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Il
territorio luogo di esperienza estetica
“Chi si propone di teorizzare
sull’esperienza estetica incarnata nel Partenone, deve rendersi
conto di ciò che gli uomini, nella cui vita esso era entrato, avevano
in comune, come creatori e come ammiratori soddisfatti, con gli uomini
che abitano le nostre case e passano per le nostre strade.”
J. Dewey
A luglio dello scorso anno è stato pubblicato
da Armando Editore Percorsi di educazione all’immagine
che documenta un progetto di formazione dell’IRRE-VDA, basato sull’idea
che l’esperienza diretta, vissuta in prima persona dagli insegnanti,
sia trasferibile in ambito scolastico scegliendo la metodologia operativa-laboratoriale.
Il libro propone, accanto alla descrizione ragionata del percorso formativo,
una progettazione didattica mirata allo sviluppo delle competenze, attraverso
esperienze motivanti e significative di rapporto diretto con le opere
d’arte.
La ricerca di nuove suggestioni per la progettazione didattica impone
di allargare lo sguardo al terreno della formazione estetica in cui vive
l’educazione artistica. Le riflessioni che seguono vogliono indicare
un possibile approccio alle problematiche della fruizione del patrimonio
artistico e offrire un termine di confronto per ripensare le consuetudini
didattiche. In questo ambito è cruciale porre l’attenzione
sulle problematiche legate alle scelte, che di un progetto rappresentano
la dimensione più profonda, nelle quali si rispecchia il senso
dell’impegno e della responsabilità che coinvolge l’insegnante
dal momento dell’ideazione di un’attività a quello
della conduzione e della verifica dei risultati.
Il bello a scuola
A scuola non è facile affrontare la questione
del rapporto con il bello, per la scarsa propensione a confrontarsi
con i cosiddetti “massimi sistemi”, metafora dell’inconcludenza
di ogni discussione. La complessità del problema, con i suoi risvolti
filosofici, estetici, storici, antropologici può anche indurre
al facile rifugio nei luoghi comuni: “non tutti i gusti sono...”,
“non è bello quel che è bello...” e così
via.
La riflessione estetica rimane prerogativa solo di ambiti ristretti di
pubblico di frequentatori delle mostre e delle manifestazioni culturali
senza arrivare a coinvolgere le grandi masse di cittadini. Per questo,
il dibattito su questi argomenti pare non offrire solidi riferimenti alla
scuola chiamata ad una funzione educativa. Gli insegnanti, inoltre, mostrano
sempre più spesso distacco, se non ostilità, verso problematiche
ritenute astratte e inutili.
I docenti, infatti, strattonati da più parti, distratti dall’insegnamento
della propria disciplina dalla continua introduzione di nuovi compiti,
frustrati dall’imposizione di cambiamenti radicali calati dall’alto
senza consultazione né confronto, vedono annientati senza ragione
i risultati di tanti anni di sperimentazione e di elaborazione anche nel
campo dell’educazione estetica.
Per superare queste comprensibili resistenze e riaprire un confronto produttivo
dobbiamo innanzitutto evitare l’astrattezza del “si dovrebbe
fare così”. Ritrovare il senso dell’educazione estetica
nella scuola significa ricominciare ad immaginare occasioni significative
di contatto con il “bello” e le sue espressioni, non per trasmettere
modelli interpretativi rigidi né per imporre un gusto, ma per abituare
ad una visione aperta del rapporto con le testimonianze più significative
del genio umano: le opere d’arte.
Il bello della scuola
Potremmo cominciare da ciò che di bello può
esserci a scuola: una visione da recuperare innanzi tutto ai nostri occhi
perché diventi leggibile agli occhi dei nostri allievi. In fondo
stare in un luogo che appare bello è la condizione di partenza
per frequentare forme di bellezza che ne stanno fuori, nei libri come
nell’ambiente, nel presente come nel passato.
La scuola diventa bella per gli alunni quando è luogo di incontri
significativi: con gli insegnanti nella loro qualità di mediatori
di sapere; con la conoscenza, cioè con la continua scoperta del
nuovo; con la cultura, attraverso i diversi sguardi disciplinari, da cui
interrogare la complessità del mondo; con la creatività,
attraverso il contatto sistematico con l’arte in tutte le sue forme
e la possibilità di praticare attivamente l’espressione.
