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Progettare la fiducia
Che fare quando la noia pare una condizione di vita? Crederci è la risposta: credere nel mestiere, negli alunni, nella struttura, in se stessi come uomini e come professionisti.
Il senso di sazietà
Fra le vecchie incisioni di Roberto Murolo, ascolto volentieri, fra l’inevitabile fruscio che il tempo ha prodotto sul nastro, Nun Voglio Fa' Niente!, una perla del suo repertorio fra le meno conosciute.
Vi regna la noia invincibile, quella che ingenera fastidio per ogni azione, anche piccola, che produce un senso di sazietà già al primo boccone e avversione per qualunque progetto.
L’ascolto mi evoca l’immagine stereotipata del messicano appoggiato al muro assolato, con il sombrero calato sugli occhi, in continuo stato di siesta.
Al personaggio della canzone di Murolo, come al messicano in siesta, non occorre altro per godere del qui e ora. L’azione, anche solo progettata nella mente, attiva una condizione di malessere che ne determina l’aborto sul nascere.
Il senso di sazietà ha bisogno di tempi lunghi di digestione prima di lasciar posto al desiderio di una nuova assunzione di cibo.
Progettare la passione
La scuola, lo studio, l’apprendimento, la formazione hanno un comune legame con il progetto. Si va a scuola e si studia per realizzare un progetto di vita, almeno nelle intenzioni di chi la scuola la organizza.
Progettare significa gettare avanti: da pro (avanti) e jàcere (gettare).
Il progetto riguarda ciò che si ha intenzione di fare in avvenire, ha a che fare con l’idea di futuro, del proprio futuro e di quello degli altri e del mondo.
Il futuro si coniuga con il desiderio: si lavora, ci si impegna per il futuro, se esso rappresenta una dimensione desiderabile. Senza desiderio non possono esserci né futuro né progetto e neanche impegno ed azione.
Il lato oscuro della noia, come senso di sazietà, è
il nemico mortale della scuola perché rende i dirigenti scolastici e i docenti condottieri senza esercito.
Il progetto della scuola esiste, almeno sulla carta, e si chiama Piano dell’Offerta Formativa. Per la sua realizzazione ha, però, bisogno della irrinunciabile collaborazione degli utenti: innanzitutto degli alunni, ma anche dei genitori (utenti di secondo livello).
Abbiamo tutti la consapevolezza che il progetto debba essere riconosciuto, reso evidente e condiviso. Nella realtà sappiamo che, in molti casi, il progetto serve alle scuole per affermare la legittimità della loro esistenza: il POF viene elaborato e vissuto come esigenza burocratica (perché lo dice una norma).
Questa dimensione progettuale, artificiosa e sterile, difetta di immaginazione e di passione. Produce obiettivi che sono lo scopo della programmazione e non
il suo strumento elettivo, obiettivi senza immagini, senza l’importante ingrediente di visualizzazione del risultato nel futuro. Gli obiettivi che difettano di visualizzazione dello stato desiderato sono destinati a dissolversi come bolle di sapone, ad essere abbandonati al primo ostacolo o a confondersi con i mezzi.
Come far fronte al senso di sazietà che ci sottrae al desiderio del futuro? Innanzitutto restituendo a noi e ai nostri alunni il tempo dell’attesa. “Ogni cosa ha il suo tempo, e dentro lo spazio ad essa assegnato. Passano tutte le cose dentro il cielo” (Ecclesiaste, Cap. III). C’è il tempo di “lanciare le pietre” e il tempo di raccoglierle, il tempo di mangiare e quello di digerire, quello di riposare e quello di lavorare. Restituendo legittimità al tempo dell’attesa potremo trasformare il senso di sazietà in terreno fertile per nuove piantagioni, ridando senso al principio educativo enunciato da Rousseau, quando affermava che “l’educazione non è l’arte del guadagnare tempo, ma del saperlo ben perdere”.
Restituiamo ai nostri alunni il diritto alla loro infanzia, prima, e all’adolescenza, dopo, senza pressioni perché diventino adulti prima del tempo. Lasciamo loro digerire l’ingurgitamento di stimoli ai quali sono sottoposti. Selezioniamo adeguatamente le informazioni necessarie ai fini scolastici e proponiamo forme di organizzazione didattica che siano più vicine alla vita di quanto non lo siano quelle della passiva fruizione dei mezzi di comunicazione di massa. Parliamo di vita, non di scuola. Reintroduciamo la vita là dove la didattica si è chiusa al fare, ai laboratori, alla curiosità e alla ricerca.
