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Il
corpo che legge
Come riusciamo a leggere ad
alta voce, quali meccanismi sottende la lettura? Ecco alcune tracce interpretative
che possono offrire piste di lavoro.
Quando iniziamo a leggere un testo, abbiamo quasi sempre due alternative:
possiamo posare gli occhi sulle prime righe e, silenziosamente, incominciare
una lettura raccolta, profonda e immobile; oppure possiamo provare a dare
voce alle parole che ci scorrono sotto gli occhi. In questo secondo caso,
facciamo quello che si chiama una lettura a viva voce del testo.
Se consideriamo brevemente le due situazioni, ci rendiamo conto che la
differenza decisiva tra la prima lettura e la seconda si gioca soprattutto
sul piano del coinvolgimento del nostro corpo. Mentre nella prima situazione
tutto il nostro essere fisico, tranne gli occhi, è immobile, oppure
fa movimenti non direttamente (o almeno non intenzionalmente) connessi
alla lettura, nel secondo caso, invece, tutto il corpo è implicato
in un movimento, in una contrazione, in una spinta.
Quando parliamo di movimento, non intendiamo soltanto la mimesi del corpo
del lettore che segna i picchi d’enfasi con l’ondeggiare del
busto o alzando il pugno o con la smorfia del viso. Non si parla soltanto
di ciò che farebbe un attore professionista, che in piena consapevolezza
di sé interpreta il testo. Si tratta, prima di tutto, della contrazione
del corpo che spinge l’aria fuori da sé, trasformando il
flatus, il soffio del respiro che incessantemente segna il vivere
umano, in parola, sotto la guida del testo. Questo è il primo movimento,
dunque, inevitabile e necessario alla lettura a viva voce.
Tale movimento, anche se il senso comune non è sempre intenzionato
a riconoscerlo, è già un’interpretazione, ed è
forse più radicale della drammatizzazione dell’attore, poiché
investe la globalità del corpo del lettore, anche quando il lettore
non ci pensa affatto; persino quando non ne è cosciente. Il corpo
diviene da subito tanto lo strumento quanto il campo su cui si realizza
la relazione tra parola (lingua) e suono (voce). Di più: è
la voce stessa che si realizza come corporeità attraverso un dettato
testuale. E tanto più si è disposti ad accettare questa
centralità del corpo, quanto più si ammette la finale insufficienza
del testo in sé. Povero (non privo, ma povero) di segni che diano
sostanziale misura di che cosa esso diventi nella voce, il testo attende
per la sua piena realizzazione la presenza corporea. Tanto che persino
un enunciato apparentemente inequivocabile come “Lasciami stare!”
può innescare (meglio: può realizzarsi in) un numero indefinito
di interpretazioni e può corrispondere a un numero infinito di
differenti letture. Ed è l’intenzione del lettore, attraverso
il corpo e il suo movimento a fare che “Lasciami stare!” diventi
ora un ordine, ora una supplica, ora un invito ad essere corteggiati,
ecc.
Il lettore a viva voce, dunque, fa il testo, a prescindere dalla
sua competenza e dalla sua intenzionalità drammaturgica in senso
stretto. Seduto o in piedi che sia, mentre dosa il suo fiato, centellinandolo
o esplodendolo, spinge, con la compressione della cassa toracica, con
la pressione dell’addome; controlla, poi, con i movimenti della
laringe, delle labbra, della lingua, facendo uscire l’aria ora dalla
bocca, ora dal naso. In tutto questo, il testo prende la sua forma agli
occhi e all’udito di chi ascolta la lettura; tutto questo, già,
diviene senso e innesca degli inevitabili processi di significazione profonda
negli astanti. Anche se il lettore non volesse, anche se non se ne accorgesse
affatto, i suoi uditori ascolterebbero e vedrebbero concretizzarsi le
immagini del testo, non solo in base alla fedeltà con cui viene
seguito il dettato, ma anche in base alla fisicità del lettore.
Cioè al suo essere fisico nel momento della lettura.
Walter Ong, in proposito, dice: “essendo la
voce il paradigma di ogni suono per l’uomo, il suono stesso per
propria natura suggerisce una presenza”(1). Ed è
la presenza dell’uomo che, nel caso della lettura, si realizza solo
attraverso il senso, cioè per mezzo del senso e attraversando il
senso(2): il lettore insieme a chi ascolta.
Inizia così a delinearsi una traccia che possiamo seguire nella
definizione della relazione tra corpo, voce e lingua. E questa traccia
è interessante anche e soprattutto in un contesto didattico: scopriamo
che pensare all’importanza del corpo durante l’atto della
lettura non significa soltanto andare con la mente alla lettura di un
attore professionista. Se il problema si ponesse unicamente in quei termini,
infatti, la lettura a viva voce, a scuola, significherebbe quasi soltanto
educazione alla recitazione e alla, per così dire, teatralizzazione
del testo. Invece esistono altre situazioni in cui la vocalità
diventa lettura, a partire dalle circostanze più funzionali (per
esempio quelle lavorative), per arrivare a quelle più gratuite
(la lettura intima, di un genitore a un figlio o tra due amanti). In tutti
questi casi, prima di tutto, la voce segna una presenza indispensabile
e crea, attraverso il corpo e intorno al corpo di chi legge, un ambiente
comunicativo e questo anche quando la comunicazione sia differita, e persino
quando la voce sia quella della televisione o della radio. Ciò
che interessa è la performance del comunicatore che fa,
inevitabilmente, certi movimenti col corpo per potere leggere (e per potere
dire), cioè per creare un messaggio che è fatto tanto dal
testo quanto dalla sua interpretazione(3).
