BENI CULTURALI
Divagazioni sui termini natura, cultura, ambiente e appunti per un progetto di recupero di una cultura del territorio.
PER UNA CULTURA DELL'AMBIENTE
di Flaminia Montanari
L'introduzione nella cultura contemporanea dell'idea di 'ambiente" pareva aver assorbito e composto la tradizionale contrapposizione dei due termini natura/cultura; il nuovo concetto sembrava promettere un rapido sviluppo della disciplina che da esso discendeva, l'ecologia, lo studio degli equilibri che legano tra loro le diverse forme di vita in un luogo; è parso insomma, per breve tempo, che si fosse vicini a trovare la chiave di una nuova età dell'oro, in cui l'Uomo potesse ritrovare un accordo con tutte le altre forme di vita. Assistiamo invece sempre più, di fatto, alla fuga nelle due opposte direzioni: da un lato verso il mito della Natura, divinità primigenia, che l'uomo può solo assecondare inserendosi nei suoi processi senza alterarli, (tutto ciò che è "naturale" è anche intrinsecamente buono, e l'uomo non deve modificare l'assetto che la Natura si è data); dall'altra un'altrettanto mitica e trionfale visione dell'Uomo che, impadronitesi delle leggi della Natura, ne diventa padrone e la plasma e trasforma a proprio piacimento: una natura regolata dal computer in funzione delle esigenze umane, ma di un'umanità che diventa essa stessa progetto e costruzione. La Cultura si fa creatrice del nuovo ambiente. Il clamore e la preoccupazione suscitati dalla pecora Dolly sono i segnali del disagio e del conflitto in cui versa la fine del nostro secolo. Ma nel concetto stesso di "ambiente" i due poli Natura/Cultura non sono più scindibili; non è più lecito ormai giocare sulla contrapposizione di questi due termini. L' "ambiente" non è infatti che il campo delle interazioni tra tutte le componenti che condividono la vita su di un territorio fisico, in una ricerca dinamica di equilibrio che fa sì che l'ambiente stesso si trasformi continuamente.
Se dovessimo solamente far riferimento alla Natura, dove mai essa esiste ancora allo stato primitivo, senza influenze antropiche, almeno nel nostro ambito europeo? E allora quale stadio o assetto, tra i tanti storicamente assunti dallo stesso territorio, vorremo chiamare "naturale"?
Non solo quindi il termine "cultura", ma lo stesso termine "natura" è diventato illeggibile da solo, nel momento in cui si è messa in evidenza la loro integrazione nel più complesso concetto di "ambiente". D'ora in poi, l'Uomo non può più permettersi di porsi al di fuori, di sentirsi un osservatore esterno dei fenomeni fisici, così come postulato dalla scienza del secolo scorso: da Heisenberg in poi, siamo condannati a sapere che il nostro stesso atto conoscitivo è un entrare in rapporto con le cose che in parte le modifica: non conosciamo le cose, ma il nostro rapporto con le cose, non sappiamo cos'è il nostro mondo ma sappiamo qua! è la rete di relazioni, il campo di forze in cui interagiamo con esso, le regole del nostro comune divenire. Quando ho letto che la pecora Dolly è nata vecchia, ho provato una sensazione di sollievo: possiamo duplicare gli esseri fisici, ma la storia ce la portiamo dentro, il tempo ci marca indelebilmente e il suo segno non può essere cancellato. Non si va contro la storia, proprio perché essa non è che il processo che ci rende accessibile il mondo in cui viviamo, Sarebbe interessante capire se Dolly ha anche ereditato l'esperienza della cellula originaria: in questo caso lai cosa sarebbe ancora più deludente -quale vantaggio si può avere a ripercorrere la stessa strada? L'ambiente si trasforma per i processi di adattamento e mutazione che ogni individuo apporta alla specie; ogni percorso individuale è una ricerca di nuovi equilibri, apre nuove possibilità all'umanità intera: duplicare gli esseri viventi, replicare un "modello" vuoi dire invece cercare di bloccare l'evoluzione, scegliere di costruire un
mondo di formiche, dove non esiste una cultura ma solo un codice di comportamento trasmesso genetica-mente per assicurare la sopravvivenza della specie. La letteratura e il cinema del nostro secolo hanno ampiamente esplorato con l'immaginazione questa possibilità, alimentando il nostro sospetto verso la ricerca scientifica ed offrendo spunto per il sorgere di fobie collettive nei confronti del futuro.