La scuola è bella quando è il luogo in cui accorgersi
che si sta crescendo, guidati a riconoscere ed apprezzare i cambiamenti
e le conquiste che della crescita sono il segno tangibile; il luogo
dell’integrazione senza omologazione, in cui imparare ad apprezzare
le differenze senza averne paura; il luogo in cui esercitare il potenziale
delle proprie capacità per diventare sempre più capaci
e informati, incrociando i vissuti personali con l’apprendimento;
il luogo in cui verificare i propri interessi sfruttando i propri
talenti.
La scuola è bella quando facilita il rapporto con la conoscenza
in un ambiente ospitale, studiato per accogliere l’esperienza
di tutti, ciascuno con il proprio stile personale; in un ambiente
stimolante, ricco di situazioni progettate per alzare al massimo
la motivazione e il coinvolgimento nelle proposte, in un ambiente
che avvolge e rassicura, perché vi è un clima disteso
progettato per stare bene insieme; in un ambiente che insegna,
mentre educa globalmente.
Per praticare l’educazione estetica potremmo riprendere in mano
il progetto di una scuola che coltiva il bello e non si limita a dichiarare
dove questo risiede: una scuola che cura se stessa per abituare a rifuggire
la sciatteria interrogandosi, innanzitutto, sulla propria estetica. L’estetica
degli ambienti: desolanti perché squallidi o stimolanti perché
ricchi dei segni della creatività, dell’arte e degli allievi?
L’estetica della didattica: proposte frettolose e incomprensibili
o progetti curati e condivisi? L’estetica dell’insegnamento:
atteggiamenti da cui traspare delusione e fastidio oppure passione e affezione
per le cose che si insegnano?
Dobbiamo, coraggiosamente, riprendere la discussione sui grandi valori,
che sono alla base di ogni progetto di scuola, rivalutare l’importanza
di utopie e aspirazioni dalle quali possiamo ancora attingere la forza
per nuove sperimentazioni. Da questo sforzo discende la possibilità
concreta di attuare progettazioni di qualità con forti valenze
educative e formative nell’ambito specifico dell’educazione
artistica.
Il bello, il brutto, l’autentico
A scuola il problema del rapporto con l’estetica
travalica la dimensione del gusto e assume quella della ricerca di criteri
di riferimento per formare la capacità critica. In quest’ottica
le categorie di bello e di brutto appaiono insufficienti,
restrittive e rendono necessario il ricorso ad una terza categoria, ben
più significativa sul piano formativo: quella dell’autenticità.
L’autenticità, in questo caso, rappresenta, un valore rintracciabile,
misurabile attraverso l’analisi e la comparazione dell’opera
d’arte con i prodotti espressivi dei ragazzi perché unisce
e dà significato alle dimensioni del valore esplicito
(la forma del prodotto) e implicito (il processo creativo), entrambi
contenuti nell’oggetto che abbiamo di fronte.
Nei nostri progetti possiamo inserire l’autenticità come
uno degli elementi portanti della formazione estetica, per abituare i
bambini e i ragazzi a perseguirla nelle proprie azioni espressive e a
ricercarla nelle opere d’arte degli artisti.
Per sviluppare le competenze dei ragazzi nel rapporto con le opere d’arte
dobbiamo valorizzare l’autenticità del loro impegno, in particolare
nell’osservazione: più che controllare se un allievo applica
le procedure insegnate è importante sapere come egli osserva,
per aiutarlo ad affinare la sua sensibilità. Solo così si
otterrà l’obiettivo di sviluppare un’autentica competenza
osservativa cioè la capacità di cogliere e rilevare il maggior
numero possibile di segni utili per determinare una visione significativa
del fenomeno osservato.
In fondo il rapporto con l’opera d’arte è l’incontro
con un oggetto e tra persone: osservatori che ricercano artisti. In quest’ottica
aiuta avere un rapporto con l’autenticità: mistero svelabile
del processo creativo, da afferrare entrando nell’opera alla ricerca
dei segni che parlano delle scelte dell’artista.