La noia da ripetizione
Il disgusto di sazietà nasce anche dal ripetersi di cose uguali o uniformi (ripetere fino alla noia). La reiterazione è uno dei caratteri tipici del nostro sistema scolastico: si ripetono i contenuti da un ciclo all’altro (nonostante le buone intenzioni del legislatore che vorrebbe evitarlo); si ripete più volte lo stesso contenuto, con il presupposto che sia necessario per il ricordo; si ripetono ossessivamente le regole di civile convivenza, con l’illusione che se ne faciliti l’interiorizzazione, si ripetono i sermoni moraleggianti per riportare sulla “retta via” coloro che sembrano averla smarrita.
La scuola sembra la replica dell’esperienza televisiva caratterizzata dalla monotonia dei programmi e dal senso di insoddisfazione, di fastidio, di tristezza che spinge il telespettatore a cercare qualche cosa di nuovo agendo sul telecomando. Lo zapping è al tempo stesso una fuga dalla monotonia e la causa della stessa monotonia perché impedisce di fermarsi, di fissare l’attenzione, di accendere la curiosità, di scatenare la passione.
Lo zapping pedagogico lo dobbiamo al continuo fiorire di nuove parole che non abbiamo il tempo di assimilare perché la scienza (?) pedagogica ne produce altre, funzionali al sistema economico e produttivo al quale la scuola viene sempre più asservita. Dobbiamo lo zapping pedagogico anche a una classe politica che ripete fino alla noia l’impegno e l’insopprimibile esigenza di riforme. E se la scuola decidesse di aprire le finestre per liberarsi dell’aria stantia? E se i docenti decidessero di dire basta con le riforme annunciate, le riforme riformate, le riforme incompiute? Se decidessero di lasciare il telecomando e di fermarsi su un programma, dando fiducia al regista e agli attori?
Nessuno potrà liberarci dalla “noia mortale e invincibile” che sta attanagliando le persone di scuola, se non usciamo dalla logica del mugugno (pensiero caro a Piero Romei) e non ci riappropriamo del diritto a creare, a sperimentare, a introdurre modelli flessibili di insegnamento, a promuovere modelli di pensiero originali e flessibili, a dare risposte differenti alle diverse esigenze dei nostri alunni.
La diversità degli stili deve poter ridiventare la ricchezza della nostra umanità, piuttosto che una fonte di ansia per il disturbo che arreca al fare distratto e annoiato.
La “noia mortale” si combatte restituendo all’attore il piacere di sentirsi impegnato in qualcosa che incoraggia le sue inclinazioni e che appare importante e utile; si combatte quotidianamente, in classe, nella relazione con gli studenti e, periodicamente, negli organi collegiali, nella relazione con i colleghi e con i genitori. I luoghi dell’elaborazione e delle decisioni devono riprendere a parlare della vita di oggi e di quella che si desidera domani, per produrre un patto generazionale che miri al rispetto degli alunni e degli adulti che si occupano di loro.
Occorre introdurre nelle riunioni di progetto e di programmazione il desiderio stimolante di realizzare un futuro appagante. Il desiderio che rappresenta il fulcro della tensione tra ciò che non è più e ciò che non è ancora, fra il passato e il futuro.
Il desiderio stimolante è una forza che attinge al passato, proviene da ogni epoca e si colloca nel centro di energia del presente. È l’espressione dell'amore per ciò che non è più (il nostro passato e quello delle nostre comunità e dei nostri alunni) e per ciò che non è ancora (quello che noi e i nostri alunni saremo, che la nostra comunità potrà diventare).
La noia mortale andrà affrontata con l’amore per l’insegnamento, l’amore per le materie che si insegnano e per gli alunni ai quali si insegna.
Noia come condizione o
disposizione dell’animo
Esiste una noia che esprime un senso doloroso della vanità della vita. Essa assume le forme della tediosa malinconia, nei casi lievi, o della depressione, nei casi più gravi.
Si accompagna al senso dell’inutilità, del non essere capaci o degni di attenzione e di cura. Si presenta sotto la forma della sofferenza psicologica quando si sperimenta un’incoerenza fra l’esperienza organismica e il concetto di sé.
La teoria rogersiana del processo di disturbo della
personalità afferma che gli individui sviluppano problemi psicologici come risultato dell’introiezione
dell’accettazione condizionata da parte dei genitori e di altre persone significative.
Poiché il sé diviene oppresso dalle condizioni di valore, ciò comporta ansia e vulnerabilità nella persona. La teoria afferma che la tendenza all’attualizzazione si promuove, quando la persona esperisce una considerazione positiva incondizionata, in un contesto di comprensione empatica e da un individuo (insegnante o genitore) congruente/genuino.
La tendenza all’attualizzazione è una teoria basata sulla fiducia di base nella persona e nella tendenza a crescere, a svilupparsi, a realizzare pienamente il proprio potenziale, presente in ogni organismo vivente. Qualità fondamentali della natura umana sono quelle della crescita, del processo e del cambiamento. “L’uomo è un processo che si attua, che diventa tutto ciò che è in potenza”.
