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"Una storia che pensa i pensieri"
Quando si narra si costruisce l’altro da sé.
Riuniti sul tappeto tra il chiacchiericcio generale chiedo ai bambini di aiutarmi a capire una cosa che non mi è tanto chiara: che cosa voglia dire raccontare.
Subito mi guardano straniti, mi dicono che ho un libro in mano, che quello è un racconto. Dico che non capisco il loro punto di vista e allora mi vengono in aiuto
cercando di spiegarmi il significato del racconto, che io considero parte di un processo relazionale.
“Per imparare una storia significa che bisogna ascoltare per imparare”
“Per sapere cosa hai fatto” (esperienza)
“Ci raccontano cose belle e cose brutte”
“Ci sono storie di guerra e cartoni animati”
“Mi piacciono i personaggi che diventano amici”
“Ce la ricordiamo”
“Le raccontiamo”
“Si raccontano le storie per fare sapere”
“Si inventa una storia ci pensi i pensieri stanno nella testa”
“Poi unisci i pensieri e così diventa una storia e la puoi raccontare”
Bravi! Proprio bravi, perché in queste poche frasi è racchiuso il senso del racconto e del raccontare. Era importante per me capire il loro punto di vista, sapere che cosa prendono e cosa danno alle storie che io racconto loro o che loro raccontano a me.
Il racconto accompagna la vita di ognuno di noi in ogni momento della nostra esistenza. Raccontiamo la nostra esperienza quotidiana per entrare in relazione con l’altro e nel modo con cui lo facciamo esprimiamo la nostra vicinanza o lontananza rispetto al nostro interlocutore.
A scuola il racconto e il raccontare scandiscono la giornata fatta di un’esperienza che acquista significato perché continuamente in movimento. Nella relazione nasce quindi il racconto inteso come possibilità di incontrare l’altro e modificare la nostra esperienza.
Ascoltare per condividere - I bambini confermano questo dicendomi che per loro raccontare è ascoltare per imparare, ma anche usare i pensieri per costruire una storia per poi poterla condividere. I pensieri stanno nella testa e l’esperienza rappresenta forse il modo con cui essi diventano parte di noi. Capita di ritrovarsi, bambini ed insegnanti, impegnati in conversazioni che talora sono caotiche per il desiderio del troppo dire. Il desiderio, così, “diventa luogo di incontro” (Le piccole cose, 2001) in cui, come affermano Dada Iacono e Gheri Maltese, ognuno esprime il proprio punto di vista, risultato di ogni singola esperienza.
Ascoltare per imparare - Le storie, ci dicono i bambini, servono per imparare e per ascoltare, raccontano di guerre o di amici, di quotidianità o fantasia. Nel raccontare, ogni volta si crea uno spazio intermedio in cui il racconto e il suo declinarsi incontrano il bambino e la sua immaginazione e in cui il lettore incontra il bambino in
relazione con la storia e con il lettore. Diventa un momento di scambio non solo di informazioni, ma anche di esperienze, in cui realtà e fantasia si intersecano per creare uno spazio nuovo, la cui caratteristica è, ritengo, quella di essere un adattamento creativo, ovvero una interazione attiva che si verifica al confine di contatto tra l’individuo e il suo ambiente (La Gestalt,1990). L’adattamento creativo, afferma Pietro Cavaleri, non può non essere consapevole, perché nasce dalla consapevolezza del contatto attuale, ovvero dell’essere pienamente presenti nel qui ed ora, e la rielaborazione personale di quanto avviene dall’esterno andrà così ad espandere il mondo sia dell’alunno che dell’insegnante (P. Cavaleri et al., Quaderni di Gestalt, 1993).
I punti di vista - Daniel Stern afferma che, tra i due anni e i due anni e mezzo, si sviluppa nel bambino il sé narrativo, che riguarda il modo con cui il bambino vede la
propria vita, la versione della trama che racconta a se stesso, che include alcuni aspetti costanti come la motivazione, lo scopo, i mezzi e il contesto; in secondo luogo implica l’andamento del dramma, che può esprimere un crescendo, una caduta, un rovesciamento, una risoluzione, e così via. Si tratta di un aspetto interculturale, universale, la versione ufficiale che diamo della nostra vita. (D. Stern, Quaderni di Gestalt, 2000). In questo, io ritrovo il senso del racconto e del raccontare, come presenza di molteplici punti di vista e significati che si alternano all’interno dello stesso raccontare, ma che acquistano un diverso valore a seconda del momento in cui vengono raccontati e condivisi.
È un’esperienza piacevole, e per me costruttiva, raccontare una storia ai bambini e interromperne il finale. Dire loro che, da un certo punto in poi, quel racconto o quella storia avranno un finale non previsto dallo scrittore. Questo offre a noi tutti la possibilità di immergerci nella fantasia animata dalla loro esperienza: formulano
ipotesi, inventano percorsi, discutono animatamente su chi fa cosa o sul perché non può farlo, si arrabbiano o ridono. Così, un momento di ascolto che nasce anche dal bisogno di affinare la capacità di attenzione, diventa momento di incontro spontaneo. Solo quando il processo collegato alla fantasia e alla condivisione di questo momento si è concluso leggo loro il finale presentato dallo scrittore, per cogliere insieme similitudini e differenze e creare così un altro momento di incontro.
Nel fare questo mi accorgo che l’interesse dei bambini aumenta, si assumono la responsabilità della narrazione, imparano ad ascoltare il punto di vista dei loro compagni o dello scrittore, cambia l’interesse e la motivazione acquista valore. Afferma sempre Cavaleri (1993) che l’interesse e la motivazione nascono innanzi tutto dal configurarsi della novità. In altre parole, nel contatto con il nuovo, il sé si manifesta e si realizza, il sé è lo stesso atto di adattarsi alla novità in maniera creativa. Il sé non è altro che la capacità di fare contatto con il proprio ambiente, spontaneamente e deliberatamente. La ragione che muove il sé è l’intenzionalità di contatto che
in Gestalt è sempre relazionale (M. Spagnolo Lobb, Psicoterapia della Gestalt, 2003) e la relazione crea esperienza. Nel racconto reale o di fantasia l’esperienza è co-creata da bambini e insegnanti e il fine è dare vita ad un’esperienza diversa all’interno della quale poter ritrovare se stessi oltre all’altro membro della relazione.
Dice D. Stern (Il momento presente, 2005) “L’assunto di base è che il cambiamento sia fondato sull’esperienza vissuta. Comprendere, spiegare e raccontare qualcosa non è sufficiente di per sé a produrre un cambiamento. Ci deve essere anche un’esperienza reale, un evento soggettivamente vissuto, con sentimenti espressi e azioni compiute in tempo reale, nel mondo reale, con persone reali, in un momento esperito come presente. Guardare negli occhi l’altro che ci sta guardando e tirare un profondo sospiro mentre parliamo con qualcuno sono due semplici esempi di esperienza vissuta; in entrambi i casi l’azione è accompagnata da un effetto”.
Nella nostra esperienza quotidiana di insegnanti siamo costantemente soggetti a questo assunto di base. Infatti, non è possibile immaginare di entrare in relazione con i bambini senza fare i conti con questo tipo di esperienza, reale e continua. Per loro natura i bambini vivono nel qui ed ora “ed ora è il momento in cui viviamo la nostra vita così com’è” (Il momento presente, 2005).
Alda Pallais
Docente
I.S.C.M. Valdigne Mont Blanc
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