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Panico e terrore

Panico ad Oyace - Nulla lasciava presagire ciò che sarebbe successo…
Era una tranquilla mattina di aprile, il sole era sorto da poco, sugli alberi i fiori si aprivano per raccogliere questo tepore benefico, gli uccellini gorgheggiavano felici, tutto sembrava significare che una splendida giornata stava iniziando quando, all’improvviso, il trillo del telefono squarciò il silenzio. Chiedendomi chi fosse e cosa stesse succedendo, mi avvicinai guardingo: “Pronto?
Rosset Pier Angelo?” - era una voce del tutto sconosciuta, ci misi un attimo a rispondere, titubante: “Sssi…
Buongiorno è la Direzione Didattica di Gignod, avremmo una supplenza di un giorno ad Oyace, accetta?
Panico: “Oyace… dov’è Oyace? Non me lo ricordo più eppure fino a ieri lo sapevo. La macchina, la benzina mi basterà? A che ora devo essere su? Che classe?” Mentre tutte queste cose mi passavano per la testa, sentii rispondere: “Si accetto”.
Una supplenza…. Una supplenza… La mia prima supplenza, e adesso?
Va bene, calma… dunque… un astuccio, due libri, ah sì Oyace… devo andare a Valpelline e proseguire, sì, la scuola ricordo di averla vista, devo avvisare i miei che non ci sarò a pranzo… a proposito dove mangerò? Ci sarà la mensa? Non devo pensare a questo adesso, dai partiamo…
Scesi in cortile dove mi aspettava la gloriosa 500 di mia madre, girai la chiave, tirai la leva dell’aria e poi quella dell’avviamento. Borbottando e protestando un po’ si mise in moto.
Porossan: “dunque… faccio l’appello, eh sì devo fare l’appello, il registro… ci sarà un registro… ma come sarà fatto, ci posso scrivere? Poi un dettato… il libro ce l’ho, e poi vediamo”.
Roisan: “che lezione avevo preparato per Didattica, ah sì, il funzionamento di una macchina fotografica… accidenti non ho portato la macchina fotografica! Non faccio più in tempo a tornare indietro”.
Valpelline: “che classe? Non me lo ricordo… ma me l’hanno detto? Sicuramente, ma adesso non lo so più… i quaderni a righe saranno quelli a righe normali o quelli con le righe in mezzo più strette e le altre più larghe…”.
Voisinal (Oyace): “io torno indietro, telefono che si è rotta la macchina… no, non posso farlo, devo andare, che sarà mai…”.
Ed eccomi ad Oyace, dal portone della scuola che mi sovrastava, mi aspettavo, da un momento all’altro, di veder sbucare san Pietro a dirmi che non era ancora il mio momento. Entrai, c’era un silenzio irreale, sentivo il cuore che batteva. C’erano un corridoio, il bagno e due aule, una aveva la porta chiusa, l’altra no, decisi di avvicinarmi alla porta aperta. Appena mi affacciai, i bambini si alzarono in piedi e mi salutarono con un ossequioso: “Buongiorno, signor maestro”. Un attimo prima di voltarmi a guardare chi fosse il maestro mi resi conto che i bambini guardavano me, ero proprio io, io ero il maestro, se avessero saputo… o forse lo sapevano. Risposi: “Buongiorno bambini, sono il vostro supplente per oggi”, non me la sentivo di dire maestro, non mi sembrava il caso. Mi sedetti alla cattedra. La cattedra… se mi era sembrata grande vista dall’altra parte ora era davvero enorme. Cercavo, senza darne l’impressione, distrattamente dove fosse il registro, quando uno dei bambini mi si avvicinò.
Oggi ci siamo tutti, il maestro - quello vero, pensai - doveva andare a fare una visita medica, ci ha detto di darle questo”. E mi porse un foglio scritto con una grafia di una volta, precisa, rotonda, curata, sembrava un esercizio di calligrafia. “Per il supplente, mi sono permesso di preparare alcune cose da fare per i bambini, ma se Lei vuole può modificare il programma…
Io voglio cambiare… io non so neanche più come mi chiamo… Seguiva un elenco di cose da fare. Mi voltai verso il bambino che, con un sorriso, mi disse: “Noi abbiamo già cominciato a fare gli esercizi, possiamo continuare?
Certo, continuate pure - risposi, come se fosse la cosa più normale del mondo e aggiunsi - Se avete bisogno o se non capite qualcosa chiedete pure”.
Il bambino mi guardò come se non si fidasse molto, ma non disse nulla e tornò a sedersi. Ogni tanto qualcuno mi chiedeva qualcosa e, dopo un po’ di diffidenza iniziale sui miei suggerimenti, decisero che potevo sostituire il loro maestro per un giorno.
Scendendo verso valle, a fine giornata, mi chiesi se avevo avuto più timore io dei bambini o viceversa, la risposta era evidente ma un’altra cosa era evidente e cioè che ce la potevo fare… con l’aiuto di colleghi come la maestra Rosina, che insegnava nell’altra classe e che ringrazio ancora oggi, la quale al primo sguardo aveva capito in che stato fossi e mi aveva tranquillizzato e aiutato.

