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Passiamo
al futuro
È possibile riutilizzare
le tecniche di un tempo nella scuola attuale rivisitandole e adattandole?
Riflessioni e proposte.
Mi è stata rivolta la domanda: “Quali tecniche
didattiche di un tempo si possono salvare oggi?”
Stabilito che questo tempo sia il 1951, anno in cui ho cominciato a fare
scuola, per avere un primo punto di riferimento, inteso che il secondo
punto sia l’oggi, più che confrontare modalità didattiche
si possono seguire le trasformazioni avvenute e i fattori che le hanno
determinate.
Il rinnovamento nelle istituzioni scolastiche è sempre avvenuto
in tempi lunghi per la resistenza opposta da una struttura tradizionalmente
conservatrice e per la convinzione, diffusa negli ambienti ministeriali,
che le disposizioni ufficiali possano da sole determinare dei cambiamenti
in tempi brevi.
All’inizio degli anni Cinquanta, benché la Scuola Attiva,
il più importante movimento pedagogico del secolo passato, avesse
proposto da almeno venticinque anni cambiamenti rilevanti nelle tecniche
didattiche, la gran parte dei maestri italiani faceva scuola seguendo
le modalità ereditate tradizionalmente.
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Da sinistra:
Giorgina Vicquéry
Célestin Freynet
Gianna Cuaz
1959
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La scuola di una volta
Una breve descrizione di come si insegnavano in prima
e seconda classe la lettura, la scrittura e la matematica mi pare necessaria
e sufficiente per capire il sistema didattico generale realmente in atto
a quei tempi.
I due protagonisti, diciamo i docenti e i discenti, recitavano parti molto
diverse: attivi i maestri a insegnare e più o meno attenti gli
alunni a recepire. La lezione “frontale”, come si dice oggi,
era la tecnica dominante. La classe eseguiva compiti ed esercizi uguali
per tutti, in tempi stabiliti. La correzione degli elaborati era operazione
meticolosa e lunga, per i numerosi esercizi ripetitivi. Seguiva la valutazione
in voti, ecc.
L’insegnamento della lettura e della scrittura era molto simile
al “b.a.-ba”(1): presentazione degli elementi grafici
minimi, come aste, curve aperte e chiuse, letterine isolate a cominciare
dalle vocali da unire poi alle consonanti con esercizi grafo-fonici per
costruire le sillabe, per giungere alle parole e ai pensierini. Alle pareti
un grande alfabetiere ben strutturato per evidenziare tutti gli elementi
necessari a leggere e a scrivere. Al libro di lettura-abbecedario era
allegato un alfabetiere individuale.
Un metodo analogo di assemblaggio-meccanico di parti era impiegato per
insegnare l’aritmetica: come si partiva da b + a = ba per la lettoscrittura,
si iniziava con 1 + 1 = 2 e 1 + 2 = 3, ecc. con l’aiuto di palline
disegnate e del grande pallottoliere come calcolatore vero e proprio.
Il passaggio ai problemini con addizione era facile, ma per quelli sottrattivi
già si presentavano difficoltà per l’ambiguità
di questa operazione: togliere parti di un insieme o calcolare la differenza
fra due insiemi? I diffusi insuccessi nella soluzione dei problemi nelle
classi successive erano dovuti in parte all’insegnamento delle operazioni
separatamente dalle situazioni problematiche e in parte per effetto dello
scarto tra la logica linguistica del testo e la logica matematica delle
procedure di risoluzione.
Le classi nei grandi plessi erano numerose (sovente oltre i 30 alunni).
Nei plessi più piccoli le pluriclassi richiedevano un attento e
pesante lavoro di programmazione per poter dedicare un tempo discreto
a ogni corso e a ogni alunno. Si formavano nelle scolaresche delle “zone
d’ombra” (la definizione è del prof. Francesco de Bartolomeis)
costituite dagli alunni in difficoltà per i quali era impossibile
organizzare qualche azione di recupero per mancanza di insegnanti e di
locali per lavorare con piccoli gruppi di alunni. Così l’insuccesso
veniva addebitato agli alunni stessi e si traduceva in un elevato tasso
di “mortalità scolastica”. Non di rado erano presenti
nelle classi alunni provenienti da ambienti svantaggiati e talvolta portatori
di handicap. Era stata istituita una classe differenziale per portatori
di handicap, affidata ad un’esperta e paziente insegnante.
