televisivi
in cui si mettono a punto simulacri di realtà, finisce ben presto
per diventare un enorme supermercato in cui ci troviamo rinchiusi a scambiare
l’esperienza della realtà e il suo orizzonte di senso con
agende di senso comune, valori e investimento affettivo prêt-à-porter.
Questo semplicemente perché in TV non solo quello che si vede,
ma anche chi lo vede è il mezzo e non il fine di un circuito
comunicativo che ha per obiettivo non l’informazione né tanto
meno la formazione e neppure il semplice consumo, ma un meccanismo autoreferenziale
di coazione al consumo di comunicazione per produrre nuova comunicazione.
Questo meccanismo, all’origine della banalizzazione inevitabile
di qualunque contenuto televisivo, trasforma l’educazione in edutainment,
l’informazione in infotainment, l’arte e la cultura in entertainment
e persino il delicato e complesso concetto di “democrazia”,
ridotto ad un rivolgersi diretto e confidenziale al pubblico, in democratainment
(Perniola, 2004).
Senza lanciare qui moniti apocalittici sull’assassinio della realtà
compiuto dalla TV, non possiamo negare che sempre più spesso, di
fronte all’aumentata aggressività e alla riduzione della
capacità di astrazione e di concentrazione nei video-bambini, avvertiamo
nei nostri animi di paghi consumatori di democratica libertà una
certa preoccupazione “alla Popper” sulla responsabilità
formativa della TV che interseca l’orizzonte di senso dei suoi principali
utenti, i minori, in una fase evolutiva in cui la dipendenza dall’ambiente
simbolico è molto forte mentre la capacità di discernimento
tra realtà e finzione è molto debole. Torna la questione
della difficile coesistenza tra etica disinteressata della sensibilità
estetica ed etica utilitaristica della comunicazione mass-mediatica, visto
che nella logica presenzialistica della ripresa televisiva, intrisa di
retorica veridittiva della
“vita in diretta” (dalle catastrofi in diretta ai reality
che imperversano nella programmazione televisiva), si consuma “l’imbroglio”
di un’estetica “inter-essata” giocata sull’effetto,
apparentemente disinteressato, di coinvolgimento prodotto dall’illusione
della presenza, dalla strategia dell’interpellanza, dalla familiarità
di una ritualità delle trasmissioni destinate a confondersi
e alla fine a sostituirsi alle routine della vita domestica e
al suo universo relazionale (si pensi alle ambientazioni televisive che
sempre più si presentano sotto forma di “case”, “salotti”,
“cucine”). Il successo è nell’illusione di un
potere che è quello di chi guarda senza esser visto, in una gerarchia
ribaltata in cui i molti guardano i pochi, con un effetto veridico in
cui il processo di costruzione simbolica che lo ha generato scompare,
con inevitabile distorsione e dirottamento del senso in chi guarda.
Questo è “il bello” della TV e in quest’ottica
inter-essata vanno compresi “i belli” e “le belle”
della TV: occupare una scena, diventare visibili e attestare con ciò
una
presenza che confermi i ruoli di chi guarda e chi è guardato, sancendone,
al tempo stesso, l’in-concludenza, perché la logica
presenzialistica e presentistica della TV ammette stacchi, interruzioni
seriali, ma non conclusioni, perché alla TV basta verosimiglianza
e interpellanza, non credibilità. Un effetto di mobilitazione attorno
ad un’emozione collettiva, trionfo di curiosità, voyeurismo,
protagonismo, scevra da qualunque istanza di coerentizzazione in un altrettanto
comune orizzonte di senso fatto di vissuti: su questo si fonda il progetto
di “massificazione dell’utenza” (Bettetini, 1985) dell’estetica
televisiva.