L’arte dell’insegnante
di arte
L’educazione artistica impone il confronto con
la continua evoluzione dei linguaggi espressivi e richiede agli insegnanti
una grande apertura all’innovazione e una sintonia profonda con
la materia insegnata: il che pone la questione di quale debba essere la
loro competenza. Chi insegna arte deve essere egli stesso artista? scrittore
chi insegna italiano? regista chi apre uno spazio nelle proprie lezioni
al cinema? Naturalmente non si può escludere che talvolta ciò
accada, ma si tratta di casi sporadici. Per non parlare dell’eventualità
che un insegnante di latino sia un affermato cantautore, il che complica
notevolmente la faccenda.
Stabilire un rapporto diretto tra pratica professionale dell’arte
e competenza nell’insegnamento comporta il rischio dell’incompletezza
e del condizionamento, insito nella tensione di far partecipi gli altri
della propria ricerca espressiva. Per non parlare degli effetti disastrosi
che potrebbero derivare dallo stato di frustrazione di un insegnante che
abbia scelto l’insegnamento come ripiego, avendo fallito come poeta
o pittore.
Tutt’altra questione è quella della passione che anima -
dovrebbe animare - il rapporto con la propria disciplina, marcandolo di
significati e corrispondenze profonde. Passione che rappresenta anche
quel quid in più che, permeando la relazione tra insegnante
e studente, rende affascinante la materia e ne facilita l’apprendimento.
Cose note, d’altronde.
Per districare la matassa occorre riappropriarsi della specificità
dell’insegnamento: una professione caratterizzata da statuti, contenuti
e saperi propri. L’arte dell’insegnante è dunque quella
di insegnare, cioè di saper creare la relazione più efficace
con i propri allievi e tra gli allievi e la conoscenza.
L'arte di insegnare |
L'esperienza artistica accumulata, anche se fortemente legata
alla disciplina insegnata e a prescindere dall'ordine di scuola
in cui si opera, difficilmente si trasferisce automaticamente
nella didattica arricchendone la qualità.
Bisogna sempre tenere presente che nell'insegnamento si lavora
con degli individui nei quali e con i quali vanno ricercate, nei
limiti del possibile, le giuste “frequenze” per poter
instaurare un proficuo dialogo didattico; tale capacità
o sensibilità o scienza (o arte?), vorrei sottolinearlo,
non è necessariamente connessa all'approfondimento e alla
ricerca disciplinare svolta dal docente al di fuori dell'ambito
scolastico.
Questo non significa che chi opera professionalmente nel campo
del linguaggio visivo e nel contempo svolga l'attività
docente non possa essere una possibile risorsa per la scuola,
anzi, se concordiamo nell'attribuire alla conoscenza e all'uso
del linguaggio visivo una valenza trasversale e ammettiamo che
tali competenze risultano spesso poco esplorate o assenti, dovremmo
altresì auspicare un comune impegno per colmare tali lacune
utilizzando tutte le risorse disponibili. Dunque non tanto e non
solo un riutilizzo dell'esperienza artistica è praticabile
nella propria disciplina, ma in tutti gli ambiti pedagogici e
didattici dove apportare, oltre alle proprie capacità tecniche
e creative, anche un approccio più rigoroso verso le problematiche
estetiche affrontate.
Roberto Priod
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Progettare l’incontro con
il bello dell’arte
Entriamo ora nel merito dell’educazione all’arte
e immagine: ambito specifico, ma, nello stesso tempo, potenzialmente
presente in molte discipline, ovunque si ponga il problema del rapporto
con le immagini e l’arte figurativa. Dalle considerazioni generali
fatte in precedenza discendono delle indicazioni, o meglio delle suggestioni,
che possono orientare l’atteggiamento dell’insegnante-progettista
verso una didattica basata sulla metodologia operativa.
Per ragionare in modo nuovo di obiettivi e programmazione possiamo provare
a porre il problema in termini di temi progettuali,
vale a dire spunti di riflessione che orientino le scelte.
Il tema del rapporto con l’opera d’arte, la dimensione
operativa, inteso come contatto significativo, come accesso alla comprensione
del linguaggio espressivo dei testi dell’arte attraverso l’osservazione
partecipata.
Il tema della familiarità, la dimensione formativa, pensata
come abitudine alla ricerca, al piacere della scoperta dell’arte
intorno a noi e della possibilità di accedervi con i propri mezzi.