Venivano organizzati convegni su ambiente, scienze e matematica, che non
riuscivano tuttavia a ridurre le difficoltà denunciate ormai da
molti insegnanti che ritenevano fossero necessarie nuove disposizioni
e strumenti per migliorare la loro professionalità.
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Da sinistra:
Raul Faure
Roger Ueberschlag
Giovanni Pezzoli
1959 |
Tre fattori di innovazione
A partire dagli anni sessanta la scuola elementare valdostana
ha potuto giovarsi di tre fattori di innovazione del sistema educativo
e in particolare delle tecniche didattiche:
• i Programmi Nazionali per la S. E. emanati nel 1945 e nel 1955(2);
• la Legge Costituzionale 26.02.1948 n. 4, “Statuto Speciale
per la Valle d’Aosta”, che istituiva la Regione Autonoma Valle
d’Aosta;
• la collaborazione richiesta ufficialmente alle istituzioni scolastiche
francesi per organizzare l’insegnamento bilingue nelle scuole della
Regione.
I Programmi Nazionali per le scuole elementari del 1945, i primi emanati
dalla nuova Repubblica Italiana, redatti da una commissione ministeriale
comprendente un rappresentante inglese e uno statunitense (quest’ultimo,
C. Washburne, pedagogista, autore di opere sulle formazione degli insegnanti
negli Usa, è stato il principale ispiratore di questo decreto)
e i successivi del 1955 sono documenti che esprimono una forte volontà
di rottura nei riguardi delle idealità autoritarie che avevano
condotto al disastro l’Italia e propongono nuove vie per realizzare
una scuola capace di formare cittadini attivi in un sistema di vita democratica.
Penso che, in questo momento di incertezza, anche pedagogica, una rilettura
di questi due documenti fondamentali possa incoraggiare gli insegnanti
a migliorare la loro offerta formativa. Per rimanere in tema, dirò
che la parte dedicata al miglioramento delle tecniche didattiche aveva
un notevole posto: appello
al cooperativismo tra insegnanti e tra alunni per organizzare le classi
come comunità sociali con propri strumenti di comunicazione rivolta
all’interno e all’esterno della scuola; globalismo inteso
come graduale emergenza delle discipline da attività multilaterali;
passaggio dall’insegnamento autoritario e nozionistico
ad un’azione didattica intesa come aiuto all’apprendimento
dell’alunno; attenzione agli esiti dalla ricerca psico-pedagogica;
rivalutazione del gioco e del lavoro attività tipiche della fanciullezza,
ecc.
In applicazione degli articoli 39, 40 e 40/bis della legge citata, che
stabiliscono fra l’altro le competenze regionali in materia di scuola
elementare, Corrado Gex, assessore alla Pubblica Istruzione di allora
incaricò il dr. Giovanni Pezzoli e la professoressa Gianna Cuaz
del gruppo MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) di Aosta di proporre
all’École Moderne, movimento cooperativo di educatori francesi
fondato da Célestin Freinet, di collaborare all’organizzazione
dell’aggiornamento dei maestri valdostani d’intesa con il
MCE stesso e con i direttori didattici. Nel 1959, Célestin Freinet
e alcuni suoi collaboratori parteciparono ad un incontro, nel salone municipale
di Aosta, in cui si discussero le modalità di attuazione di una
serie di stage e di altre attività da svolgersi in lingua francese.
