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Canto e Controcanto

Canto

Dagli atrii chiassosi, dall’aule cadenti,
- più foschi, con animi e cuori scontenti -,
dai fogli bagnati di cólto sudor,
il volgo dei profi ogni anno s’appresta,
intende le nuove, solleva protesta,
invaso da noti crescenti timor.

S’adunano in sale-docenti i colleghi,
esempi preclari di pubblici impieghi,
con compiti immani che dirvi non san:
han piene le teste di pésti pensieri,
emetton mugugni più oggi che ieri
s’adattano a fare il loro tran-tran.

Dai guardi dubbiosi, dai pallidi volti,
qual lampo appannato da nuvoli folti,
traluce ogni tanto l’insana passion:
riprender le forze e andare in trasferta
alla macchinetta - la classe è scoperta? -
sorbirsi il caffè tenendo concion.

Ed ecco gli alunni, con gravida sacca,
a ranghi disciolti, con qualche risacca,
da ritta, da manca, a sciami venir.
Chi vede, rapito da noto scontento,
con agile mente cancella l’evento,
e sogna la fine del lungo patir.

Guizzanti li vede, quai rapide fère,
irsuti per moda le varie criniere,
le note latèbre dell’aule cercar;
e quivi, rifatta l’usata minaccia,
docenti stressati, ripresa la faccia,
gli alunni penosi pensosi guatar.

Coi lobi forati borchiati ad anelli,
per ben apparir e sembrare più belli,
t’ignoran beati nel loro candor;
con protesi video e dita allenate
che l’evoluzione farà smisurate,
son pronti peraltro a mandarti al creator.

Che han solo bisogno di teste ben fatte,
non certo di quelle integrate e coatte,
è quanto non vogliono proprio capir;
che tocchi alla scuola finire in commedia
se tanto a valere son sempre più i media
è quanto allor spinge dei profi a fuggir.

Eppure! Abbiam profi che tengono il campo,
ai picciol tiranni precludon lo scampo,
e usano i ferri del loro mestier:
affrontano alunni dai toni ingiuriosi,
correggon scorati quei compiti uggiosi,
accorron repente a squillo guerrier!

Testardi, di classe poi passano in classe,
e sempre han trovato chi li sfidasse,
ma anche l’alunno ch’è entrato nel cor;
a volte hanno terso dei pianti dirotti,
più spesso ascoltato discorsi interrotti,
riuscendo con sforzo a domare il furor.

E il premio sperato, sognato dai forti,
sarebbe, o potenti, rivolger le sorti,
del volgo docente por fine al dolor!
Ma siete alle vostre continue manfrine,
sfornate quei fogli da vostre officine
su cui si sbaruffa con qualche sopor!

Il profio si mesce all’invitto discente,
col nuovo ministro non cambierà niente,
sempre più impegni insieme con guai;
e resteran bassi i loro stipendi
facendo svanire dei sogni stupendi
del volgo scontento dei professor-ahi!

(Divagazioni sul manzoniano Adelchi,
Atto terzo, Coro)

