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L'armadio
in corridoio
Ha ancora un ruolo nella scuola
la biblioteca scolastica? L’autrice ne traccia un profilo e ne individua
le potenzialità per permettere al libro di non venire soppiantato
da elettronica e indifferenza.
La lente dell’eterogeneità mi pare l’unica attrezzata
per descrivere la situazione attuale delle biblioteche scolastiche. È
indispensabile, però, liberarci dalla zavorra dei luoghi comuni
che appesantiscono chi si introduce nel discorso senza la chiave storica
fondamentale, invece, se si vuol capire perché nel nostro paese
sarebbe opportuno parlare di “emergenza lettura”.
Molti sono i luoghi comuni attorno alla biblioteca scolastica: “È
un armadio chiuso nel corridoio della segreteria” ebbe a definirla
la professoressa Olga, intelligente e ironica corsista durante una lezione
d’aggiornamento. Spesso ho avuto modo di citarla nelle occasioni
che mi sono state offerte di ragionare sull’argomento: l’ho
plagiata perché non ho mai trovato un profilo più calzante
per ritrarre una struttura negletta o ignorata, percepita come del tutto
inutile e inutilizzabile nella didattica moderna.
Ma quante sono, davvero, in Italia le biblioteche scolastiche che possono
riconoscersi in quella impietosa definizione? Moltissime: la maggioranza,
temo. Da qui il luogo comune, ancora assai diffuso, attorno alla loro
sostanziale non indispensabilità; d’altra parte se stanno
“chiuse”, se possono essere contenute in “un armadio”,
se vengono collocate (magari, immaginiamo, dopo un lungo peregrinare)
nel luogo meno pedagogico della scuola (il “corridoio della segreteria”)
è probabile che appaiano a docenti e a studenti come un monumento
al superfluo, fastidioso persino da alienare. Uno scaffale dimenticato
e da dimenticare nell’affanno del quotidiano. “Con tutto
quel che abbiamo da fare… ci manca anche la biblioteca”
sbottava al mio telefono qualche tempo fa il preside di un grande liceo
scientifico, approfittando della confidenza e della stima reciproche.
Uomo colto, si badi, ma oppresso, come tutti, dalle urgenze della scuola
un po’ disorientata di questi ultimi anni.
Quel che non c’è su
Google
Al luogo comune dell’inutilità si correla
subito quello della vetustà: montagne di tomi che non legge nessuno,
accumulati in anni e anni di acquisti (i nostri antenati avevano le loro
bizzarrie), di donazioni (altra grana amministrativa), di accorpamenti
tra istituti; centinaia di volumi lontani dagli interessi dei giovani
d’oggi e anche dalle modalità attuali di ricerca, tutte esaurite
ormai nel lancio di Google e quel che lì non c’è,
non c’è e basta. Anche il luogo comune della vetustà
è ben radicato e, più volte, ho sentito affiorare il progetto
di liberarsi “dei libri vecchi”, far posto ad altro, almeno
alla narrativa contemporanea che piace ai ragazzi, i Moccia, Il Codice
da Vinci, gli Harry Potter: se solo le biblioteche pubbliche
avessero spazio e voglia di prendersi l’annoso ciarpame…
Appare ovvio che anche i rari frequentatori di tali stanze (stanzini,
spesso) sono personaggi che il luogo comune descrive come appartenenti
ad un limbo lontano dai comuni mortali: docenti in pensione e in vena
di volontariato, insegnanti spinti ad un controllo di traduzione o ad
una rapida compulsazione di dizionari; non è un posto per gli studenti,
se non proprio costretti dalle circostanze, magari in attesa delle lezioni
pomeridiane o ‘non avvalentisi’ dell’insegnamento di
religione. Lo spiritoso giornaletto di uno storico liceo della mia città
ha pubblicato persino un racconto sul fantasma che dimora in biblioteca,
un illustre grecista trapassato, il quale aveva schedato con limpida calligrafia
migliaia di titoli, ivi compresi preziosi esemplari provenienti da un
vicino convento a suo tempo confiscato.
Insomma, la biblioteca scolastica è (nei luoghi comuni, beninteso)
un posto poco sano, dove si va se proprio non si ha di meglio da fare.