Parallelamente agli stage École Moderne-Techniques Freinet, che
si svolsero ogni anno per oltre quindici anni, con il contributo della
Regione, si organizzarono stage MCE in lingua italiana ai quali parteciparono
maestri noti come Aldo Pettini, Bruno Ciari, Mario Lodi, e un gruppo di
psicologi guidati da Andrea Canevaro, esperti nell’inserimento dei
portatori di handicap nelle classi normali.
Oltre la metà dei maestri valdostani partecipò a questi
corsi nei quali le tecniche didattiche si apprendevano praticandole, in
un secondo tempo analizzandole da un punto di vista psico-pedagogico e
quindi confrontandole con altre metodologie.
Certo, queste non furono le sole iniziative di aggiornamento, ma le modalità
di svolgimento, la durata nel tempo, il numero di partecipanti, la competenza
del personale chiamato a dirigerle determinarono trasformazioni durature,
oltre a dare un contributo importante alla realizzazione del bilinguismo,
alla creazione di una didattica bilingue e di un’abitudine, direi
un costume, all’aggiornamento professionale periodico.
Le prime trasformazioni durature
Ben lontano dall’attribuire le trasformazioni in
senso positivo al solo intervento dei movimenti pedagogici di cui sopra,
un folto gruppo di insegnanti, negli anni 60/70, ha acquisito un nuovo
atteggiamento professionale ponendo in discussione il valore formativo
delle tecniche didattiche. Entrando nei particolari e procedendo per elencazione:
• riduzione e/o abbandono dell’insegnamento autoritario;
• attenzione alle capacità e alle modalità di apprendimento
degli alunni e ai risultati delle ricerche psicologiche e sociologiche
per evitare atteggiamenti di “maternage”: il bambino a scuola
non è figlio, ma un apprendista cittadino;
• miglioramento della conoscenza delle discipline linguistiche e
logico-matematiche di tutti gli insegnanti;
• attenzione all’uso degli strumenti didattici disponibili
sul mercato e capacità di costruirne altri da sottoporre a sperimentazione:
biblioteca di lavoro, schedari autocorrettivi per gli esercizi, materiali
per disegnare, dipingere, modellare, attrezzi per il lavoro, i giochi
sociali, lo sport, ecc.;
• ricorso a tecniche motivanti fin dalle classi iniziali: inchieste
nell’ambiente con interviste documentate da testi, disegni, fotografie,
registrazioni sonore e divulgate con giornalini scolastici stampati con
mezzi semplici come i limografi, le piccole tipografie Freinet e, in mancanza
d’altro, in dattilografia;
• abbandono, nella lettura e scrittura, delle didattiche di assemblaggio
meccanico di elementi, adozione di sistemi ispirati ai risultati di ricerche
condotte dagli insegnanti in campo internazionale che indicavano procedure
con partenza motivata da frasi e testi orali dei bambini, e dalla necessità
di tradurli in scrittura attraverso l’individuazione di elementi
grafo-fonici gradualmente più dettagliati;
• interesse, per l’aritmetica, da parte di molti maestri che
si erano informati sugli studi dei coniugi Piaget con bambini di 5/6 anni
e sui materiali predisposti dalla cooperativa Freinet, tipo regoli Cuisenaire
(simili ai numeri in colore Dienes) e a diversi tipi di calcolatori per
l’apprendimento della numerazione e del calcolo nelle diverse basi;
• diffusione della corrispondenza scolastica e dei viaggi di scambio
tra classi francesi e italiane, attività diffuse e, in alcuni casi
durate decine di anni;
• maggiore attenzione al singolo alunno e alle sue particolari modalità
di apprendimento che sono diverse nei bambini “normodotati”
e diversissime nei bambini svantaggiati per motivi di provenienza sociale
o per la presenza di handicap di varia origine e che, in ogni caso, inducono
gli insegnanti a interventi didattici sui singoli, sui piccoli gruppi
e sul gruppo classe.
Certamente l’elenco è incompleto. È importante sottolineare
che tutte queste attività si sono svolte sotto l’egida e
con l’aiuto finanziario dell’Amministrazione regionale e,
spesso, con il contributo degli insegnanti stessi.
