NEVE
Il futuro dei comprensori sciistici valdostani tra tutela della concorrenza, vincoli strutturali e rispetto della vocazione del territorio.
COMPRENSORI SCIISTICI
di Massimo Lévêque
La telecabina che collega il paese di Torgnon alle piste di sci.Quando si parla di industria dello sci ci si vorrebbe riferire ad un concetto chiaro, ben definito, delimitato nel suo ambito.
Se in linea generale si può ben comprendere a cosa ci si riferisce, non devono sfuggire invece la complessità e la varietà di elementi e caratterizzazioni che l'ampia definizione include.
L'industria dello sci (che è solo un sottoinsieme, ancorché il più rilevante, del più ampio settore del turismo della neve) è al suo interno diversificata per caratteristiche fisiche e dimensionali dei territori, per categorie di imprese ed operatori, per mercati di riferimento, per le regole del gioco (tecniche, fiscali, amministrative e finanziarie) cui le diverse realtà che la compongono sono sottoposte. Si deve pertanto essere consapevoli del fatto che, parlando di offerta di comprensori sciistici, ci si può riferire a realtà che vanno dal piccolo parco attrezzato al servizio della comunità locale a veri e propri domaines skiables, a volte di carattere multinazionale, che operano sui mercati globali dell'intero pianeta.
In questo scenario articolato, la piccola Valle d'Aosta, che da tali attività trae tanta parte del proprio reddito regionale, è un esempio di complessità e varietà come il settore nel suo insieme, ove convivono realtà di qualità e prestigio internazionale ed altre, paesaggisticamente eccellenti, ma di dimensioni e portata che non vanno al di là di un ristretto bacino di utenza locale.
Purtroppo va segnalato il fatto che, come spesso accade, analisi, diagnosi, strumenti di intervento uguali vengono posti in essere nei confronti di realtà strutturalmente diverse rischiando di essere, oltre che ingiusti, anche inadeguati un po' per tutte le realtà cui ci si vuole riferire. E ciò si verifica tanto più frequentemente quanto più i soggetti o le istituzioni chiamati ad intervenire si trovano in una posizione lontana dalla realtà in esame.
L'Unione Europea, ad esempio, da una grigia Bruxelles assolutamente aliena da conoscenze e cultura montanare, sta ponendo vincoli alle imprese funiviarie di tutta Europa considerandole uguali tra paese e paese, uguali all'interno dei singoli stati e, cosa assai più inquietante, alla stregua e con gli stessi parametri delle imprese industriali. Il tema del contendere sono ovviamente gli aiuti pubblici al settore; le ragioni alla base dell'intervento europeo sarebbero la tutela della concorrenza.
Di scarsa rilevanza, per gli eurocrati che hanno tra le mani il delicato dossier, il fatto che ci si trovi dinnanzi a imprese operanti con domanda e ricavi concentrati in pochi mesi all'anno e con elevati costi fissi gravanti sui dodici mesi; che si tratti di imprese operanti in realtà straordinariamente difficili e complesse, quali i territori di montagna dai 1800 metri di altitudine in su; che si sia in presenza di settori storicamente sviluppatisi sulla base di modelli assai diversi tra Paese e Paese (si pensi al modello programmatorio che ha originato, negli Anni '60 e '70 in Francia le Nouvelles Stations Integrées e lo si confronti con altri sviluppi di comprensori fondati sul rispetto delle caratteristiche storiche e architettoniche delle località) o all'interno degli stessi paesi (a tutti è nota la differenza esistente per esempio tra Valle d'Aosta e Alto Adige in termini di ripartizione dei posti letto tra seconde case e letti commerciali); che si mettano insieme stazioni con immobilizzazioni miliardarie e decine di chilometri di piste con piccole stazioni mono o bi-impianto, indispensabili per la sopravvivenza dei pochi esercizi commerciali del luogo e per l'avviamento allo sci dei pochi giovani residenti; che chi opera effettivamente sui mercati internazionali si trovi a competere con destinazioni in paesi non facenti parte dell'Unione Europea (si pensi alla vicinissima Svizzera) e cui non si applicano vincoli di sorta.
