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Api e formiche

Sarà la troppa passione per il mio lavoro (ma ce n’è mai davvero troppa?), sarà l’inesperienza (eppure le mie colleghe più navigate sostengono che per loro è sempre come la prima volta), ma il primo giorno di scuola, soprattutto all’inizio di un nuovo percorso con la prima media, porta sempre con sé un bel po’ di turbamento e di agitazione.
Per tutto il mese di agosto caccio la trepidazione in un angolo, cosicché le giornate scorrono veloci e il pensiero dell’incontro con la mia futura classe spunta dai reconditi meandri dell’irrazionalità solo la sera, quando già mezzo assopita penso alla giornata che è passata e a quelle, prossime, che verranno.
I primi giorni di settembre cominciano le riunioni di programmazione e io e i miei colleghi sembriamo api e formiche che si affaccendano attorno all’alveare-formicaio, qualcuno con ancora addosso il passo lento delle vacanze (più di qualcuno, a dire il vero…), qualcuno con la frenesia di chi non vuole trovarsi impreparato di fronte ai primi freddi (certe classi, se lo vogliono, sanno farti sentire davvero i brividi anche in piena estate). E anch’io, per non essere da meno, comincio a preoccuparmi e si affollano nella mia mente curiosità e paure che porterò con me, tutte condensate nello stomaco, il primo giorno di scuola, quando mi presenterò lì con il fare tranquillo di chi la sa lunga ed è sicuro di sé: più un’insegnante è se stessa più rende, ma in alcune occasioni anche essere dei bravi attori serve…

Anzitutto, i miei timori “empatici” sono rivolti alla classe che incontrerò e a cosa accadrà fra noi fin dai primi giorni: si sa, le relazioni che contano si costruiscono piano piano, giorno dopo giorno, ma la prima impressione è spesso quella che vale, quella che ti dice se si può funzionare insieme o no. Sarà un colpo di fulmine? Ci ignoreremo cordialmente? Ci sarà simpatia fra noi, o solo disinteresse? Sarà una classe aperta e sensibile, nella quale un’insegnante può davvero scrivere e lasciare il segno, o sarà una lotta continua, sul filo del rasoio fra la civiltà e la non civiltà? Quali sentimenti ed emotività si scateneranno nel campo aperto della nostra classe? Riusciremo ad intenderci?
Poi, i timori “personali” (quelli intimi-paranoici-patetici, per intenderci): sarò all’altezza del compito che mi è affidato? Saprò, novella Caronte al contrario, traghettare i miei ragazzi sui lidi non infernali ma paradisiaci della maturazione personale, del dialogo con sé e con gli altri, dell’umanità consapevole? Avrò sufficiente attenzione e capacità di ascolto per sfruttare le potenzialità, valorizzare le doti, accogliere e superare i limiti? Saprò rendermi conto e far tesoro degli errori che, inevitabilmente, commetterò?
In terzo luogo, ci sono i timori “professionali”, “disciplinari”, “sissini”, per intenderci: sarò fedele all’epistemologia delle mie materie? Appassionerò i ragazzi ai valori della letteratura, allo spirito di osservazione della geografia, all’attitudine critica della storia? Saprò fare educazione linguistica e non solo grammatica? Valuterò con oggettività? Partirò dal loro quotidiano? Lancerò messaggi-tu o messaggi-io? Saprò proporre nei momenti giusti brainstorming, cooperative learning, lezioni frontali, uso delle TIC, letture guidate, studio coatto, e chi più ne ha più ne metta? E dove troverò il tempo per il lifelong learning? In sostanza, tutte le belle cose studiate all’università e durante la specializzazione salteranno fuori da qualche parte nel mio fare scuola?
Infine, ci sono i timori “reverenziali” (verso colleghi e dirigente) e quelli “parentali” (verso i genitori): con i tempi che corrono, timori – soprattutto l’ultimo – non di poco conto.
Ecco cosa c’è, in conclusione, dietro il sorriso entusiasta e sicuro di sé di un’insegnante il primo giorno di scuola; ed è solo il primo giorno! Vai a spiegarlo a chi pensa che quello dell’insegnante non è un lavoro usurante.

Patrizia Luciani

 

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