Cornice spazio-temporale di un discorso in cui ci sta tutto ed il contrario
di tutto, a patto che rientri nei tempi frammentati, fatti di minuti,
del palinsesto e della pubblicità, la televisione ci fornisce delle
estetiche mediali a cui si accompagnano etiche giocate su un
eterno presente, inevitabilmente affette da una profonda schizofrenia
perché il corpo di un uomo martoriato dalle bombe in un contesto
di guerra risponde alla stessa logica oggettivante ed esibizionistica
di seducenti e sculettanti veline, dal momento che la sua immagine sullo
schermo, destinata ad alternarsi a levigatissimi seni e glutei di fantomatiche
casalinghe liberate dal giogo delle fatiche domestiche da un detersivo,
nulla può dirci dei suoi vissuti di dolore, dei legami irripetibili
che ha visto infrangersi in pochi istanti, del senso di perdita totale
a partire dal quale ha dovuto costruire il suo orizzonte esistenziale.
Non gioie o dolori, non sofferenze o piaceri elargisce la televisione,
ma eccitazione continua, sim-patie o anti-patie mai
destinate a tradursi in profonde em-patie fondate su memoria e consapevolezza
di un destino comune di finitezza e vulnerabilità. In questo senso
l’estetica televisiva si traduce in un’etica che occulta più
di quel che mostra, giocata com’è su un bello o su un brutto
che passano per forme stereotipate di fisicità senza “corpo”,
di emozioni senza “sentire”, di visione senza “comprensione”,
fatte di esibizionismi indiscreti non perché contrari a una morale
pudica e bacchettona, ma perché nulla dicono di quella discrezione
del corpo, fatta di legami “discreti” perché unici,
selettivi, irripetibili che fanno della sua irriducibile singolarità
un destino che accomuna e crea memoria, unico vero principio di un sentire
comune.
Come dare, allora, una sterzata educativa al consumo di comunicazione,
come cioè influenzare quell’ambiente simbolico da cui i nostri
figli dipendono fortemente e in cui devono imparare ad orientarsi? Non
certo spegnendo le televisioni né invocando la censura, ma mettendo
in atto strategie di sistematica defatalizzazione del mondo (Bourdieu,
2003, p. 147) mostrando gli effetti di de-politicizzazione e
mitizzazione operato dai media (Barthes, 1974, p. 223) ed evidenziando,
grazie ad un felice connubio tra ottica sociologica e pedagogica, le regolarità
(gli abiti) che essi creano e ai quali il mondo sociale obbedisce.
In termini educativi questo vuol dire, ad esempio, avviare dei percorsi
di Media Education tesi a sviluppare consapevolezza in ordine
ai media, al fine di farne degli strumenti integrali per la formazione
(Rivoltella, 2001, p. 37) in vista di una più ampia operazione
che faccia di queste estetiche del vedere centrate sulla facile attrattiva
del corpo non una fabbrica del consenso globalizzato o della moda come
universo di credenze suggestive e provvisorie, ma il principio di una
“rivalutazione culturale” del senso incarnato, del corpo vissuto,
non più solo “oggetto” di visione voyeuristica,
ma “soggetto”, principio selettivo di visioni non onnivore,
frutto di indistinto “in-trattenimento”, ma organizzate secondo
movimenti interpretativi che “trattengono” selettivamente
sensazioni, emozioni, sentimenti secondo le istanze dei propri vissuti.
La Media Education non come ricetta quantitativa sul tempo da
dedicare alla TV o come prescrizione di diete mediatiche “intelligenti”,
ma come invito a ripensare qualitativamente il tempo donato ai media in
nome di un’intelligenza sensibile che, in un’ottica smitizzante,
restituisca gli effetti di realtà percepiti ai processi di costruzione
simbolica che li hanno generati e al contesto in cui si sono prodotti,
attraverso operazioni di comprensione che coerentizzino quegli effetti
con un orizzonte di senso fatto di contesti, esperienze, relazioni, in
una parola, con quell’intrico irripetibile che è
il corpo, senza il quale non c’è dialogo, non c’è
differenza, non c’è pluralità, non c’è
ragionevolezza, ma solo l’astratta razionalità di menti “in-differenti”
(Ponzio, 1997).