Una prima risposta
Per rispondere alla domanda iniziale, occorrerebbe conoscere
quali tecniche didattiche si pratichino oggi nelle nostre scuole elementari.
Purtroppo non ci sono statistiche mirate a rilevare quali siano i metodi
impiegati per l’insegnamento/apprendimento delle varie discipline.
Le indagini condotte dall’Irrsae valdostano negli anni 1992/1994
riguardano i risultati conseguiti nelle scuole elementari della regione
rispetto alle indicazioni dei Programmi Nazionali 1985, ma non la qualità
e la diffusione delle tecniche impiegate dai docenti. Dalle indicazioni
si evince che le maggiori carenze si notano nel settore logico-matematico,
e sono causate principalmente dalla scarsa preparazione dei docenti e
dalla debolezza congenita della scuola elementare nel settore, specie
per quanto attiene il problem solving(3).
I Programmi del 1985 recavano brevi indicazioni didattiche nel settore
logico, ma nei successivi programmi ministeriali emessi nel 2004 e intitolati
“Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella
Scuola Primaria” non si fa più cenno alle logiche del linguaggio
e della matematica e della loro stretta parentela e al fatto che la capacità
di risolvere problemi sta nel tradurre la logica linguistica del testo
in logica matematica, fin dalla prima classe, naturalmente seguendo strategie
didattiche adeguate all’età e tenuto conto delle capacità
logiche già in atto nei bambini, rilevabili se la vita di classe
è ricca di attività relazionali e di stimoli didattici e
se gli insegnanti possono seguirli mentre, in piccoli gruppi, discutono,
ragionano e propongono ipotesi per affrontare una situazione problematica.
Su L’école valdôtaine ho letto molti interventi
che aiutano a penetrare nel mondo delle strategie logiche che i piccoli
già possiedono e che spiegano come una nuova abilità non
si aggiunga semplicemente alle altre, ma determini una ristrutturazione
di tutta la rete cognitiva, rendendola elastica e trasferibile ad altre
situazioni analoghe con attività di tâtonnement:
tento, sbaglio, ritento, ecc.(4)
A questo punto, dalla lettura dei quattro Programmi ministeriali citati,
si può affermare, con un buon grado di sicurezza, che alcune tecniche
diffuse in regione nei vari stage, corsi e conferenze hanno contribuito,
e contribuiscono ancora oggi, a realizzare più correttamente e
con maggiore efficacia alcuni degli obiettivi indicati nelle premesse:
• in prima classe: il “testo libero” orale riferito
dai bambini, tradotto in un breve scritto alla lavagna dall’insegnante,
sottoposto a tentativi di lettura a piccoli gruppi, rilettura in altri
momenti, presentato con altri caratteri e su altri supporti, stampato
e conservato come prodotto importante;
• il “testo libero” scritto scelto e discusso dalla
classe ormai alfabetizzata, fra quelli depositati nella cassetta della
“posta”, messo a punto alla lavagna per renderlo più
comprensibile e corretto, stampato dagli alunni, inviato ad altre classi
come giornalino o corrispondenza scolastica, distribuito alle famiglie;
• il lavoro autonomo degli alunni effettuato su schedari autocorrettivi
di ortografia e di aritmetica prescritti all’allievo con programmazione
personalizzata;
• l’organizzazione di gruppi di lavoro effettivo a turni per
l’ordine nell’aula e fuori: portamantelli, materiale didattico,
pulizia, uso turnario di strumenti, distribuzione di oggetti;
• elezioni periodiche per incarichi di responsabilità agli
alunni: ordine nelle discussioni, uso dei servizi, rispetto dei programmi
e dei turni;
• predisposizione di atelier per le attività artistiche
e il lavoro manuale, di magazzini per la conservazione degli strumenti
didattici del plesso, ecc.