In questo complesso quadro, all'interno del quale ogni realtà sta cercando di reagire a suo modo, la Valle d'Aosta, per sua storia e configurazione dell'offerta, ha davanti a sé pochi scenari alternativi.
Per le piccole e medie stazioni di sci, che annualmente hanno ricavi generati per oltre l'80% da sciatori di giornata (pertanto provenienti da bacini di prossimità) e che sono quindi estranee ad attività che generano concorrenza sul piano internazionale, il permanere di significativi aiuti pubblici per fare fronte agli investimenti (necessari per il rinnovo e la modernizzazione degli impianti di risalita e per l'innevamento programmato), è condizione indispensabile per evitare la prospettiva della chiusura dei comprensori, con tutte le conseguenze disastrose per l'indotto.
Per le stazioni maggiori, che insieme assorbono il 90% dei ricavi totali del settore in Valle d'Aosta e che di fatto si offrono sul mercato mondiale dello sci (con clientela europea, nordamericana, da qualche tempo anche asiatica), confrontandosi con le grandi stazioni dolomitiche e con quelle francesi, svizzere e austriache, le alternative sono sostanzialmente due.
La prima presuppone di intervenire, a livello di programmazione del territorio e degli insediamenti, per elevare il rapporto esistente tra posti letto commerciali (o a rotazione) e posti letto totali, oggi anormalmente a vantaggio dei posti letto delle seconde case (improduttive per l'80-90% della stagione invernale). Ciò può essere attuato favorendo l'immissione sul mercato delle numerose abitazioni esistenti nelle località turistiche e non utilizzate; ma passa anche e soprattutto attraverso la realizzazione di nuove strutture, non necessariamente alberghiere, gestite professionalmente e capaci di raccogliere settimanalmente clientela sui mercati internazionali.
In assenza di ciò deve essere reso possibile il sostegno finanziario pubblico alle attività di investimento, costituendo esso quel flusso differenziale di risorse di cui le imprese funiviarie valdostane non possono disporre proprio a causa di quelle scelte di programmazione urbanistica e territoriale, forse anche motivate, a suo tempo compiute dalle amministrazioni locali e dalla Regione, centrate su uno sviluppo delle seconde case che ha però prodotto più rendita per pochi che reddito per la collettività.
Non voler o poter intraprendere né l'una né l'altra delle due strade renderà, nel medio periodo, non gestibili sul piano economico e finanziario neppure le stazioni sciistiche valdostane di maggiori dimensioni.
Infatti, malgrado la qualità dei comprensori e della loro gestione, esse non saranno in grado di produrre quei flussi di cassa, indispensabili in qualunque azienda, da destinare agli investimenti che ciclicamente si rendono necessari, mentre molti loro concorrenti ne disporranno, o perché potranno continuare a contare su un numero di posti letto commerciali in stazione pari a quelli dell'intera Valle d'Aosta (si faccia il confronto con Chamonix, con Morzine-Avoriaz, con La Plagne, con Les Arcs per restare molto vicini a noi), o perché integrate verticalmente (società di impianti che possiedono anche le attività accessorie quali ricettività, ristorazione, noleggi, servizi vari), o, ancora, perché sostenute finanziariamente, direttamente o indirettamente, dalle rispettive amministrazioni locali (le grandi stazioni svizzere sono ormai in buona parte patrimonio della collettività locale e non debbono sottostare alle direttive europee in materia di aiuti).
A quel punto il problema del rischio di turbativa della concorrenza da parte dei comprensori valdostani non si porrà più. Con buona pace degli eurocrati e, forse, degli attuali concorrenti, nazionali ed europei.

   
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