Dunque le estetiche stereotipate e le retoriche banalizzanti dei media
sembrano addirittura offrirci un’occasione per ripensare la nostra
cultura e i nostri valori proprio partendo da quel rapporto tra corpo
e ragione che si esprime nel concetto di bello, per capire che quell’ideale
statico e astratto di bellezza aristotelica, frutto delle istanze oggettivanti
di una ragione senza corpo, è lo stesso principio reificante che,
portato ad estreme conseguenze dal bombardamento mediatico, regola i giochi
dissimulatori e massificanti della comunicazione inter-essata.
La Media Education ci offre un orizzonte epistemologico in grado
di interrompere il meccanismo autoreferenziale della comunicazione
per la comunicazione non censurando l’esperienza comunicativa,
ma focalizzando i processi di riproduzione sociale che si compiono nell’inerzia
percettiva indotta da certe strategie stereotipanti di comunicazione.
Ciò comporta, dal punto di vista didattico, una valorizzazione
della capacità conoscitiva dell’esperienza sensibile prodotta
dalla comunicazione, smascherando la portata ideologica di una retorica
mediatica che gioca la sua presunta neutralità e veridicità
sulla parzialità e ridotta mediazione simbolica dell’esperienza
percettiva. Questo lavoro di “de-fatalizzante” distanziamento
dalle estetiche mimetico-imitativo dei mass-media, attraverso una restituzione
dell’effetto di senso al medium e alle sue strategie enunciative,
potrebbe liberare il modello di bellezza dai vincoli consensuali e univoci
dell’ideale statico e tautologico di armonica consonanza e di virtus
unitiva e farne il principio dinamico di superamento delle abitudini
conoscitive, istanza etico-conoscitiva di rottura con un assetto morale
e culturale ricevuto (vedi Simone Weil o Baudelaire). Un bello meno naturalistico,
più realistico e creativo o meglio ri-creativo della realtà
colta nelle sue ostinazioni irriducibili, secondo un’estetica più
realisticamente vicina all’etica inclusiva del corpo, irriducibile
agli intenti unificanti delle logiche binarie e categorizzanti (bello/brutto,
buono/cattivo, vero/falso) delle tanto virtuose quanto guerriere fenomenologie
dell’uno.
Solo attraverso un lavoro culturale ed educativo di tal fatta che restituisca
il bello patinato e sganciato dalla realtà alle logiche razionalistiche
e interessate che lo hanno prodotto e che riabiliti, invece,
come unico principio di un sentire comune, l’etica infunzionale
e disinteressata del corpo con l’unicità dei suoi
vissuti relazionali fatti di senso e memoria incarnati, forse la “fisicità
senza corpo” di politici tirati a lucido, i loro sorrisi smaglianti
e le loro strette di mano potranno dirci qualcosa del destino che li accomuna
e ci accomuna al “corpo senza fisico” di donne coperte dalla
testa ai piedi e di uomini pronti a ridurre il loro fisico in schegge
mortali.
Maria Giovanna Onorati
Riferimenti bibliografici
BARTHES R. (1974), Miti d’oggi, Torino, Einaudi.
BETTETINI G. (1985), L’occhio in vendita, Venezia, Marsilio.
BOURDIEU P. (2003), “Sul potere simbolico” in A. Boschetti,
La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu con un inedito e altri scritti,
Venezia, Marsilio.
BOURDIEU P. (1983), La distinzione. Una critica sociale del gusto, Bologna,
il Mulino.
MORIN E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro,
Milano, Raffaello Cortina Editore.
PERNIOLA M. (2004), Contro la comunicazione, Torino, Einaudi.
PONZIO A. (1997), Elogio dell’infunzionale, Roma, Castelvecchi.
POPPER K., CONDRY J. (1994), Cattiva maestra televisione, Milano, Reset.
RELLA F. (a cura di) (1990), Bellezza e verità, Milano, Feltrinelli.
RIVOLTELLA P.C. (2001), Media Education. Modelli, Esperienze, profilo
disciplinare, Roma, Carocci.
|
|
|