Francamente, è persino fuori moda: quale genitore, prospettando
il futuro del proprio virgulto, se lo immagina chino ore ed ore sulle
pagine? Chi vorrebbe un piccolo Marcel (Proust) che lascia i compagni
di gioco per rifugiarsi su un pero in compagnia di un libro? O un Giacomino
(Leopardi) che a nove anni è già ingobbito, ma saluta il
genetliaco paterno con perfetti alessandrini? La lettura
è sorella del silenzio, della solitudine, della lentezza: tutte
qualità (o difetti, a seconda delle opinioni) lontani mille miglia
dalle nostre consuetudini, ancorate a granitici convincimenti educativi
attorno alla socialità e al salutismo.
Tutta colpa dell’autonomia?
Come si sa, i luoghi comuni sono banalizzazioni, ma difficilmente
sono privi del tutto di una qualche verità. E, infatti, sarebbe
falso sostenere che la descrizione della prof. Olga riproduca una realtà
minima, relegata magari in qualche scuoletta del Sud Italia (altro luogo
comune). L’eterogeneità, dicevo, è peculiare del nostro
panorama: si può incontrare un istituto dotato di moderna bibliomediateca
con tutti i crismi, utilizzata e affollata; non è però affatto
improbabile che, a distanza di trenta chilometri (talvolta anche meno),
ci sia una scuola che da anni non spende un penny per alimentare la propria
dotazione bibliografica. Basta cambiare comune, provincia, preside, corpo
docente…
Quando denuncio questa che a me pare un’inaccettabile incongruenza,
spesso mi sento rispondere con un altro luogo comune: è l’autonomia.
Di chi dunque le responsabilità di una geografia così difforme
e accidentata? Com’è possibile che in una scuola la biblioteca
diventi il cardine della didattica e che in un’altra se ne possa
tranquillamente fare a meno? Sono forse figli di un dio minore gli utenti
della seconda? O forse di un dio maggiore, perché lì sono
tutti in possesso di tutti gli strumenti per la ricerca e capaci
tutti di farla per conto proprio? Ecco un altro luogo comune: “A
casa hanno il computer, inutile spendere soldi pubblici per queste cose;
qui siamo in una zona benestante, siamo poveri solo noi insegnanti”.
Credo siano interrogativi legittimi, a cui spesso si risponde con l’ennesimo
luogo comune trovando un responsabile: colpa del preside tutto tecnologia
e niente libri; merito dell’insegnante di lettere che “è
una vera santa: senza pretendere quattrini si sta catalogando quattromila
volumi”; colpa del bibliotecario scolastico “che è
un tipo strano”; merito del nuovo bibliotecario scolastico che “ha
cambiato in breve le cose da così a così”; colpa delle
famiglie che non sganciano dieci euro per un tascabile, “ma vestono
i figli tutto firmato”; colpa del ministero che non dà i
soldi; colpa degli editori che si arricchiscono con la manualistica, ma
non regalano libri, e così via.
Anche la biblioteca scolastica risente, è ovvio, della qualità
e della professionalità delle persone; affidarsi però esclusivamente
alle eccellenze degli individui o essere in balia dei loro limiti mi pare
trascenda di gran lunga un beninteso principio di autonomia.
Dalla politica…
L’analisi del problema deve partire da lontano,
se vuole tradursi in azioni sul vicino. Il Ministero della cultura spagnolo
dedica alla biblioteca scolastica un sito che si apre con un bilancio
sui venticinque anni di intensa attività nella promozione della
lettura e scrive: “Va siendo hora de realizar una autocrítica
honesta y constructiva porque lo que es evidente (así lo demuestran
las encuestas y el "clima" social) es que algo no funciona”.
Si percepisce non poca fatica nel ricostruire un percorso fatto per piccoli
passi e questo è già del tutto inusuale nei siti ufficiali
che tendono un po’ ovunque ai toni trionfali. Qui si parla di un
quarto di secolo che ha visto passare governi di diverso orientamento,
che ha avviato riforme e ritocchi dell’istruzione, che ha rinnovato
il sistema di pubblica lettura, caratterizzato da forze autonomistiche
assai più radicali delle nostre, portandolo agli standard internazionali.
Con l’ultimo decennio, in particolare, ha preso il via il Plan
de fomento de la lectura nel quale appaiono coinvolti sia il mondo
bibliotecario sia quello della scuola. Un piano che il sovversivo
Zapatero si è trovato in fieri, ma non ha mai pensato
di smantellare.
