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Paura, tristezza, rabbia, noiezza

La paura è un’emozione di tutti. Ai bambini come agli adulti bisogna fornire strumenti per comprenderla e gestirla autonomamente. L’esperienza di una classe di scuola dell’infanzia di Morgex (Ao).

Condivido con i lettori con estremo interesse alcune riflessioni sull’emozione della paura perché si tratta di un argomento che sto affrontando con i bambini cui insegno, cercando di analizzare con loro le esperienze che percorrono. Ritengo che sia questo il punto centrale della mia riflessione: non tanto capire che cosa sia la paura, perché, di fatto, ognuno di noi, adulto o bambino, vive la paura o le infinite paure quotidiane in modo diverso, ma comprendere che soltanto la condivisione ed il confronto consentono alla paura di diventare un’emozione tollerabile e non distruttiva.

L’esperienza didattica

Il martedì pomeriggio è il giorno dedicato a lavorare insieme sulle emozioni: rabbia, paura, felicità, noia. Tale decisione, condivisa con le mie colleghe, è nata dal desiderio di offrire uno spazio definito nel tempo in cui ogni bambino potesse raccontare la sua esperienza emozionale, in un luogo capace di contenere emozioni, favorendone la masticazione simbolica, la frammentazione e la successiva riappropriazione della propria esperienza.
Il punto di partenza è stato un racconto di M. Sunderland, pubblicato per le edizioni Erickson, Aiutare i bambini ad esprimere le emozioni(1), in cui un bambino di nome Nonimporta lascia che ogni avvenimento ed ogni angheria prendano il sopravvento nella sua vita quotidiana fino a quando i soprusi, che minano continuamente la sua autostima, lo portano a non gestire più la frustrazione.
Ho deciso di non leggere in un’unica volta tutto il racconto, ma di suddividerlo in due momenti distinti per consentire ai bambini di fare riflessioni e proporre ipotesi, favorendo l’emergere di un confronto spontaneo rispetto alle diverse emozioni che il piccolo protagonista del racconto, Nonimporta, viveva.
L’obiettivo è stato, per me, quello di favorire la condivisione di queste emozioni in gruppo per fare capire ai bambini che ciò che loro sentono, le emozioni appunto, non sono solo loro, ma di ogni individuo, cercando di sostenerli nella loro espressione e nell’aiutarli ad identificare ogni emozione con il nome giusto. Attribuire un nome alle emozioni è un momento importante del processo che si è andato costruendo in classe, spesso, infatti, i bambini non sanno chiamare ciò che sentono con il giusto nome. Questo crea confusione e disorientamento, elementi che li allarmano e non consentono il loro orientamento nel mondo.
In un secondo momento, ho chiesto ai bambini di raccontare le loro paure e di disegnarle, con pennarelli, matite colorate, pittura. Ma ciò che per me è risultato significativo è stato chiedere loro in che modo facessero fronte alle paure, per comprendere come fornire un adeguato autosostegno, inteso come la possibilità di prendersi cura di sé, e un eterosostegno, cioè prendendomi cura di loro.
La domanda che nasce a questo punto dal processo relazionale è: “Dal momento che la paura è un sentimento condiviso e comune come fai a non aver più paura quando hai paura?
Per fornire una risposta, ognuno di loro ha inventato uno scacciapaura o uno scacciarabbia, secondo il bisogno che emergeva in quel momento, individuando la sua personale risorsa da utilizzare in caso di necessità. Credo che questa fosse presente anche prima di questo lavoro in gruppo, ma avesse bisogno di essere resa esplicita e quindi riconoscibile come fonte di aiuto.
Ogni emozione, per essere percepita ed assimilata, necessita di un supporto che ne consenta il riconoscimento e l’elaborazione. Tale supporto è relazionale perché è nella relazione che le emozioni prendono vita. Ritengo che aiutare i bambini a rendere esplicito o visibile ciò che conservano nella loro esperienza in modo nascosto per il timore del giudizio negativo degli adulti o per il bisogno di proteggersi dalle loro stesse emozioni, possa favorire relazioni più spontanee e creative e facilitare l’adattamento creativo tra l’individuo e il suo ambiente. Questo sostiene il processo relazionale sottostante, indispensabile per essere orientati nel percorso di crescita.
Vorrei concludere con alcune definizioni della paura, date dai bambini:
“Quando ho paura sento le ossa che mi tremano…”
“Il modo per non scoppiare è non mettere tutto dentro: quella roba… la paura, tristezza, rabbia, noiezza…”
“Si deve tenere poco dentro e si butta fuori come: dirlo a qualcuno, pensare cose belle, urlare forte.”