Ho visto al mare un bambino di quattro-cinque anni giocare con degli omini di plastica, e ho fatto non so più quale osservazione sui suoi soldatini; mi ha guardato male, e mi ha risposto che non erano soldatini, ma "replicanti". "Cosa sono dei replicanti?" - gli ho chiesto io. Mi ha spiegato con aria di sufficienza che i replicanti sono come degli uomini ma non sono uomini, sono tutti uguali come dei robot; il vantaggio è che non si possono uccidere, perché sono già morti. La risposta mi ha colpito molto, non solo per la presa di coscienza da parte mia che non è stato il "caso Dolly" a divulgare il dibattito sulla donazione, ma di quanto l'idea stessa sia assimilata dalla nostra cultura - tanto che un bambino di quell'età è stato in grado di darmene una definizione così puntuale - ma soprattutto per il suo contenuto: uomini che non muoiono perché in realtà sono già morti. Potremo replicare Dolly in modo che la sua cellula non muoia mai, ma sarà un morto vivente; sarà come i personaggi delle favole che hanno trovato la fontana della giovinezza, e tornati in patria dopo cento anni non ritrovano più le persone e i luoghi conosciuti: hanno perso la loro storia personale, sono rimasti fuori del loro ambiente, fuori dalla storia come relazione col resto del mondo. Oppure Dolly non avrà memoria, e allora ogni nuova Dolly vivrà la sua esperienza di vita, inconsapevole di essere la terza, la decima, la ventesima non diversamente da come ognuno di noi vive la sua esperienza come se fosse il primo uomo sulla terra.
Siamo dunque legati al nostro ambiente da questa reciprocità di relazioni, per cui conosciamo l'ambiente nella stessa misura che lo modifichiamo, e nello stesso tempo noi stessi ci adattiamo alle modificazioni, in un continuo spostarsi e ricostituirsi di equilibri sempre diversi, il bambino non ha studiato un libro o visto un documentario sui replicanti, ha semplicemente recepito il concetto dalle informazioni che gli arrivano dal suo ambiente - i giornalini, i cartoni animati; se lo chiedessi a sua madre, sono sicura che mi confermerebbe di non avergli mai dato spiegazioni del genere, e forse la madre non sarebbe in grado di darmi una risposta altrettanto chiara. L'ambiente stesso ci equipaggia per viverci, fornendoci informazioni sia per mezzo delle relazioni sociali che attraverso i segni fisici della propria storia. La lettura dei "segni fisici" della storia sul territorio è stata il principale mezzo di trasmissione delle informazioni nella cultura preindustriale; oggi è in gran parte perduta, e i segni vanno pian piano cancellandosi col procedere dell'abbandono e il degrado della cultura agricola, mentre gran parte dei segni prodotti dalla cultura urbana hanno chiaramente dimostrato di essere messaggi destrutturanti, informazioni negative che denunciano la rottura di un equilibrio ambientale. L'arte contemporanea si fa espressione della nostra cultura proprio con la destrutturazione del segno. Le grandi periferie, segno della società industriale, hanno prodotto fenomeni allarmanti, sia sul piano ecologico che su quello sociale; mentre la facilitata mobilità, la diffusione delle comunicazioni, le migrazioni di popoli e l'estensione delle relazioni commerciali - tutto ciò che oggi si definisce col termine di "globalizzazione" hanno determinato la consapevolezza del nostro essere cittadini della Terra, slegandoci apparentemente dal vincolo del territorio.
Ma questa perdita ci priva di una delle relazioni fondamentali nell'equilibrio ambientale, che è proprio la capacità di leggere i segni materiali della storia, di riconoscere le informazioni che il territorio ci dà per regolare su di esse i nostri rapporti uso del territorio stesso; l'esempio banale è quello del cittadino che scia fuori pista facendo staccare la slavina e del valligiano che si indigna del suo andare dove non c'è bisogno:
secondo vede i suoi rapporti con l'ambiente in termini di "bisogno", necessità, e di conseguenza li regola: il primo vede l'ambiente in un uso "loisir" e si indigna che non si possa andare dove si vuole dopo aver pagato il biglietto, che sia il Mon Bianco o Disneyland o la Cappella Sistina. La sua regola d'uso è basa su una cultura che gli dà i messaggi "l'ingresso è a pagamento", "rispetta la segnaletica"; ubbidite queste regole, tutto gli deve esser garantito. E noi ci affanniamo a ricoprire i monti di cartelli indicato di divieti e di ringhiere, perché possa andare in montagna portandosi dietro i codici di comportamento della città. Per andare in montagna ci vuole la cultura della montagna bisogna conoscere i messaggi che sono scritti nelle fessure della roccia nello scricchiolio del ghiaccio, nella corteccia degli alberi, nei richiami degli uccelli o nella direzione del vento; bisogna conoscere l'ambiente conoscerne la storia - "la valanga scesa fino al torrente, se lo ricordava mio nonno -' bisogna aver l'occhio allenato ai segni che la natura ha lasciato o che altri uomini ci hanno trasmesso. La perdita della "cultura del territorio" elaborata da un sistema di vita di secoli, lo sradicamento culturale, è dunque uno dei punti critici della nostra difficoltà accentrare correttamente in rapporto col concetto di "ambiente".
Non saremo in grado di costruire un rapporto di equilibrio con il nostro ambiente, non saremo capaci di costruirci un ambiente vivibile, se non riusciremo a interpretare i segni del territorio, ad assimilare nella nostra cultura la storia che essi ci narrano, per confrontarci sul terreno nel vero senso del termine, con la nostra visione del futuro.
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