La scatola nera
Oggi, rispetto a vent’anni fa, le differenze fra
i bambini di una stessa classe sono molto aumentate. Sono presenti alunni
immigrati che conoscono poco la nostra lingua o che non la parlano affatto,
che appartengono a culture diverse, che non hanno frequentato la scuola
dell’infanzia. Per effetto di recenti disposizioni lo scarto d’età
fra i bambini di prima classe può rasentare i due anni. La presenza
in casa dei televisori e dei computer che, oltre alle immagini, trasmettono
continui messaggi scritti in diversi caratteri, inizia precocemente alla
lettura e alla scrittura. È indispensabile considerare la provenienza
sociale di ciascuno, portatrice di svantaggi e vantaggi e il fatto che
aumenta il numero degli alunni che parlano una lingua materna straniera
e debbono apprendere l’italiano, il francese e l’inglese.
Jacques Fijalcow, psicolinguista, che si dedica da 25 anni ai problemi
didattici dell’iniziazione alla lettura e alla scrittura, ha effettuato
ricerche con l’aiuto di insegnanti europei, canadesi e israeliani,
(anche per porre fine alle polemiche tra i sostenitori dei vari metodi
globali, analitici, naturali e misti, o addirittura favorevoli al ritorno
alle “buone abitudini del passato”), tratta nelle sue opere
l’argomento affrontandolo in tutti i suoi aspetti(5).
Egli ritiene che ogni bambino utilizza suoi particolari percorsi per affrontare
questi due apprendimenti: la sua ricerca è rivolta a scoprire quali
siano e come vengano usate le strategie di cui dispone. Ha analizzato
la composizione sociale delle classi, le difficoltà rilevate specie
nei bambini svantaggiati, le tecniche, l’attrezzatura didattica
e lo stile professionale dei maestri, con i quali ha osservato i bambini
durante il loro lavoro di apprendimento. Questa ricerca ha rivelato, per
ora, soltanto in parte i segreti contenuti nella “scatola nera”
dove sono racchiusi gli strumenti e le modalità che l’alunno
impiega per risolvere la complessa situazione problematica del leggere
e dello scrivere. Le sue proposte sono altrettanto complesse e difficili
da riassumere. Accennerò ad alcuni concetti di base, rimandando
alla lettura di un suo libretto di centro pagine intitolato Entrer
dans l’écrit, Les guides Magnard, 1994:
• è impossibile separare i due apprendimenti: la lettura
e la scrittura si apprendono simultaneamente, ma la scrittura da un punto
di vista psicolinguistico si colloca ad un livello cognitivo superiore,
perché la prima è attività di ricezione, la seconda
di produzione. I due metodi, il globale e quello tradizionale, non tengono
conto di questa gerarchia. L’autore indica percorsi didattici, più
adeguati alle strutture logiche degli alunni, che utilizzano strategie
che, nel caso di insuccesso, vengono modificate o cambiate e provate in
successivi tentativi: è un procedimento di tipo scientifico, seppure
semplificato al massimo;
• il bambino non può apprendere da solo la lettura e la scrittura
e le pedagogie autoritarie disturbano l’impegnativo lavoro dei bambini,
creano difficoltà di integrazione nel gruppo, disistima di sé
e atteggiamenti negativi verso le attività scolastiche;
• per quanto riguarda gli insegnanti, l’innovazione è
ansiogena, disturba, crea opposizioni e critica, esige un importante lavoro
per la preparazione del materiale didattico e tutto ciò si può
affrontare meglio con un lavoro d’équipe;
• modalità e le funzioni della valutazione delle acquisizioni
e delle competenze ed effetto che produce sui bambini e sui genitori.
Per concludere
L’ultima parte del libro tratta delle cinque funzioni
attribuite agli attori del mondo dell’educazione: decisione, gestione,
informazione, insegnamento, ricerca.
La ricerca in educazione deve essere autonoma come in ogni altro campo
scientifico. L’interlocutore del ricercatore non è direttamente
l’insegnante, ma il formatore dell’insegnante, un pedagogista
che curi il collegamento e organizzi gli stage di aggiornamento e sarà
appunto il formatore che ricorrerà, quando si presentino problemi
nuovi, al ricercatore per riceverne altre indicazione da trasmettere agli
insegnanti. Si realizza in questo modo un sistema dinamico che ottimizza
l’intervento didattico.