Per contrastare la noia come disposizione d’animo
facciamo nostro l’insegnamento di C.R. Rogers (La terapia centrata sul cliente) e proponiamo:
1. congruenza (l’insegnante sia se stesso in piena libertà e molto profondamente; sia realmente quello che è nel momento in cui insegna, senza dissimulazioni);
2. rispetto positivo incondizionato (l’insegnante sia capace di accettazione calda di ciascun aspetto dello studente e abbia fiducia nelle sue possibilità di autorealizzazione);
3. comprensione empatica della cornice interna di riferimento dello studente (l’insegnante impari a sentire il mondo dello studente come se fosse il proprio, senza mai perdere la qualità del come se, per non confondersi con quel mondo e restarne invischiato).
Lo studente ha bisogno della fiducia dell’insegnante, senza condizioni, ha bisogno di sentirsi compreso e rispettato. All’insegnante potrebbe risultare difficile, e con buone ragioni, credere incondizionatamente nello studente, soprattutto nelle situazioni di maggiore difficoltà. Allora la scuola dovrebbe potersi prendere cura dell’insegnante, prima che dello studente, per contrastare il suo senso di rassegnazione e di disagio.
In qualche caso, i docenti sperimentano uno stato di difficoltà professionale che si trascina un corredo di altri problemi che pervadono l’intero loro vivere quotidiano. In altri casi, è lo stato di sofferenza personale che ha i suoi riflessi sull’esperienza professionale.
In un caso o nell’altro, le due dimensioni si alimentano reciprocamente e possono aggravarsi a tal punto da intaccare la sicurezza personale, l’autostima, la fiducia nelle proprie risorse, negli altri, nella vita. La sofferenza interna è un fenomeno molto più diffuso di quanto non appaia (fa parte della stessa sofferenza l’aver appreso a non manifestarla). Il dolore degli altri ci passa a fianco senza essere visto o ascoltato. Condividiamo gli stessi spazi e al tempo stesso diventiamo sordi alle richieste d’aiuto; sacrifichiamo all’apparenza e all’efficientismo una vasta umanità che ha solo bisogno di uno sguardo accogliente, di un “testimone soccorrevole”, di un ascolto attento e non giudicante.
Insegnanti, alunni, genitori, soprattutto nelle situazioni difficili, tendono a incontrarsi curandosi e preoccupandosi delle proprie personali ferite, mettendosi sulla difensiva, cercando di proteggersi da una nuova potenziale minaccia. L’incontro che dovrebbe fruttificare, in tal modo, produce conflitto e nel conflitto
ciascuno degli interlocutori è sicuro che l’altro, il nemico, sia un potenziale aggressore.
Quanto più forte è il nostro disagio personale, tanto più profonde potranno essere le ferite che continuiamo a proteggere. Quanto più alte sono le nostre difese, tanto maggiore è il segno della presenza di un nemico interno che ci consuma.
Nella relazione educativa, l’incapacità di riconoscere il proprio nemico interno determina l’attribuzione all’esterno di ciò che appartiene a noi (proiezione). Così il nostro nemico esterno è solo la proiezione del nostro nemico interno.
Oggi i docenti sono lasciati un po’ più soli a portare questo peso.
Ci si attende che sappiano occuparsi della relazione, ma ricevono pressioni sul compito.
Ci si attende che sappiano utilizzare l’autonomia per esercitare la responsabilità educativa, adottando forme flessibili di organizzazione didattica, ma si trascura che in tal modo dovrebbero essere capaci di mettere in discussione un equilibrio che faticosamente hanno costruito. Questa messa in discussione è sempre una ferita narcisistica.
Per sostenere i nostri ragazzi, dunque, è necessario
fornire risorse ai docenti, per aiutarli a cercare nuove occasioni di gratificazione professionale, un senso appagante della loro missione, uno stato personale di soddisfazione e la convinzione di valere e di potercela fare.
Che cosa fare?
Per non cadere nelle trappole della noia, cominciamo dagli insegnanti.
Il contesto scuola impari ad accogliere chi vi lavora, creando spazi di cura protetti e sicuri. Possono essere gli spazi del counseling (della relazione di aiuto, individuale e di gruppo), nei quali i docenti possano:
a) prendersi cura di loro stessi, cercando un equilibrio accettabile fra la dimensione personale e
quella professionale, senza la pretesa di tenerle separate, ma anche con l’avvertenza che la vita
professionale non diventi totalizzante. Lasciamo all’insegnante il tempo per annoiarsi e riprendere fiato; lasciamogli il tempo per partecipare alla vita del suo tempo, per dedicarsi all’arte, alla cultura locale, al tempo libero, al semplice non fare niente, per allentare la tensione di un lavoro che non smette di esercitare la sua pressione dopo il suono della campanella;
b) lasciare che qualcuno si prenda cura di loro. Sosteniamo la loro capacità di dare fiducia agli altri, per poi essere affidabili per gli altri. La scuola crei occasioni di incontro fra docenti e faciliti i processi di comprensione e il lavoro collaborativo. Dia nuovo impulso alla formazione in servizio come occasione di reciproca conoscenza e di simulazione di virtù e sentimenti non ancora praticati.