Controcanto

Eccola, la paura di una dirigente: che la scuola sia percepita così e così finisca, con queste immagini stereotipate di un sistema sempre uguale a sé stesso, recalcitrante ai cambiamenti, con i piedi bloccati nella palude dell’inerzia. Sono le famose permanenze, forze oscure e profonde che resistono ad ogni sollecitazione:
• con alunni sempre più ingestibili, disimpegnati, indolenti, in difficoltà di apprendimento, in oscillazione tra noia ed eccitazioni, calati per troppo tempo dentro le loro protesi video (dalla tv al computer al cellulare);
• con genitori sempre più aggressivi, che nel passaggio da un’educazione autoritaria ad una “democratica”, della contrattazione continua e su tutto, percorrono le vie del permissivismo, della delega pressoché totale, allevando non più un figlio Edipo (con senso del dovere e sensi di colpa), ma un figlio Narciso (accudito e coccolato “a miracol mostrare”), di cui diventano i più agguerriti sindacalisti (perché la scuola è vissuta da loro come la controparte);
• con l’apparato burocratico e legislativo in continua ebollizione. Prima, da un piccolo mondo circoscritto, i nostri bravi proff combattevano contro le lentezze e gli impicci della macchina burocratica. Oggi la paura è rovesciata: il mondo si è spalancato troppo in fretta, ci costringe a rincorse affannose, non teniamo più dietro alle accelerate mutazioni di una società globale che, nel nostro ambito, ha dato il via al susseguirsi incalzante, in tempi brevissimi, di sempre nuove disposizioni ministeriali, norme, leggi, direttive, circolari, indicazioni. La scuola non fa in tempo prima a conoscere poi a metabolizzare le novità che già la linea è cambiata, i contrordini vengono diramati, i docenti si ritrovano arrabbiati;
• con i mass media che cavalcano l’onda degli aspetti scandalistici, regolarmente amplificati dai titoli ad effetto, sempre in negativo; che procurano ai ragazzi emozioni e contenuti da vivere sul momento in un perenne rumoroso proscenio, mentre un tempo erano silenziosamente e nascostamente scoperti, come un tesoro, nelle pagine della letteratura alta, maestra di vita e madre di esperienze;
• con docenti mal pagati dallo Stato, bistrattati da alunni e genitori, alle prese con un lavoro che richiede notevole impegno intellettuale ed emotivo e che, per contro, ricevono uno scarsissimo riconoscimento sociale e perciò si sentono falliti, impotenti, tirano il 27 e non vedono l’ora di andare in pensione.
Questi sono in sintesi gli stereotipi di cui si nutrono le analisi di dotti sociologi, psicologi, pedagogisti, professionisti dell’educazione con le conseguenti geremiadi sulla scomparsa dei valori, sul malefico influsso dei media, sugli effetti di una società drogata dai nuovi miti del successo, della reificazione, dell’apparire.
La nostra paura è che la scuola sia vista, dal di fuori, solamente così, in bianco e nero (e con il nero che tende a prevalere), due non-colori ben stagliati che vorrebbero squadrare con nettezza le situazioni.
Ma la scuola che è vissuta dal di dentro attraversa invece zone dai colori e dai toni cangianti, variegati, sfumati, zone di luce e d’ombra, zone di confine, delle differenze, delle sottigliezze, dei difficili e precari equilibri, sempre da ricostruire e riconquistare, dove possiamo incontrare gioie e dolori, e più di una paura.