Le ipotesi

La mia attenzione nei confronti delle discussioni che avvengono in classe non è rivolta tanto al contenuto, cioè a che cosa i bambini dicono, ma al processo sottostante la discussione. Grazie al confronto e all’ascolto, si possono portare i bambini a verificare che tutti, ma proprio tutti hanno paura, anche gli adulti, e così consentire loro di fare esperienza dell’universalità di questa emozione.
L’attenzione al processo, cioè al come si declina la relazione in classe rispetto al tema della paura o della rabbia, nasce dal mio orientamento teorico, la psicoterapia della Gestalt che considera la relazione come elemento centrale di incontro e cura, anche da un punto di vista educativo.
La relazione è intesa come processo di crescita sano, quando presuppone la capacità di entrare in contatto in modo fluido e improntato al ritmo con elementi di novità e appropriati, è il modo sano di entrare e uscire dal contatto, un sano dare e avere, un sano mettere dentro e un mettere fuori, è il rapporto con una sana aggressività che consenta all’individuo di fare esperienza del mondo con modalità arricchenti. (D. Iacono, G. Maltese, 2001)(2)
La psicoterapia della Gestalt presta, infatti, particolare attenzione al ruolo dell’educazione che vede inserita all’interno di un processo circolare in cui insegnante e allievo si trovano a condividere uno spazio che, oltre ad essere educativo, è anche intersoggettivo. Se consideriamo la definizione di educazione, che la tradizione occidentale fa derivare dal latino ex-ducere, trarre fuori, consideriamo un movimento che dovrebbe portare chi viene educato ad esprimersi liberamente; ma educare significa anche nutrire, formare, curare, derivazione questa del verbo latino educare. Indipendentemente dal significato filologico, Duccio Demetrio(3) sostiene che il lavoro educativo è un gioco dinamico tra la trasmissione di conoscenze e la sua suscitazione, che accentua il ruolo partecipativo di chi apprende.
Questo ruolo implica un atteggiamento attivo che ogni individuo mette in atto per sé stesso al fine di apprendere, conoscere, cambiare qualcosa.
In generale, finalità dell’educazione è di promuovere ciò che di individuale esiste in ogni persona, facendo in modo che ognuno faccia proprio tale apprendimento e lo integri con il suo modo di essere. L’educazione viene, quindi, considerata come uno spazio dato dall’interazione fra due menti che interagiscono e si influenzano: è un rapporto basato, sulla comprensione e sulla disponibilità a costruire insieme uno spazio fisico e mentale all’interno del quale conoscersi e conoscere(4). (M. Postic, 1994)
Nella relazione educativa si considera la reciproca influenza che insegnante e alunno si scambiano, si considera il divenire del bambino, un divenire che è strettamente connesso alla presenza di un’altra persona con la quale poter interagire. La relazione educativa è quindi caratterizzata dal reciproco scambio di esperienze. Educare non significa limitarsi a proporre nuove conoscenze che vengono acquisite, ma fare in modo che queste conoscenze assumano nella vita della persona un ruolo significativo.
L’educazione è, però, vuota di significato se viene a mancare l’aspetto intersoggettivo, che può essere sintetizzato con “io so che tu sai che io so” e “io sento che tu senti che io sento” (D.N. Stern, 2000)(5). Ciò sta ad indicare la presenza, al confine di contatto tra insegnante e alunno, dove per confine di contatto intendo “il luogo di confine in cui avviene l’incontro tra un organismo umano e l’ambiente che lo circonda, è l’esperienza del contatto” (P.A. Cavalieri, 2003, p. 69)(6).
In questa esperienza di contatto hanno origine le emozioni, i sentimenti, la memoria, cioè la vita psicologica dell’individuo. In Gestalt, l’esperienza è esperienza di contatto, si situa al confine tra organismo e ambiente, è funzionamento del confine tra l’organismo e l’ambiente, è l’organizzarsi e lo strutturarsi degli elementi intorno ad un bisogno che a sua volta organizza l’esperienza stessa(7). (J.-M. Robine, 2006)
Ciò significa dare ordine a tutte le esperienze all’interno del campo, inteso sempre come campo relazionale, che, in questo caso, è dato dai bambini e dalle insegnanti.

Alda Pallais

 

Note
(1) Sunderland M. (2005),
Aiutare i bambini... a esprimere le emozioni, Erikson, Trento.
(2) Iacono D., Maltese G. (2001),
Le piccole cose, Cittadella, Assisi.
(3) Demetrio D. (1997),
Il gioco della vita. Kit autobiografico: Trenta proposte per il piacere di raccontarsi, Guerini e Associati, Milano
(4) Postic M. (1994),
La relazione educativa, Armando, Roma.
(5) Stern D.N. (1998),
Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica, Cortina, Milano.
(6) Cavaleri P.A. (2003)
La profondità della superficie. Percorsi introduttivi alla psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli, pag. 69.
(7) Robine J.-M. (2006),
Il rivelarsi del sé nel contatto, Franco Angeli.

 

 

 

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