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Siamo
sicuri ?
Riflessioni, considerazioni
e dubbi sull'insegnamento dell'italiano a stranieri inseriti nelle scuole.
Sabato 16 settembre 2006 si è concluso, a Torino,
un seminario internazionale di studi sull'intercomprensione, organizzato
dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di
Torino e promosso dalla Commissione Europea nel quadro del progetto Socrates
Lingua 2 VRAL (Une voie romane à l'apprentissage des langues).
Nel corso della tavola rotonda conclusiva dei lavori, due relazioni, in
particolare, mi hanno fatta riflettere: la prima, della professoressa
Luisa Revelli dell'Università della Valle d'Aosta, sulla situazione
dell'insegnamento delle lingue in Valle d'Aosta; la seconda, tenuta dalla
professoressa Silvana Antonescu della scuola "Labis" di Bucarest,
sullo stesso argomento per quanto riguarda la Romania.
Nella prima relazione si suggeriva, come via ideale al plurilinguismo,
l'insegnamento integrato, cioè l’insegnamento delle diverse
materie non-linguistiche in una lingua diversa dall'italiano, favorendo
così l'apprendimento dei diversi codici (previsti dal curricolo
per la scuola valdostana, nella fattispecie italiano, francese e francoprovenzale).
Sapevo che l'insegnamento integrato, usando come lingue veicolari il francese
e l'inglese, ha dato risultati positivi in Canada; non sapevo, invece,
che in Romania si sta applicando (e con buoni risultati) la stessa metodologia
ed esistono licei bilingui: ungherese-rumeno, tedesco-rumeno, ecc.
L'insegnamento integrato presuppone che si usino, per
la normale didattica, due lingue (la lingua madre e una lingua seconda)
in alternanza e che, grazie all'uso in contesto che si fa della L2, se
ne favorisca l'apprendimento insieme all'apprendimento delle diverse materie.
Questa sembrerebbe essere la situazione in cui si trovano i bambini e
i ragazzi stranieri che entrano nelle scuole italiane. L'unica differenza
sarebbe che l'insegnamento è monolingue e solo per gli stranieri
si avrebbe insegnamento integrato, mentre per i madrelingua italiani non
c'è nessuna possibilità di plurilinguismo al di fuori dell'insegnamento
curricolare tradizionale. Da questo punto di vista, quindi, sarebbero
"svantaggiati" gli italiani/italofoni.
Ma "svantaggiati" sono, invece, gli "stranieri" e
da tempo. Nelle scuole in cui sono stati istituiti laboratori di italiano
per gli studenti stranieri, ci si preoccupa di insegnare la cosiddetta
"lingua per lo studio". Si riconosce ormai che la priorità,
dal punto di vista dell'apprendimento della lingua italiana, è
innanzitutto quella di dare ai ragazzi stranieri uno strumento per socializzare
e, in un secondo momento, si passa ad insegnare la "lingua per lo
studio", cioè la lingua che si usa nei libri di testo, che
usano gli insegnanti a scuola nelle spiegazioni e quella che dovrebbero
usare gli studenti per esporre ciò che hanno appreso.
E qui veniamo di nuovo a confrontare le competenze dei ragazzi stranieri
e di quelli italiani: succede spesso che questi ultimi non possiedano
la lingua dello studio e non siano in grado di capire il linguaggio dei
libri di testo e degli insegnanti né, tanto meno, siano in grado
di esporre in maniera appropriata quanto apprendono. Si tratterebbe, allora,
di prendere atto di questo problema e di intervenire per risolverlo istituendo
dei laboratori di lingua per lo studio per tutti gli studenti e non solo
per gli stranieri.
