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Paure

La paura dei comunisti - Una vita passata nella scuola, prima come studente poi come insegnante e ora anche come genitore, ma le mie paure sono cominciate prima.
Andavo a messa da Villes-Dessus a Plan-d'Introd con mia mamma, avrò avuto cinque anni, iniziavano gli anni sessanta; si andava a piedi, la cinquecento non la usavamo certo per andare in chiesa, facevamo wolking senza saperlo.
Un giorno domandai a mia mamma se ci fosse qualcuno che non andava a messa, mi rispose: “I comunisti”.
Volevo sapere chi fossero, dove stavano, che faccia avessero; un bambino associa una categoria di persone a dei tratti materiali o a dei luoghi fisici non certo a dei valori o a delle scelte personali.
Questa incognita su chi fossero alimentava in me l'idea che un giorno ne avrei incontrato qualcuno e la mia paura era d'incontrarli da solo. Credo che sia nata in quel periodo la curiosità per quel mondo.
Ho poi scoperto, tanti anni dopo, che il timore che ho vissuto con l'ingenuità del bambino era un sentimento diffuso, anche se poco esplicitato, una sorta di archetipo atavico che, agitato al momento giusto, per un certo periodo ha fatto anche le fortune politiche di qualche personaggio del nostro paese.

A scuola - Poi è venuta la scuola.
La paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello. E quando divenni insegnante la mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare”.
La maestria di Daniel Pennac nel suo recente Diario di scuola ha dato voce a quei milioni di studenti che hanno vissuto e patito la loro inadeguatezza scolastica.
Si potrebbe dire: ecco come nasce una scelta professionale. Quasi un’inedita chiave per interpretare l'orientamento che s'incarna nella frase piuttosto ricorrente: “Che gli altri non abbiano a soffrire quanto me”.
D'altra parte, se anche il mio dentista mi ha confessato di aver scelto la sua professione fin da bambino, quando ha sofferto paura e dolore in uno studio dentistico, credo che il rapporto tra sofferenza patita da piccolo e scelta del lavoro da grande non sia così casuale.
Io, da studente, più che la paura ho vissuto la vergogna. Anch'io sono stato un alunno in difficoltà, rimandato e bocciato. Ho provato la vergogna dei tabelloni di fine anno, con nome e cognome sottolineati in rosso, offerto alla sadica curiosità collettiva e soprattutto allo sconforto di mio padre che mi voleva avvocato, al quale raccontavano invece, con ineffabile impronta gentiliana, che non ero adatto agli studi, neanche a quelli professionali.
Il fallimento di quegli anni ha segnato la rappresentazione di me stesso e la difficoltà ad accettarmi che sento talvolta riaffiorare; credo che buona parte di essa trovi la sua origine in quel periodo difficile e confuso.
Come spesso accade, la paura si associa alla fuga e quindi cambiavo scuola a seguito di una bocciatura e corso di laurea dopo un esame non superato; cioè mi sentivo un fallito di fronte ad un singolo caso d'insuccesso.
Non sono per le promozioni alla classe successiva sempre e comunque, anche se nessuna ricerca degna di questo nome, ha mai provato che la bocciatura sia servita, mentre moltissime hanno dimostrato il contrario.
La bocciatura, checché se ne possa pensare, costituisce un trauma per i ragazzi, andrebbe sempre accompagnata, preparata e, per certi aspetti, condivisa. Non può essere lasciata alla solitudine della sua interpretazione, non può non essere proiettata senza un progetto di azione che insegnanti e genitori discutano con i ragazzi.

Il maestro - Eravamo a metà degli anni 70, il mito della rivoluzione scemava e si faceva strada la convinzione che la rivoluzione si potesse fare a scuola, che un mondo migliore lo si sarebbe potuto edificare con cittadini più liberi che, appunto, dovevano essere educati e “cresciuti” alla criticità, all'abbattimento* dell'autoritarismo.
Via la cattedra, via il maestro unico, niente più voti, tutti alzavano la mano per intervenire, compreso l'insegnante, parola poco usata nel lessico della classe dove si preferiva il nome in luogo dell'anonimia del cognome. Ci credevamo molto e, per quanto mi riguarda, ci credo ancora.
Apparentemente, non avevamo paura di niente, anche se scendendo a Torino per gli esami all'università vivevamo in prima persona la tensione degli anni del terrorismo, avere la barba e la camicia di lana a quadri fuori dai pantaloni (all'epoca era una esibizione di appartenenza, ora è diventata una necessità volumetrica) ci esponeva al sospetto e quindi alle perquisizioni.
Personalmente, nutrivo un certo timore sul piano professionale rispetto ai genitori dei miei alunni: avevo paura che scambiassero la fiducia che accordavamo ai loro figli per rilassatezza, al contrario, presupponeva da parte nostra un impegno superiore. Solo a distanza di tempo, quando incontro i miei allievi di quegli anni o i loro genitori e ci fermiamo a ricordare quell’esperienza, vivo una sorte di valutazione del mio operato a posteriori e ciò mi rende felice ed è questo che giustifica il “ci credo ancora”.
Pennac mi ha fatto molto riflettere su quel periodo e su come alcune cose che avevamo decisamente rifiutato e cancellato potrebbero invece avere una loro dignità, ce ne sono molte, ma due sono quelle sulle quali vorrei soffermarmi: il dettato e l'imparare a memoria. “Quale che sia stato il mio terrore infantile alla prospettiva di un dettato e Dio sa che i miei professori praticavano il dettato come una razzia di ricchi in un quartiere povero, ho sempre provato la curiosità della sua prima lettura”. Pennac illustra come da insegnante ha saputo trasformare questa sua curiosità in strategie dolci ed avvolgenti per riconquistare i suoi allievi alla logica del dettato.
Sulle poesie imparate a memoria ha scritto pagine bellissime: “Ripenso a quella terrificante esperienza della recitazione davanti alla cattedra solo per tentare di spiegarmi il disprezzo con cui oggi si considera qualunque sollecitazione della memoria. Sarebbe dunque per scongiurare questi fantasmi che si decide di non appropriarsi delle pagine più belle della letteratura e della filosofia? Testi cui si nega la possibilità di essere ricordati solo perché degli idioti ne facevano una semplice questione di memoria? Se così è, significa che un'idiozia ne ha soppiantata un'altra […].
Imparando a memoria, non supplisco a nulla, aggiungo a tutto.
La memoria, qui, entra nel cuore della lingua.
Tuffarsi nella lingua, è questo che conta.
E se tuffandomi bevo, poi mi tuffo lo stesso. Facendo imparare tanti testi ai miei allievi li gettavo vivi nel grande fiume della lingua, quello che scorre lungo i secoli per venire a bussare alla nostra porta e ad attraversare la nostra casa.