Fijalcow non dà indicazioni sul modo di gestire le scuole, ma il
problema esiste, perché con le ultime disposizioni che ne hanno
modificato l’assetto gestionale, i dirigenti degli istituti scolastici
sono, a mio parere, nell’impossibilità di occuparsi anche
della formazione dei docenti perché non ne hanno il tempo, perché
l’arco di età dei discenti è troppo vasto (dai due
anni e mezzo ai quattordici e oltre), perché sono chiamati a valutare
il rendimento dell’istituzione senza disporre degli strumenti necessari.
Manca nelle istituzioni la figura del pedagogista/formatore. L’Irre,
dovrebbe assumersi il compito di occuparsi di questa indispensabile figura:
individuare le persone adatte, aggiornarle, metterle a contatto con i
ricercatori, coordinarne gli interventi e organizzare l’aggiornamento
periodico obbligatorio degli insegnanti, come avviene in altre settori
pubblici (per es. i medici generalisti).
Un gruppo di insegnanti e di dirigenti scolastici ha provveduto personalmente,
nel passato, al proprio aggiornamento rivolgendosi ai nuclei didattici
istituiti in alcune università, specie per le discipline scientifiche
e matematiche, con qualche risultato, poiché essi hanno dato e
danno ancora oggi un importante contributo all’innovazione educativa.
Per razionalizzare il sistema scolastico occorrerà molto tempo,
alcuni provvedimenti, come un diploma universitario per tutti gli insegnanti
e l’istituzione nelle università di centri di ricerca in
didattica, collegati con la scuola, almeno nelle discipline fondamentali,
lingua e matematica, anche se di questi tempi parlare di finanziamento
alla ricerca scientifica è argomento tabù. La domanda più
importante oggi è come colmare l’abisso esistente nei programmi
ministeriali tra le indicazioni delle premesse e l’elenco degli
obbiettivi specifici di apprendimento prescritti. Fino ad oggi ci siamo
sempre affidati alle iniziative dei volonterosi, ma questo non è
più sufficiente per porre rimedio alla frammentarietà didattica
e per svolgere con maggiore competenza una professione libera certo, ma
nell’ambito di una deontologia rispettosa delle indicazioni delle
scienze pedagogiche.
Sergio Bosonetto
Bibliografia
Fijalcow J., (1994), Entrer dans l’écrit, Guides Magnard,
Paris.
Fijalcow J., (2000), Sur la lecture, ESF editeur, Paris.
Fijalcow J., (1986), Mauvais lecteur, pourquoi ?, Puf, Paris.
Downing G., Fijalcow, J., (1991), Lire et raisonner, Privat, Paris.
Biancardi A., Milano G., (1999), Quando un bambino non sa leggere, Rizzoli,
Milano.
Bertonelli E., Floris P., Frabboni F., Rodano G., (2000), Insegnare e
apprendere nella scuola dell’autonomia, Giunti, Firenze.
Note
(1) Metodo in uso in alcuni casi fino al 1970.
(2) Altri due provvedimenti nazionali sono stati promulgati successivamente:
i Programmi del 1985 e le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio
Personalizzati nella Scuola Primaria del 2004.
(3) Vedasi Quaderno serie informazione n. 6 dell’Irrsae valdostano,
(1995).
(4) Il concetto di tâtonnement è descritto da Freinet in
Essai de psychologie sensibile, Delachaux et Nestlé, 1966. Sul
n. 55 de L’école valdôtaine, a p. 4 e segg. si veda
l’articolo “ Pistes de réflexion pour developper, à
l’école, les compétences de tous les élèves
” di J. Beckers.
(5) Il prof. J. Fijalkow è stato ad Aosta per colloqui con alcune
insegnanti. Si veda la bibliografia alla fine dell’articolo.
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