Mi pare che l’interesse dell’esempio spagnolo stia nell’impegno
critico (autocritico) e nella continuità d’azione i quali
sono invece gli anelli deboli della politica della lettura nel nostro
paese che ha seguito un andamento altalenante, a singhiozzo, modulato
secondo gli umori culturali e sempre, comunque, con scarsa propensione
per le verifiche.
Guardando al passato, si scopre, infatti, che le biblioteche scolastiche
sono state spesso corteggiate dall’editoria e dalla politica, entrambe
capaci di intuire l’enorme potenziale, economico ed ideologico,
insito nella circuitazione di libri in tutte le scuole. Ben lo aveva capito
il fascismo che intervenne con il duplice obiettivo di sostenere l’industria
della stampa e nel contempo di controllare, anche attraverso le letture,
l’educazione dei giovani.
In epoca di ricostruzione, l’editoria ha goduto di sostanziose provvidenze
di Stato attraverso i Centri di lettura che riversarono una marea di libri
nelle “bibliotechine”. Nonostante il sapore populista dell’operazione,
(oggi valutata come assolutamente fallimentare), non sarei troppo severa
sull’efficacia pedagogica. Nell’Italia degli anni ’50
e ’60, l’accesso al libro era un assoluto privilegio, come
ben testimoniavano trasmissioni televisive coeve quali Chi legge?
di Mario Soldati e la celeberrima Non è mai troppo tardi.
Fin quando le condizioni sociali sono rimaste quelle e i programmi dei
vari ordini e gradi sono rimasti prescrittivi e aderenti ad un condiviso
canone, i libri che arrivavano dai Centri a scuola corrispondevano alle
letture consuete di ogni ragazzo: Cuore a otto anni; Piccole
donne a dieci; David Copperfield a quattordici; Le mie
prigioni a sedici.
Dopo, quando sotto la pressione degli anni ’70 è venuta meno
la rigidità (foriera però anche di sicurezza), allora si
sarebbe dovuto reinventare tutto: a scuola avevano smesso di arrivare
“i pacchi blu” e le “bibliotechine” sono implose;
se una funzione l’avevano svolta nel dopoguerra, all’inizio
degli anni ’80 si trovavano senza un modello di evoluzione e senza
un ruolo preciso da svolgere. Per giunta, nelle regioni del centro-nord,
cominciava a fiorire la biblioteca di ente locale delineando, con notevole
ritardo, ma non senza vivacità, una sorta di via italiana alla
public library.
L’equivoco è stato immediato: a che sarebbero servite ormai
le biblioteche scolastiche se attorno stavano crescendo in bellezza e
con tutte le cure degli amministratori locali, library nuovissime
e accoglienti, con spazi attenti ai giovani e ai loro consumi culturali,
assecondati spesso in esplicita contrapposizione ai diktat della scuola
percepita come ammuffita, autoritaria e fuori dal tempo? Per alcuni anni,
in un paese sempre collocato tra i meno lettori d’Europa, si è
assistito alla profonda inimicizia, più spesso venata di indifferenza,
tra le uniche due agenzie deputate alla promozione della lettura.
… alla scuola
Il problema vero è la totale estraneità
degli insegnanti da un tale processo: prosciugatosi il rubinetto dei rifornimenti
ministeriali, le scuole hanno dovuto sopravvivere per quasi vent’anni
tra i finanziamenti risicati e la pressione dell’innovazione tecnologica.
Anziché collocarsi al centro di una trasformazione epocale, la
biblioteca è stata spesso accantonata: non è entrata nei
percorsi di formazione iniziale dei docenti e assai poco, se non per fasce
minoritarie e anticipatrici, in quella in servizio.
Negli anni in cui si profetizzava, anche assai autorevolmente, l’imminente
scomparsa del libro di carta, così ingombrante e così fragile
al confronto dei supporti elettronici, pochi hanno intravisto per tempo
il ruolo nevralgico che una moderna biblioteca scolastica può giocare
nei processi d’innovazione didattica.
Anche la figura del bibliotecario scolastico, così come usciva
dal pur benemerito progetto di legge Bosi Maramotti, era sostanzialmente
un bibliotecario calato nella scuola piuttosto che una nuova figura professionale,
forte di competenze plurime, capace di costruire un ambiente per la didattica,
un luogo e un non luogo dove sia possibile per i ragazzi di oggi
imparare, leggere, fare ricerca. Una figura professionale che, come una
volta ha detto il pedagogista Enzo Catarsi, conosca “i Dewey,
entrambi”.