L'ingresso all'università prevede, oltre a una prova di "ammissione"
(che, giustamente, non differenzia fra studenti italiani e studenti stranieri)
divisa in tre parti: cultura generale, italiano e, per ogni facoltà,
la verifica di conoscenze più specifiche di carattere linguistico,
terminologico e concettuale. Se all'università si considerano sullo
stesso piano stranieri e italiani, perché non farlo prima, almeno
per quanto riguarda la lingua dello studio, sia nella scuola secondaria
di primo e secondo grado che (perché no?) nella scuola primaria?
Sembra che, dal punto di vista linguistico, si pretenda più dagli
stranieri che non dagli italiani.
IL PROGETTO VRAL
Une Voie Romaine à l'Apprentissage des Langues :
promotion de l'apprentissage des langues dans une perspective plurilingue
et pluriculturelle |
Il progetto VRAL si inserisce nell'ambito del
progetto Socrates Lingua2. Il gruppo ideatore, proveniente da Italia,
Francia e Romania, è partito dall'idea che comuni radici
linguistiche possano favorire e agevolare l'intercomprensione nel
campo dell'oralità anche in bambini tra gli 8 e gli 11 anni.
In particolare, nell'affrontare la problematica dell'intercomprensione,
gli ideatori del progetto sono partiti dalla constatazione che tutte
le ricerche e le loro applicazioni didattiche finora conosciute
vertono sul versante della comprensione dello scritto, rovesciando
paradossalmente quello che da tutti gli studi di linguistica e di
glottododattica è considerato l'itinerario naturale dell'apprendimento
di L2, itinerario che parte dalla comprensione orale per arrivare,
attraverso la produzione orale attiva e l'abilità della lettura,
alla capacità di elaborare prodotti scritti.
I partner coinvolti sono stati: il CRT Lingue Torino, il Dipartimento
di Scienze del Linguaggio dell'Università di Torino, l'Istituto
Pedagogico di Bucarest, l'Università di Provenza, Centro
di Lettere e Scienze, il DARIC-Aix Marseille, la Direzione Didattica
di Susa, l'École Saint-Blaise di Briançon, la Scoala
n° 89 Nicolae Labis di Bucarest.
Su indicazione del gruppo di Progetto, durante il primo anno gli
insegnanti delle tre scuole hanno elaborato una serie di dialoghi
e monologhi nelle tre lingue secondo una sequenza graduale di complessità,
ponendo speciale attenzione all'uso di un lessico semplice e di
uso quotidiano e all'opportunità di far emergere elementi
facilitatori dell'intercomprensione.
Durante lo stesso anno i responsabili scientifici del Progetto hanno
elaborato una scheda sociolinguistica per definire meglio il profilo
dei destinatari della sperimentazione e alcune altre schede per
gli insegnanti sperimentatori ed osservatori, indicanti alcuni stimoli
finalizzati "alla verifica del progresso nella comprensione,
[…] degli elementi che indicano il passaggio dalla comprensione
globale alla comprensione via via più analitica."
Tutto il materiale raccolto ed utile alla sperimentazione è
stato raccolto in un DVD, nel quale i dialoghi e i monologhi sono
interpretati da bambini italiani, francesi e romeni, di età
pari a quella dei destinatari.
La sperimentazione si è svolta nei tre paesi durante il secondo
anno. Sono state individuate cinque classi per ogni paese nei cui
curricula fosse inserito l'insegnamento formalizzato come L2 di
una delle lingue romanze del progetto e sono stati formati gli insegnanti
sperimentatori ed osservatori della sperimentazione.
I bambini (15 per ogni gruppo) sono stati sottoposti all'ascolto
e alla visione dei dialoghi e dei monologhi.
Gli incontri, uno ogni settimana per dieci settimane, sono iniziati
con la proposta della lingua studiata a scuola. Dalla terza situazione
comunicativa si è passati alla lingua non studiata, come
primo ascolto.
Ogni tipo di ascolto (voci sole del dialogo, audio/video del dialogo,
voci sole dei due monologhi, audio/video dei due monologhi, audio/video
dei due monologhi con labiale in primo piano) è stata seguita
da una interazione tra sperimentatore e allievi, debitamente annotata
dagli osservatori sulle schede appositamente fornite nel DVD. Ogni
gruppo di allievi è stato esposto all'ascolto di due lingue.