Il tema della consapevolezza, la dimensione delle competenze
che rappresentano la sicurezza che deriva dall’esperienza del conoscere
come relazione attiva e non accumulo di informazioni da esibire e come
capacità di vivere il rapporto con il proprio tempo e, con il passato.
Il tema della curiosità, la dimensione della motivazione,
individuato come stimolo ad ampliare i contatti con il nuovo, come dimestichezza
con l’esplorazione che porta alla scoperta, come voglia di cercare
innanzi tutto in se stessi le risorse per comprendere l’arte e per
approfondirne la conoscenza con lo studio.
Il tema dell’autonomia, la dimensione del metodo, come
capacità di essere nella contemporaneità individuando, distinguendo
e mettendo in relazione le cose dell’oggi e quelle di ieri come
sono oggi, come padronanza degli strumenti per indagare i fenomeni da
più punti di vista, gli sguardi disciplinari, per far interagire
l’interpretazione personale con il sapere scientifico.
Intorno a questi nodi, che ci impongono il confronto con le nostre convinzioni
e consuetudini didattiche, possiamo costruire un nuovo modo di pensare
proposte realmente orientate alla formazione estetica, momenti di lavoro
a contatto con le opere e i luoghi dell’arte, vere e proprie occasioni
in cui sia possibile vivere un’esperienza profonda e coinvolgente
i cui risultati si consolidino nel processo di crescita personale sotto
forma di competenze e abitudini.
Lo spazio per l’incontro con il bello, attraverso i testi delle
arti e della stessa realtà, è in tutte le discipline, non
solo in quelle deputate: il rapporto con l’arte è un’esperienza
profondamente cognitiva, quindi trasversale. Al tempo stesso, consente
di sfruttare appieno le possibilità offerte dalla specificità
dei contenuti delle discipline dell’area espressiva, accentuandone
l’aspetto educativo attraverso una programmazione fortemente connotata
dalla metodologia operativa e laboratoriale.
Garante di questo processo è l’insegnante con la sua capacità
di progettare contesti attivi che esaltino il ruolo dell’individualità
e restituiscano all’allievo il senso della sua esperienza. Nella
progettazione non si può prescindere dall’esperienza di ciascuno
dei soggetti coinvolti, siano essi insegnanti o allievi. Ai ragazzi va
offerta la nostra familiarità con l’arte, le piazze, i boschi,
i musei, arricchita dalle nostre conoscenze e esplicitata attraverso consegne
specifiche.
Perseguire obiettivi educativi significa personalizzare, marcare, l’esperienza.
Perché, nel rapporto con l’arte, i ragazzi non sono in relazione
solo con un’opera, ma soprattutto con l’insegnante-mediatore
e con ciò che egli possiede di quell’opera: un rapporto tra
persone e tra vissuti che attraversa un testo e converge sul suo significato.
La mediazione vive e si alimenta nella relazione: è arrivato il
momento di sfatare il mito dell’insegnante distaccato per non influenzare
gli allievi. Impossibile! Meglio prendere coscienza del potere che ci
viene dato dal ruolo, dal sapere, dalla possibilità di utilizzare
positivamente l’esempio di cui siamo portatori: l’educazione
artistica offre uno spazio concreto allo sviluppo delle competenze,
innanzitutto attraverso l’esempio di un insegnante competente e
partecipe.
Capire o comprendere l’arte?
L’allievo, nelle attività di fruizione consapevole
delle opere d’arte, è chiamato ad essere protagonista della
propria esperienza attraverso l’interpretazione. È
infatti importante dare un senso a quanto si osserva, associando l’osservazione
del nuovo alle conoscenze possedute nel tentativo di cercare un significato
comprensibile.
Il momento dell’interpretazione consente all’insegnante di
guidare il processo elaborativo dell’allievo, fornendo elementi
corretti. In questo flusso relazionale dialettico anche le interpretazioni
personali non adeguate trovano spazio come necessari tentativi di costruire
significati.
Troppo spesso a scuola capire un’opera equivale ad ingabbiarla
in definizioni schematiche, sovente discutibili, che ne riducono il significato
a nozioni superficiali. Comprendere è invece possedere
con i propri mezzi attraverso un contatto strettamente partecipato che
lascia tracce indelebili fissate nella memoria dal vissuto emotivo e dall’elaborazione
razionale.