Terrore in Via Matteotti - Ci sono bravi insegnanti ed altri meno, ci sono insegnanti un po’ più “cattivelli” di altri, che ti davano un quattro con il sorriso sulle labbra ma, diciamolo chiaro, tutto e subito, la paura derivava solo ed esclusivamente dall’impreparazione. Non credo ci siano insegnanti che, per partito preso, ce l’abbiano con qualcuno. Beninteso, se uno aveva studiato…
Anch’io ho avuto paura, tanta paura. A dire il vero forse più che dell’insegnante di come avrebbero preso il cattivo voto i miei.
Forse l’insegnante che più mi ha fatto paura, in assoluto, è stato il professore di matematica alle Magistrali. Ricordo una volta che, chiaramente impreparato, ma avrei potuto prepararmi quanto volevo tanto il risultato sarebbe sempre stato lo stesso, fui chiamato alla lavagna: terrore.
Ad un certo punto ero talmente nel pallone che mi sentii male e dissi al professore, stupendomi del mio stesso ardire, che non me la sentivo di continuare in quel massacro dall'esito scontato e che avrebbe potuto mettermi il voto che voleva che io me ne sarei tornato al posto. Il professore, noto per uscite del tipo “Ti do quattro perché devi studiare, se tu dovessi morire domani, ti darebbero il diploma alla memoria e quindi devi esserne degno...”, colpito dal mio evidente stato di difficoltà, mi graziò e mi disse che mi avrebbe interrogato nuovamente nei giorni successivi.
Che voto presi la volta successiva ha poca importanza; la cosa importante è che avevo visto sotto una luce diversa il prof e, da quel momento, feci più attenzione a quello che diceva e, in maniera minore, alla sua disciplina. Il terrore mi aveva fatto scoprire una persona diversa, un educatore. Mi tornarono alla mente cose dette negli anni precedenti, ma sotto una luce diversa. Ancora adesso ricordo alcune sue frasi, di alcune sue lezioni (celebre fu quella delle linee che si intersecano nello spazio: scritto non rende, il gesto era più che eloquente), il suo sguardo curioso, le battute che parevano pallottole calibro 45, devastanti, ironiche, mai fuori luogo o esagerate, sempre eleganti. Ecco, quel professore mi ha anche fatto vivere alcuni dei momenti più terrificanti della mia vita di studente, ma mi ha insegnato tanto. Beh, in matematica forse no. Mi ha segnato così tanto che, durante i miei primi anni di insegnamento, mi trovavo a pensare: “Chissà cosa avrebbe detto o fatto il prof”.
Non so quanti dei miei compagni abbiano avuto la fortuna di capire già da “prima” certe cose, di solito a quell’età si odia l'insegnante perché si odiano la disciplina, il potere. Solo a distanza di anni ci si rende conto del valore della persona, del messaggio che ha cercato di trasmettere. Ora, che il professore non è più con noi, davanti a queste poche righe, me lo vedo con la sua barba rossiccia, i suoi occhialini a dirmi, con un lampo negli occhi: “Toh, Rosset… chi l’avrebbe detto…”.
Grazie, professor Chatrian.

Pier Angelo Rosset

 

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