Il resto del mondo, peraltro, andava avanti: l’IFLA (International
Federation of Library Associations), massima autorità mondiale
in campo biblioteconomico, ha lavorato anni per emanare delle Linee
guida, producendo due documenti in proposito, il primo sui servizi
e gli standard, il secondo sulla natura (pedagogica, si badi) della biblioteca
scolastica. Qui, come d’altronde era prevedibile, lo sviluppo tecnologico
appare una potente leva e il profilo di biblioteca che ne esce coincide
con una struttura moderna, che guarda con competenza e abilità
fuori da se stessa, che si mette in rete, che fa rete, che impara il prezioso
linguaggio delle sinergie. Altro che scaffale chiuso, altro che libri
ammuffiti, altro che guerra tra media.
In Italia domani…
Durante il ministero Moratti è stato avviato il
progetto Biblioteche nelle scuole, rivolto a cinquecento scuole
significative per pregio del posseduto librario, con l’intento di
inserirlo nel sistema bibliotecario nazionale e renderlo fruibile per
una più vasta utenza.
Siamo arrivati alla meta? Forse non siamo neanche a metà strada:
il ministero del governo di destra si è mostrato insensibile al
problema della lettura e l’ultima tranche di quello di
sinistra, con il dicastero guidato dal linguista Tullio De Mauro, non
si era di certo sbilanciato con un impegno particolare sull’argomento.
Ancora una volta siamo davanti ad una discontinuità, che inficia
parte dei risultati conquistati: mi capita di connettermi a siti di biblioteche
scolastiche revisionati nel 2001, data dell’ultima spinta ministeriale.
E se il tempo d’azione dell’attuale ministero non è
ancora sufficiente per autorizzare bilanci, certo va rilevato che la lettura
non appare in cima ai pensieri di viale Trastevere. Si vocifera attorno
all’imminente erogazione di mille euro a scuola per acquisto libri:
sarebbe il ritorno ad una logica distributiva a pioggia, con una cifra
che è irrisoria per le biblioteche che debbono attrezzarsi in tecnologie
o in arredi e che farà al massimo entrare un centinaio di libri
nelle scuole che ancora identificano la biblioteca con l’“armadio
chiuso” della prof. Olga. Gli unici contenti possono dirsi gli editori,
soprattutto i più potenti: ancora una provvigione statale, non
se ne vedevano da tempo.
Non vi è dubbio che una politica sensibile all’evoluzione
della biblioteca scolastica potrebbe affrontare la situazione con un’attenta
valutazione dell’oggi e costruendo un piano per il domani; le scuole
hanno dimostrato intelligenza e creatività gestionale: se ne potrebbero
dedurre linee risolutive valorizzando le competenze reali.
Paradossalmente, si fanno numerosi i segnali di allerta provenienti dal
mondo esterno alla scuola, del tutto impensabili fino a dieci anni fa.
Il documento conclusivo degli Stati generali dell’editoria
del 2006 individua nel potenziamento del sistema di pubblica lettura,
ivi compresa la scuola, un elemento precipuo dello sviluppo e, all’esordio
del 2007, è nato il Centro del libro presso il Ministero dei Beni
Culturali.
Ancora una volta dunque siamo ad un bivio: da un lato alcune biblioteche
nate con il Piano nazionale del ’99 cominciano a sgretolarsi,
prive di personale, di finanziamenti e, soprattutto, di prospettive di
crescita; dall’altro la società civile sembra accorgersi
delle potenzialità sociali e culturali di una scuola che sa far
leva su una moderna bibliomediateca. Non abbiamo molto tempo, bisogna
investire subito, con continuità.
I risultati si vedranno solo domani e forse questo condiziona le scelte
dei politici desiderosi tutti di vedere risultati a breve scadenza. Preoccupazione
comprensibile, per carità. Però l’ambizione di porre
fondamenta e radici, lasciando al futuro le pareti e il tetto, potrebbe
intrigare i buoni amministratori. L’obiettivo d’altronde è
proprio alto: eliminare gli scaffali chiusi nei corridoi delle segreterie.
Il progetto lo si potrebbe intitolare proprio così “Tutti
gli armadi alle segreterie”. Avrebbe un’eco un po’
rivoluzionaria e molti, forse, non capirebbero subito. Ma la prof. Olga
sarebbe subito contenta. E noi con lei, questo è sicuro. Gli altri,
verranno.
Carla Ida Salviati
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