A distanza di 30 anni credo che non avrei più paura di praticare il dettato e la poesia a memoria, anch'io sarei pronto per riformarli, invece di abbatterli.

Le paure dei genitori - Adesso, sono anche padre, anzi sono padre da 16 anni e spesso mi chiedo se le analisi sociologiche che parlano di una carenza di autorità dei genitori di questa società non tocchino anche me?
Sentiamo, come genitori, un’inadeguatezza a viverci come coloro che devono tracciare limiti: di qui il giusto, il lecito, di là il male, il vietato. Tendiamo a spostare tale confine, a renderlo variabile a nostro piacimento e non so, in fondo, se questo sia bene o male, ci crogioliamo nella mansuetudine dei nostri figli, nella loro naturale capacità di fagocitare la nostra comprensione di padri-bambini.
Vorremmo avere gli scontri che abbiamo avuto con i nostri genitori, ma, in fondo, ne abbiamo paura. Quando arriveranno, potranno servire per capire se sono loro che stanno sempre dentro alle regole e siamo noi arbitri che non devono fischiare mai oppure l'inadeguatezza potrebbe esploderci in mano di fronte a fatti che oggi non sappiamo immaginare, ma che potrebbero essere il frutto anche di questo nostro esitare.
Paura di sbagliare, un'ansia ben celata di non fallire nella propria genitorialità, solo il futuro potrà dirci se avevamo ragione, varranno le stesse regole della valutazione a posteriori che ho scoperto come maestro? Se il nostro sentire corrispondeva al nostro dovere, se la nostra coscienza non era incoscienza? Mi faccio aiutare dalle esperienze degli altri, ci sono anche in caso questo buone pratiche? Principi e parole che, come genitore, mi sembrano troppo accademiche, fatte per i convegni, anche se poi i libri mi aiutano, mi aiutano molto.
I padri pensano che le azioni degli adolescenti siano, in gran parte, inconsapevoli, che essi non si rendano conto dei pericoli che corrono e che una tale incoscienza sia difficile da scardinare attraverso sistemi di persuasione […]. Bisogna evitare le interpretazioni esagerate ed estreme del pericolo”. V. Andreoli, Lettera ad un adolescente, Rizzoli, 2007.
Parole che mi confortano, che chiariscono i contorni della paura, ma, invece, sono inesorabili sulla questione del conflitto: “È stato dimostrato che l'intensità dell'essere contro degli adolescenti nei confronti dei padri dipende anche dal tipo di relazione che avevano con loro nella fanciullezza.[…] Quanto migliore è stato il rapporto con loro nell'infanzia, tanto maggiore sarà la fatica del distacco. […] La conflittualità dell'adolescente è il segnale che la prima fase della crescita è stata ottima e adesso il figlio deve fare uno sforzo maggiore per separarsi”.
Che pensare allora di questa bonaccia relazionale che viviamo? Contribuiamo tutti ad alimentare l'esercito dei bamboccioni di questo paese, a mantenere i nostri figli infantili? A bloccarne cioè la crescita?
Domande senza risposte, o con risposte che verranno tardi, quando forse non ci sarà più tempo.
Credo comunque che una chiave di lettura, un criterio di comportamento esista e permetta di guardare avanti con serenità senza cadere in sentimentalismi genitoriali patetici.
Bisogna esserci, c’entrare”. La genitorialità, fortunatamente, non è una professione, non riduce la propria responsabilità a quella degli ordini ricevuti, pensiamo all'alibi del programma per certi insegnanti, non possiamo come genitori limitarci al nostro mansionario perchè non esiste, la responsabilità è tutta sugli effetti delle nostre azioni.
Allora la paura di “fare” i genitori non è un po' forse anche la paura di vivere?

Piero Floris

* il termine abbattimento faceva parte del lessico del terrorismo; si diceva, infatti, abbattimento dello Stato imperialista.

 

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