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La
chiave
Chi ha vissuto nel Veneto degli anni ‘30 può
capire che cosa voglia dire questo racconto e quanta angoscia ci si portasse
dentro mentre si vivevano gli avvenimenti che sto per narrare.
Al mio paese tutti parlavano veneto, tranne forse qualche persona ligia
ai dettami del fascismo o che volesse fare risaltare il suo alto livello
culturale rendendosi ridicola alla popolazione intera. Si parlava il veneto
in casa, in chiesa, nelle strade, al bar, nelle feste; si parlava veneto
tra di noi bambini che lo utilizzavamo a scuola come nel resto della giornata.
Ma in nome della creazione di una lingua nazionale, di un distorto senso
didattico che vedeva l’uso del dialetto come un problema per l’apprendimento
dell’italiano (beh, le doppie le sbagliavamo anche quando parlavamo
italiano!) e dello “sviluppo culturale della popolazione rurale”,
ad un certo punto ci è stato proibito di parlare il dialetto a
scuola.
Un problema enorme! Si trattava di dimenticare la nostra lingua per parlarne
un’altra, una nuova, una che raramente sentivamo. Si trattava di
dare un nome nuovo alle cose, alle azioni che facevamo e agli amici stessi
che mai avremmo chiamato Domenico perché “Menego” ci
bastava per capirci o mai Antonio perché per noi “Toni”
era il suo nome. Insomma era un mondo veneto che si voleva trasformare,
attraverso la scuola, in un mondo italiano.
Noi un po’ ce la ridevamo e un po’, invece, eravamo guardinghi.
Era per questo che i crocchi si formavano sempre lontano da porte o finestre
e che occupavamo gli angoli del cortile o ci nascondevano dietro gli alberi
per fare quella terribile cosa proibita: parlare in dialetto.
Ma ecco il colpo di genio dei nostri insegnanti: il gioco della chiave.
Il disegno era semplice e diabolico: non riuscendo a controllarci volevano
trasformarci tutti in spie.
Il gioco era
banale: al mattino l’insegnante consegnava una piccola chiave, quelle
da scrivania, non di quelle piatte e sottili di oggi, ma sufficientemente
piccola da passare inosservata, in assoluta segretezza ad un alunno che
aveva sentito parlare il dialetto. Questi, girando per la classe e per
i cortili poteva passare la chiave, sempre di nascosto, a colui che avesse
sentito parlare in dialetto. Alla fine della giornata, marcata dalla campanella
che il bidello agitava per segnalare l’orario di uscita alle dodici
e mezza, colui che fosse stato trovato in possesso della chiave sarebbe
stato punito con punizioni “esemplari” che quasi sempre consistevano
nello scrivere: “Non devo parlare in dialetto”. E quando la
punizione toccava ad uno di noi fratelli, mia mamma, poco istruita, ma
piena di buon senso, ci diceva: “Te lo gavea dito de stare tento”
(Te lo avevo detto di stare attento), ovviamente in veneto. Non ci sgridava
per averlo fatto, ma perché ci eravamo fatti “beccare”
e questo bloccava qualunque nostra lamentela rispetto alla punizione.
Tutto semplice e banale, all’apparenza, ma non così scontato.
A parte la tremarella che aveva colpito i più insicuri e le bambine
(erano gli anni trenta e noi femmine ancora non avevamo la grinta necessaria
a ribellarci ai nostri maschietti) c’erano diverse crepe nel sistema.
Una prima era quella di accordarci tra di noi per dare la chiave ai “secchioni”
o ai “cocchi del maestro”. Certo, questo insospettiva gli
insegnanti, ma non potevano fare altro che prendere atto della situazione
dato che, come proclamavano, “La legge è uguale per tutti”.
Alcuni di noi, poi, si erano specializzati nel far scivolare in modo insensibile
la chiave nelle tasche degli altri. Se qualcuno non si fosse accorto della
chiave, l’avrebbe incoscientemente portata fino alla fine della
giornata lasciando gli altri liberi di respirare. Questo era più
facile farlo con noi bambine perché le ampie e facilmente raggiungibili
tasche dei grembiuli ci rendevano poco sensibili. Ma il timore di avere
la chiave era tale che, dopo poco tempo, si era cominciato a toccarsi
sistematicamente le tasche anche perché spesso, assieme alle frasi
da scrivere, ci scappava anche qualche scappellotto “orale”.
Altri la usavano scientemente per vendette personali. Guai a fare dispetti
a qualcuno o a farsi un nemico. Potevi stare sicura che la chiave, parlassi
dialetto o no, te l’avrebbe rifilata, in un modo o nell’altro.
C’erano
anche le “associazioni a delinquere” che prendevano di mira
alcuni nostri compagni e che utilizzavano la chiave per lottare contro
il gruppo nemico.
Nei periodi di massima coesione eravamo riusciti ad escogitare un sistema
per cercare di turlupinare il maestro. La chiave veniva “persa”
in cortile e così, alla fine delle lezioni, nessuno ce l’aveva
in tasca. L’indagine, necessariamente approssimativa, perché
non si era in grado di rilevare le impronte digitali, finiva inevitabilmente
con qualcuno che non ricordava più a chi l’avesse data. Del
resto, neppure l’insegnante poteva insistere eccessivamente perché
la segretezza del gesto era un fatto indispensabile per la riuscita del
gioco e portare in piazza i passaggi tra l’uno e l’altro poteva
rivelare trame. Ma anche questa si è rivelata una cuccagna effimera
perché, dopo, per due o tre volte, il compito di punizione è
stato dato a tutta la classe e così ci siamo trovati tutti a dover
scrivere cento volte “Non devo parlare in dialetto”. Il trucco
è stato abbandonato perché inefficace.
Qualche volta abbiamo anche tentato di scrivere a più mani le cento
frasi di punizione. Ma la grafia ci ha traditi.
Infine, i più rassegnati, o i più saggi, per così
dire, “si portavano avanti con il lavoro”. Sapendo che prima
o poi sarebbe toccato a tutti, compilavano preventivamente qualche pagina,
magari durante l’intervallo. Così, al momento della punizione,
una parte del compito sarebbe risultata già fatta.
Mi è restato dentro un senso di angoscia e di rabbia per quella
che mi sembrava un’assurda ingiustizia. Non so se lo fosse davvero,
ma io, quando ci penso ora, ancora la vivo così e ricordo l’odio,
vero odio, che provavo per quella chiave, chiunque l’avesse, quando
si arrivava alla fine delle lezioni.
E, comunque, ho 82 anni, vivo ad Aosta da 56 anni eppure parlo ancora
il dialetto con i miei figli e con coloro che lo capiscono e, quando torno
al mio paese, sento parlare tutti dialetto tranne coloro che vogliono
fare risaltare il loro alto livello culturale rendendosi ridicoli alla
popolazione intera.
Non ha funzionato.
Giuseppina Verza
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