Il nostro lavoro, il museo stesso in cui ci muoviamo diventano, se ci
lasciamo coinvolgere come persone e prendiamo dentro di noi le opere valorizzando
le nostre capacità e le nostre percezioni, spazi dedicati agli
allievi e ai docenti, non agli argomenti. L’abitudine a frequentare
direttamente i testi dell’arte costituisce una spinta a coltivare
la curiosità, la conoscenza, ad estendere i propri orizzonti, i
propri interessi, a ricercare incontri significativi. Non solo durante
il tempo della scuola, ma anche nella vita.
Cercare l’arte intorno a
noi
L’incontro con i testi dell’arte può
avvenire in molti luoghi, scelti per il loro potenziale di coinvolgimento.
La lettura di poesie, l’ascolto della musica, l’osservazione
di un ambiente, la visione di un film richiedono condizioni ambientali
e strumentali diverse tutte pensate per facilitare una fruizione consapevole
e partecipata.
Nell’ambito dell’arte figurativa, l’incontro fisico
con le opere, nei loro contesti museali e viste nelle loro reali dimensioni,
anziché attraverso una piccola riproduzione, è un evento
che mobilita le emozioni, i ricordi, la percezione, le conoscenze, l’elaborazione
razionale in un processo vivo e complesso. è la dimensione dell’esperienza
estetica.
Per incontrare le opere d’arte vere occorre dunque andare a far
scuola fuori dalla scuola, avventurandosi nel territorio alla ricerca
di luoghi significativi: l’arte infatti è ovunque, ma non
viene a noi, siamo noi che dobbiamo muoverci per cercarla. Naturalmente
anche nei libri, a patto che questi non si trasformino nell’alibi
per un rapporto esclusivamente virtuale: nessun mezzo può soddisfare
il bisogno di rapporti concreti, ravvicinati, vivi con la realtà,
nemmeno i più raffinati software di grafica virtuale.
In questa prospettiva le uscite da scuola non sono meri strumenti didattici,
ma l’indicatore di una scuola aperta, capace di ospitare gli stimoli
anche esterni integrandoli in un progetto educativo organico.
Il territorio come spazio parallelo
La città, l’ambiente, il museo esistono,
vivono intorno a noi, circondano la scuola di tentazioni, rappresentano
occasioni di “adescamento” culturale. Il territorio, se non
lo temiamo, può diventare uno spazio parallelo alla scuola, un
arricchimento necessario del percorso personale di ogni allievo.
Organizzare attività esterne non significa stravolgere la didattica
delle aule e dei laboratori scolastici, ma fornire uno spazio dal potenziale
educativo straordinario, uno spazio parallelo appunto.
Sul piano cognitivo gli spazi paralleli sono aree che ognuno di noi si
riserva, il più delle volte per difendersi da ingombranti influenze
scolastiche, dove riordinare in solitudine quanto imparato: uno spazio
in cui si struttura realmente la conoscenza.
L’esistenza di questa dimensione personalissima di conoscenza ci
offre una possibilità in più: usare il museo, il bosco,
la città, i monumenti… come luoghi “altri”, significativi
per la loro singolarità, utili perché diversi da quelli
scolastici, luoghi in cui organizzare momenti che, per la loro motivante
straordinarietà, aprono spazi per proposte fortemente coinvolgenti.
Anche per noi insegnare in uno spazio parallelo può diventare l’occasione
di dedicarci alle cose che amiamo, lavorando anche, almeno un po’,
per noi stessi. Ecco un bel regalo per i nostri allievi: insegnare loro
che alcune cose importanti si possono fare per il piacere di fare per
sé, di dedicarsi un momento bello e interessante e non solo per
assolvere un obbligo.
Se poi abbiamo prospettive più ampie cui destinare gli obiettivi,
l’esperienza nel territorio acquista un’importante valenza
di educazione reale alla cittadinanza perché concretamente vissuta
e non solo raccontata. Un simile rapporto con l’arte può
creare una preziosa familiarità con la frequentazione culturale
e insegna ai giovani che visitare una mostra o un museo è un modo
gratificante e interessante di impiegare una parte del proprio tempo libero:
a scuola inizia un processo destinato a proiettarsi in tutto il percorso
di formazione, lungo una vita. Sono abitudini che possono generare la
consapevolezza del valore del patrimonio culturale, facendolo divenire
utile, vicino e fruibile e quindi da conservare e da valorizzare.