La virtù simulata produrrà i suoi effetti e potrà diventare vera virtù (Shakespeare);
c) imparare l’arte di aiutare e il piacere di farsi aiutare. Sollecitiamo le competenze di mediazione e di facilitazione mediante la formazione e il confronto sul modo di essere insegnanti, sulle strategie, sugli stili, sui metodi e sulle tecniche. Non trascuriamo di estendere il confronto ai valori, agli importanti perché che attivano, orientano e sostengono l’agire umano;
d) imparare a trasformare la relazione con gli alunni sviluppando nuove capacità e attivando nuove risorse. Creiamo occasioni perché la scuola diventi anche per i docenti un’occasione di ricerca, per imparare a modificare l’atmosfera della classe e la relazione con i singoli alunni nella direzione di un appagante stato desiderato;
e) imparare ad accogliere gli alunni che hanno, come se fossero i migliori che potrebbero avere (rinunciando a volere gli alunni che desidererebbero
avere). Anche i docenti possono vivere il conflitto fra il desiderio e il reale, con l’interferenza di introiezioni e proiezioni che affondano le radici nelle loro precedenti esperienze di scolari e di figli. Per accettare incondizionatamente gli altri è utile fare esperienza di accettazione incondizionata di se stessi. Non è facile accettarsi ed essere accettati con le proprie fragilità e debolezze in un mondo di supereroi, di calciatori e di veline, di mamme che restano bambine e di bambine che hanno fretta di somigliare alla mamma;
f) sviluppare la capacità di infondere fiducia, potenziando le risorse degli alunni ed evitando di sottolineare solo i fallimenti. I docenti imparino a fidarsi degli alunni, a far leva sulla loro responsabilità nella realizzazione del loro progetto di vita. Imparino a fare sperimentare agli alunni la possibilità di sentirsi capaci, competenti e dediti, in un contesto che sostiene e che dà fiducia.
Desiderio
L’antidoto alla noia cattiva va dunque somministrato ai docenti, prime vittime di un sistema scolastico sempre più oppresso dalle logiche produttivistiche.
Ai docenti andrebbe anche reso il tempo della vita, il loro tempo esistenziale, sottomesso al tempo del lavoro, pervasivo, ingombrante, pieno di noiose riunioni, di noiosi documenti, di noiose discussioni. Diceva Lord Wotton a Dorian Grey: “Mio caro Dorian, discute continuamente solo chi ha esaurito il cervello”. Sarebbe tempo che la discussione desse luogo a decisioni e che dalle decisioni si passasse celermente all’azione.
Piuttosto che persistere nella noia delle abitudini, per cui le cose vanno fatte perché abbiamo deciso di metterle in programma, occorre passare alla decisione di fare le cose per il senso che ad esse attribuiamo. Restituiamo ai docenti il diritto di godere della vita, di essere felici, quando insegnano e, fuori dalla scuola, di dedicarsi alla cura di se stessi, dei loro affetti e dei loro interessi.
Il desiderio si estende agli studenti e al loro diritto di annoiarsi per digerire la quantità di informazioni che il mondo trasmette, per disporsi ad assaporare azioni, saperi, relazioni ed emozioni più appaganti del cibo culturale fornito dalle macchinette della comunicazione di massa.
Facciamo in modo che gli studenti possano vivere
pienamente il loro tempo e imparino ad assumersi
la responsabilità di costruirsi il futuro con le proprie forze e con l’aiuto delle persone con le quali ne condividono il progetto. Questa responsabilità richiede l’impegno, il sacrificio e l’esercizio. La regola aurea da trasmettere, lasciandone gustare i benefici effetti, è che le cose che non sappiamo ancora fare bene possiamo imparare a farle meglio con l’esercizio; quando sapremo farle bene ci costerà meno continuare ad esercitarci e potremo farlo senza troppa fatica. Esercizio, dunque, prima, per imparare, e dopo, per consolidare: per leggere, per scrivere, per far di
conto, per allenare la memoria, per consolidare le strategie occorre esercizio, in qualche caso, fino alla noia, ma con l’avvertenza di fermarsi un passo prima che la noia vanifichi l’effetto… per riprendere fiato.
Armando Luisi
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