Ed è per questo che in un contesto didattico, dunque, lettura a
viva voce significa prima di tutto educazione alla consapevolezza del
proprio essere fisico, riflessione sull’intimo legame che intercorre
tra esecuzione linguistica e corpo, e, infine, tra testo e soggetto. Insegnare
la lettura a viva voce vuole dire mettere un potente strumento a disposizione
del lettore e dello scrittore, ancora prima dell’attore, fondando
in classe, a contrappunto, un’etica dell’ascolto più
che un modo della drammaturgia.
Occorre fare un’altra osservazione a proposito del movimento del
corpo. Quando parliamo, di norma, non siamo consci del nostro corpo e
del suo ruolo nella realizzazione degli atti comunicativi verbali. Per
esempio, nessuno di noi, per parlare sottovoce, pensa: “adesso chiudo
la laringe, poi faccio passare in un certo modo l’aria attraverso
la bocca, ecc.”. Nessuno di noi, in preda a un attacco d’ira,
pensa di dovere fare certi movimenti o spingere l’aria in un certo
modo per aumentare il volume della voce. E questa consapevolezza è
ancora meno presente in una situazione comunicativa senza forti alterazioni
emotive: magari mentre acquistiamo i biglietti per il cinema o rispondiamo
ad un passante che ci chiede un’informazione. Eppure, il nostro
corpo, attraverso la voce (l’intonazione, l’intensità,
“il colore”, ecc.) e attraverso il gesto mimico (il movimento
delle braccia e quello del busto, l’espressione del volto, ecc.)
è indispensabile a qualsiasi locuzione. Meglio, è, esso
stesso, la locuzione; diventa espressione, cioè al tempo stesso
atto e strumento comunicativo. Lo stesso discorso vale, evidentemente,
per l’atto della lettura a viva voce.
Eppure, c’è almeno una forte differenza tra le due situazioni
e su di essa bisogna concentrare l’attenzione sia in chiave teorica
che nel contesto didattico. Mentre, nel caso della “parola detta”,
la voce e il corpo sono la concretizzazione visibile di un pensiero o,
meglio, di una serie molto complessa di attività del pensiero,
forse analizzabili a posteriori una per una, ma sostanzialmente inafferrabili
nella loro reale complessità, nel caso della “parola letta”
abbiamo un punto fermo: il testo. Mentre, prima di leggere un brano, posso
scegliere coscientemente (non è detto che questo avvenga) di fare
un certo numero di movimenti del corpo (per usare una determinata intonazione,
ecc.), in un atto di locuzione spontanea questo, quasi inevitabilmente,
non accade, poiché significherebbe contraddire la stessa definizione
di spontaneità che corrisponde sempre a qualcosa come “non-intenzionalità”.
Ci sono evidentemente casi in cui è vero esattamente il contrario:
si può leggere un testo a viva voce senza pianificare affatto la
lettura, e si può, per contro, pianificare dettagliatamente anche
la semplice richiesta di una banale informazione; per esempio rivolgendosi
a qualcuno con cui si desidera fare buona impressione. Nella maggior parte
delle situazioni, però, avverrà il contrario. La nostra
lettura, per essere una buona lettura, sarà calcolata (diligentemente,
ma anche passionalmente), mentre le battute di una nostra conversazione
qualsiasi, poniamo sul campionato di calcio, saranno, per così
dire, “improvvisate”; o, meglio, saranno eseguite in assenza
di pianificazione vocalica e intonativa.
È vero che anche il testo è rielaborato dalla mente prima
di essere trasformato da parola scritta in parola letta ed è vero
che questa rielaborazione è tanto inafferrabile quanto la locuzione
spontanea; tuttavia, il testo c’è: almeno in quanto
palpabile, visibile e, almeno in linea di principio, ripetibile. Questa
fonte di irriducibili, molteplici letture è uno strumento che noi
possiamo vedere, come in un sorvolo, dall’alto; possiamo modificarlo
a priori (prima della lettura) per ottenere certi effetti e non altri,
possiamo ripercorrerlo in diversi momenti, cambiando stato emotivo magari,
ma leggendo sempre le stesse parole; partendo sempre dallo stesso punto
fermo. E tutto questo, nella parola detta, se davvero è spontanea,
non può accadere. L’atto di parola è unico e irriproducibile,
nella sua contingenza comunicativa, mentre l’atto della lettura,
pur non conducendo magari mai alla stessa esecuzione, è tuttavia
infinitamente riproducibile.