La visita come esperienza estetica
Perché ne valga la pena, nonostante le tante incombenze
organizzative che gravano su ogni uscita, il progetto di un’attività
nel territorio deve garantire spazio e tempo per l’esplorazione
e la scoperta, per l’elaborazione e la riflessione personale: la
parola d’ordine è “senza fretta!” o, se preferite,
“meno, ma meglio!”. Per offrire uno spazio personale reale,
occorre saper destare, innanzitutto in noi, il piacere per l’abbandono
e l’emozione, inconciliabili con l’idea stessa di programmazione.
è impossibile obbligarsi e obbligare a provare sensazioni a comando;
meno difficile è creare una situazione in cui vivere momenti emozionanti
soprattutto se si concede ai ragazzi il tempo della contemplazione e a
noi quello dell’ascolto.
Programmare contesti in cui vi sia anche lo spazio per l’imprevisto,
lavorando con l’idea del “potrebbe accadere” invece
che “dovrà succedere”, è stimolante, quasi una
sfida all’innovazione. Una preparazione dell’attività,
studiata a livello di strategie più che di performance, valorizza
le competenze culturali, relazionali e comunicative dell’insegnante
che può agire, lasciandosi trasportare dagli eventi. In questi
contesti operativi, si sfugge alla valutazione punitiva, basata sulla
rilevazione di ciò che manca e che genera la frustrazione di non
aver fatto tutto ciò che era richiesto.
Il museo e l’ambiente naturale sono i luoghi privilegiati della
relazione educativa perché consentono di uscire dai ruoli canonici
e creano delle situazioni in cui vi è uno scambio reale e ricco
tra i soggetti che comunicano: insegnante e ragazzi. L’arte, l’opera,
il museo stesso entrano a far parte di un dialogo. Dialogare e spiegare
sono azioni molto diverse. Il tempo di una spiegazione è prevedibile
mentre quello di un dialogo no: si sa quando si inizia, ma non quando
si finisce, né dove ci porterà. Saper porre domande è
una strategia per attivare un dialogo con gli allievi intorno ad un’opera
che diventa una parte della relazione. Ma, pur essendo il motivo principale
per cui questo rapporto esiste, essa ne rappresenta una parte essenziale,
ma non unica.
Succede allora che l’opera d’arte, oggetto di dialogo, diventa
parte della relazione tra docente e discente.
Un libro, uno strumento per insegnanti
e futuri insegnanti
Di queste riflessioni in Percorsi di educazione all’immagine
gli insegnanti potranno trovare la traduzione operativa, sotto forma di
approfondimenti e di indicazioni per la progettazione. Ai materiali utilizzati
nel corso sono stati abbinati commenti che ne illustrano la valenza metodologica
e la trasferibilità nell’attività scolastica.
I capitoli dedicati al tema del paesaggio, sperimentati nell’ambiente
e al museo, sono organizzati in schede per evidenziare le modalità
di progettazione del percorso, vale a dire l’insieme delle
scelte di conduzione e l’articolazione dell’attività,
e dell’itinerario, cioè le tappe che corrispondono
ai luoghi in cui si svolge l’osservazione, con indicazioni operative
per l’osservazione dei contesti delle opere.
L’intenzione del libro è di porsi come strumento per l’elaborazione
progettuale: sarebbe interessante proporne la sperimentazione anche agli
studenti che, all’università, si apprestano a diventare insegnanti.
I percorsi di esplorazione e le attività sul campo, in città
e nel museo, potrebbero diventare oggetto di sperimentazione diretta,
una sorta di laboratorio di formazione, in cui si integrano l’esercitazione
pratica e la riflessione metodologica. Potrebbero, inoltre, rappresentare
un’occasione di continuità tra la preparazione teorica e
la realtà operativa.
Tra scuola e università, vi sono ancora due mondi separati, ciascuno
timoroso di vedere messa in discussione la propria identità o forse
desideroso di affermare un qualche primato; c’è, invece,
un bisogno di continuità tra università e scuola, affinché
si realizzi quella osmosi di esperienze, di ricerca teorica e di sperimentazione
operativa, necessaria ad una reale, e non solo predicata, innovazione
della didattica.
Ermanno Morello
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