Paure e dintorni - La paura di non controllare tutto: a scuola i ragazzi portano con sé pensieri, desideri, paure, problemi che esulano dallo stretto ambito scolastico; abbiamo a che fare con tutto il loro mondo, non solo con gli aspetti razionali, tanto più facili da controllare.
La paura dell’incoerenza scuola-famiglia, che amplifica le insicurezze e le fragilità non solo dei singoli, ma di tutto il sistema educativo.
La paura che, per i docenti, la stanchezza, lo stress, il mancato riconoscimento sociale si tramutino in staticità e, alla lunga, generino insoddisfazione, distacco emotivo, disimpegno, demotivazione profonda. A volte fiorisce, come un fiore del male, il disincanto (legittimo abitatore di poesie e filosofie, ma che è bene non trasmettere ai giovani).
La paura che lo stress diventi patologia, perché colpisce quei lavoratori, come i docenti, che più hanno a che fare con le relazioni umane: se non si sa instaurare un rapporto profondo e positivo sul quale costruire ed educare la propria professionalità, il fallimento può portare alla perdita del controllo di sé, alla fuga dalla scuola.
(V. Lodolo D’Oria, Scuola di follia, Armando editore)
La paura non solo di non essere riconosciuti nel ruolo di autorevolezza che dovrebbe connotarci (minaccia esterna al potere educativo della scuola), ma soprattutto di non trovare noi stessi la nostra identità di educatori, di non crederci più.
La paura, di conseguenza, che i docenti e tutti gli operatori scolastici non riconoscano, e non pratichino, la necessità di una formazione e non solo di una preparazione.
La paura che non si accorgano, tra un borbottio e l’altro, che spesso i documenti ministeriali hanno parti di alto livello: “si teme purtroppo che qualsiasi Programma o Indicazione troverà sempre scuole e docenti che attendono chiarimenti e che si chiedono di quale colore sono le foglie dell’albero in cui vivono, senza pensare che intanto è meglio innaffiare l’albero e liberarlo dalle erbacce degli ostruzionismi” (Rosella Tirico).
La paura, per un dirigente, di essere fagocitati dalle emergenze e di non riuscire a curarsi quanto basta degli aspetti più significativi.
La paura di non riuscire a motivare, guidare, innovare e di non portare la scuola ad essere, in tutte le sue parti, un sistema che apprende.
La paura di non vedere realizzato il nostro progetto educativo: quale seme da noi seminato germoglierà, quanto lontano nel tempo, quanto lontano dai nostri occhi, come lo distingueremo dagli altri?
Per poi provare la paura più grande, di aver seminato il seme non voluto: “Il tremendo mistero dell’educazione, con professori che temono di non saper fare per scoprire che non sanno ciò che fanno: una parola, un gesto, un insegnamento rimasto ignoto persino a chi lo impartisce” (A. Scurati, Il sopravvissuto). Io ricordo il missile lanciatomi da una ex alunna al termine di un incontro, mentre mi salutava cordialmente con la mano sventolante: “Si ricordi, prof, voi avete il potere di assassinio!”.
La paura che non si avverta la dimensione etica dell’insegnamento, vedendone solo la routine delle pratiche didattiche e delle strategie operative; ma la scuola non deve limitarsi ad offrire saperi procedurali, processi, metodi, non è un setting di allenamento alla strumentalità, deve invece produrre conoscenza, cultura, memoria, identità, educando l’emotività e aiutando a costruire senso e motivazione: “Educare è accendere un fuoco” (F. Yates).
E molte altre paure ancora.
A questa scuola confusa e spaesata, ma ancora (anzi, sempre più) colorata, ai suoi insegnanti e dirigenti non malati, ma in sofferenza, non in forma, si avverte l’urgenza di dire, con una frase pronunciata da Karol Wojtyla all’inizio del suo pontificato e che è stata la costante del suo messaggio, “Non abbiate paura” (e Niccolò Ammaniti ha risposto con il suo bellissimo Io non ho paura).
Ma abbiate paure” avrebbe dovuto aggiungere, perché, se la paura è una percezione negativa, profonda, spesso paralizzante, le paure sono invece più oggettivabili, parziali, riducibili, sono come i Curiazi che si possono affrontare uno alla volta e si possono vincere.
E allora rappresentiamole, proviamole, metabolizziamole, elaboriamole, sopportiamole, supportiamole, nutriamole, ringraziamole… perché ci mantengono all’erta e vitali.
Poi al mattino, ore 7,55, alla turba sciamante che si rovescia negli atrii chiassosi, noi, non turbati, sorridiamo il nostro “buongiorno”. Cresceranno. Non le paure. I ragazzi.
Non malgrado la scuola. Ma, almeno in parte, nella scuola, con la scuola, per (a causa di, attraverso) la scuola.
E continueremo a muoverci in zone di confine, ora al di qua ora al di là di qualcosa, dove troveremo sempre qualcuno che testardamente non si arrende. Saremo sempre come il pendolo tra due poli: uno che mentre ci sprofonda in vertiginoso abisso ci avverte che quello è il ciclo della vita, “l’insondabile mistero dell’educazione che ci spinge a rimestare nel bene e nel male, nel giusto e nell’ingiusto, nel bello e nel brutto con le mani sporche e senza alcuna competenza, non è mai stato altro che, per un fatto naturale, come l’esistenza vegetale che germoglia, per cui le generazioni sono come le foglie, una nasce mentre l’altra svanisce” (A. Scurati, Il sopravvissuto); l’altro che ci spinge a continuare a lottare, a guardare alto e lontano, perché l’educazione è un’utopia necessaria. Ancora più necessaria in una “società liquida” come viene chiamata la nostra, dove il naufragar può non esser dolce in questo mare, ma “se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte… se nel mio piacere è un piacere di navigante… coraggio! vecchio cuore!” (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra).
Dunque, coraggio, vecchia scuola: solo così, districandoti dalle panie dei cliché e degli immobilismi e governando le paure, puoi sperare di rinnovarti.

Maria Morina

 

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