Forse può essere di aiuto esemplificare ciò che intendiamo
con un’immagine. Se l’atto di parola è immaginabile
come una retta, l’atto di lettura può invece essere accostato
a una semiretta. Di nessuna delle due è possibile fornire una misurazione
che non si scontri con i paradossi dell’infinito; eppure della semiretta
si può vedere un estremo; l’illusione, se non altro, della
finitezza che ci fornisce un termine di confronto costante e spazialmente
determinato. Il testo è nello spazio e nel tempo, in altre parole,
mentre la parola detta è solo ed esclusivamente nel tempo.
Alla luce di tutto ciò, la lettura a viva voce permette dunque
un altro tipo di movimento, rispetto a quello globale di spinta del soffio
di cui parlavamo prima ed è, questa volta, un movimento cosciente.
Si tratta di tutto l’apparato fonatorio che, al di là dell’automatismo
e del meccanismo inconscio della verbalizzazione orale, in diversa misura
e con diversa forza, si mette al servizio della pagina scritta. La lettura
a viva voce, detto altrimenti, parte sempre dall’estremo visibile
della semiretta.
In questa direzione, non di meno, il movimento del corpo è figura
dell’interpretazione. Nello stesso modo in cui la fisicità
del lettore, inconsciamente, detta le prime linee guida della sua presenza
nell’atto della lettura a viva voce, così il controllo che
il lettore modula sul suo corpo, in relazione al dettato testuale, definisce
alcuni dei limiti dell’interpretazione. Tanto il movimento del suo
essere fisico, dunque, quanto il movimento del suo fare
fisico sono momenti di un dialogo interpretativo con il testo e con gli
uditori che si realizza nella comunicazione.
Il fatto che l’orizzonte della parola e della voce
sia un orizzonte di espressione, di spinta da un dentro a un fuori, come
avremo probabilmente dato l’impressione di suggerire fin qui, è
tutt’altro che pacifico e condiviso. Va, infatti, sottolineato che
alcuni studiosi sostengono che la parola a viva voce non sia
un gesto di esteriorizzazione. Anzi, sia tutto il contrario: un segno
di interiorizzazione del senso. In tal caso, dunque, occorrerebbe considerare
la voce non negli orizzonti di una dicotomia tra esterno/interno (sia
del corpo del soggetto, sia della morfologia, alfabetica, della parola,
sia del testo), ma piuttosto nei termini di una continuità del
soggetto che, con la voce, allarga i confini della sua interiorità.
Per esempio, è di questa opinione Umberto Galimberti quando sostiene
che la voce che nomina un oggetto “l’ha incorporato e,
proprio perché un giorno l’ha incorporato, ora può
esprimerlo, cioè esteriorizzarlo tanto nella ‘solitudine
dell’anima’ quanto nel dialogo interpretativo con l’altro”(4).
Tuttavia, pure appoggiando a queste parole la riflessione sulla lettura
a viva voce, non si corre il rischio di sovvertire il quadro che abbiamo
fin qui disegnato. Infatti, il cambio di verso tra interiorità
ed esteriorità che propone Galimberti non fa altro che indirizzare
la nostra attenzione una volta di più (anche se forse in termini
controintuitivi rispetto al senso comune) sulla centralità del
soggetto come entità corporea, oltre che come intenzionalità
mentale, nella parola letta.
E pensando all’oggetto di cui parla Galimberti non come a un oggetto
qualsiasi, ma come a un oggetto testuale (l’estremo di una semiretta)
il dialogo tra interiorità ed esteriorità, tra definizione
e in-definizione, e, in definitiva, tra corpo e corpo (corpo del lettore
e corpo, fisicità, spazialità del testo) realizza il significato
più profondo dell’interpretare.
Yahis Martari
Note
(1) Ong W. (1970), La presenza della parola, Il Mulino, Bologna, p. 130.
(2) Anche quando il senso sia non senso; cioè anche quando la presenza
attraverso la lettura generi incomprensione più che comprensione,
come nel caso di un testo non sense. E persino quando l’incomprensione
sia non intenzionale.
(3) In proposito, si veda anche Ong W. La presenza della parola, op. cit.:
“Non è poi sempre vero che il contatto interpersonale non
esista affatto con i mass media odierni, particolarmente con quelli che
si servono della parola parlata… Anche la radio e la televisione
non escludono del tutto l’intimità (specialmente la televisione),
a causa dell’intenso grado di partecipazione che riescono a suscitare
nel pubblico” (p. 326).
(4) Cfr. Galimberti U. (2002), Il corpo, Feltrinelli, Milano, p. 185.
Il dialogo, ci suggeriscono queste parole, è sempre, e prima di
tutto, un dialogo con il Sé. Non solo: la parola è un intimo
trattenersi in cui l’espressione avviene soltanto attraverso l’ascolto
dell’altro. È l’azione dell’ascoltatore che fa
diventare la vocalità un’avventura di esteriorizzazione,
non la fonazione in sé.
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