I dati forniti dalle schede di osservazione sono stati affidati
all'Università di Torino che ne ha iniziato una prima elaborazione
e che ha organizzato nel settembre 2006 un Seminario Internazionale
per presentare il Progetto alla comunità scientifica e per
riflettere sulle più recenti acquisizioni in tema di intercomprensione.
Entro la fine dell'anno si svolgeranno nei tre paesi i seminari
di "diffusione" del prodotto.
Al termine del Progetto occorre precisare che il VRAL non ha prodotto
come risultato uno strumento immediatamente spendibile nella scuola
in termini esclusivamente didattici, ma ha piuttosto tracciato una
pista, individuato e indicato una metodologia per favorire l'intercomprensione
e mettere in atto le strategie indispensabili per imparare a riconoscere
e a sfruttare le proprie pre-conoscenze anche quando sono ancora
allo stadio latente ed implicito.
Anna Rostagno |
A questo proposito mi viene in mente un episodio: anni fa stavo insegnando
l'uso del condizionale e del congiuntivo a un gruppo di tedeschi con i
quali, scherzando, si parlava usando solo frasi ipotetiche con il congiuntivo
e il condizionale; tornando a casa, una sera, ero stata fermata da un
ragazzo che mi aveva chiesto "Potesse dirmi l'ora?". Questo
mi aveva messa in crisi: quel ragazzo era certamente italiano, ma sicuramente
i miei studenti tedeschi non avrebbero commesso un errore come quello;
stavo forse insegnando una lingua che alcuni italiani non erano in grado
di parlare? La comunicazione era stata efficace (infatti avevo capito
perfettamente la domanda del ragazzo), ma se uno straniero si rivolgesse
a noi in quel modo penseremmo che non parla bene italiano e che ha ancora
molta strada da percorrere per arrivare all'integrazione linguistica,
mentre di un italiano si sorride e non si pensa a quanto possa essere
(e sia) grave che qualcuno sia privato della capacità di esprimersi
correttamente.
A volte ho l'impressione che una parte del problema costituito dalla presenza
di un gran numero di stranieri nelle aule delle nostre scuole non sia
altro che un pregiudizio circa lo svantaggio di chi non conosce l'italiano
mentre si potrebbe rovesciare la situazione e vedere, la posizione di
vantaggio che hanno, invece, gli studenti che conoscono altre lingue.
Pensiamo a quale era la situazione in passato, quando entravano nella
scuola elementare bambini che parlavano il dialetto a casa, a volte esclusivamente
dialettofoni: per molto tempo questi bambini sono stati considerati svantaggiati
e, anche oggi, non tutti gli insegnanti valorizzano le competenze plurilingui
dei loro allievi, come se la scuola italiana non riconoscesse altro plurilinguismo
se non quello legato alle lingue straniere tradizionalmente studiate in
Italia (francese, inglese, tedesco, spagnolo). Sembra ancora che, nella
scuola italiana, la gerarchia di valore veda al primo posto l'italiano,
al secondo posto le lingue straniere tradizionalmente studiate, al terzo
posto le lingue "extracomunitarie" e, all'ultimo posto, i dialetti
e le lingue minoritarie parlati in Italia. Il valore delle lingue, però,
non è intrinseco e può solo essere un valore d'uso correlato
alle diverse situazioni: parlare e capire il patois, a Cogne, ha più
valore e più utilità che non parlare l'inglese, così
come conoscere e saper usare il linguaggio burocratico, quando si è
all'ufficio delle tasse, ha più valore che non conoscere il linguaggio
dei medici. È fondamentale che si riconosca, anche ufficialmente
all'interno della scuola, il valore relativo di ogni conoscenza linguistica
e, allo stesso tempo, il valore assoluto della conoscenza di una o più
lingue. Si diceva che l'insegnamento del latino servisse a strutturare
il modo di pensare e aiutasse l'apprendimento di altre lingue e di altre
materie, ma non si tratta solo del latino (che non è né
meglio né peggio di altre lingue), qualsiasi conoscenza linguistica,
se valutata e apprezzata correttamente ha la stessa funzione.
Mi pare che ci sia molto lavoro da fare per l'educazione linguistica degli
stranieri e dei non stranieri. Da un lato si tratta di educare al plurilinguismo
tout court, senza dare più valore a una lingua piuttosto che a
un'altra (così come si dovrebbe educare all'espressione, senza
dare valore a un mezzo più che a un altro - mettendo sullo stesso
piano espressione orale ed espressione scritta, espressione attraverso
la musica o il canto, espressione attraverso la pittura, ecc.).
Ma se molti insegnanti hanno già cominciato a valorizzare il patrimonio
culturale diverso portato dai ragazzi stranieri e la scuola, da questo
punto di vista, è diventata il primo luogo di pratica interculturale,
di eliminazione dei pregiudizi e di accettazione della diversità
in un ambito assolutamente non razzista, perché non dovrebbe essere
possibile anche compiere il passo successivo ed accettare la diversità
linguistica come un patrimonio da valorizzare? In alcune scuole di Torino
questo si fa già organizzando, per esempio, corsi di arabo rivolti
ai figli di immigranti arabofoni che vogliano mantenere la loro lingua
e succede che si iscrivano più figli di genitori italiani che non
figli di genitori che parlano arabo… Non potrebbe essere questa
una delle strade da percorrere per arrivare alla rivalutazione del patrimonio
linguistico dei figli degli immigrati?
Allo stesso modo, mi pare che ci sia ancora molto da
fare per l'integrazione: integrazione degli stranieri nella scuola e nella
società, ma, anche e soprattutto, integrazione della scuola nella
società (argomento di cui si è cominciato a discutere una
quarantina di anni fa, molto prima che arrivassero tanti immigrati stranieri
nelle nostre scuole). L'insegnamento integrato della lingua di cui parlavo
all'inizio funziona se fatto con la coscienza di farlo, rendendosi conto
che si deve modificare la lingua che si usa e che si devono avere in mente
obbiettivi linguistici oltre che curricolari di altro genere. Ma se si
decidesse di praticare l'insegnamento integrato con consapevolezza e di
praticarlo non solo per quanto riguarda le lingue, ma anche per quanto
riguarda le altre materie curricolari (usando le necessarie nozioni di
matematica quando si parla della densità della popolazione in geografia,
per esempio), se si andasse verso l'integrazione delle diverse materie
e delle diverse nozioni all'interno della scuola e se poi si cercasse
di integrare di più la scuola nella società (cosa vuol dire
in termini storici, sociali ed economici, per esempio, che la Valle d'Aosta
ha una densità di 36,6, mentre la Campania ha una densità
di 415,9 abitanti per chilometro quadrato? e cosa vuol dire questo per
Gaetano e per Enrico?) allora, forse, anche il problema della lingua assumerebbe
una rilevanza diversa e non sarebbe solo più un problema della
scuola.
Vorrei concludere tornando alla domanda iniziale: siamo proprio sicuri
che il problema sia l'insegnamento dell'italiano agli stranieri? Siamo
proprio sicuri che il problema riguardi solo gli stranieri? Siamo proprio
sicuri che non ci stiamo nascondendo dietro un problema la cui drammaticità
è tale solo per i singoli insegnanti che si trovano a doverlo affrontare
quasi da soli?
Ma siamo proprio sicuri che non stiamo nascondendo altri problemi, di
portata più generale, dietro quello dei ragazzini stranieri che,
a scuola, non sanno o non sanno abbastanza bene l'italiano?
Stella Peyronel
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