INSEDIAMENTO TRADIZIONALE
L'abitato disperso tradizionale sta recuperando interesse nella nuova organizzazione urbana.
SPAZIO E TEMPO DELL'ABITARE
di Flaminia Montanari
Per più di cinquant'anni urbanisti e geografi hanno dato per scontato che il fenomeno dell'inurbamento, cioè della concentrazione negli spazi urbani della maggior parte della popolazione, fosse un processo irrefrenabile e necessario, un dato connaturato alla società contemporanea. In effetti già dalla seconda metà dell'ottocento - e poi sempre più rapidamente fino ad assumere la massima velocità nella seconda metà del secolo scorso - lo sviluppo industriale ha drenato verso la città gli abitanti delle zone rurali, attratti non tanto dalle condizioni di vita quanto dal miraggio di una maggiore disponibilità di denaro ( la campagna offriva per lo più la sicurezza di non morire di fame, ma in cambio di un lavoro più duro e di una scarsa disponibilità finanziaria), dalla maggiore offerta di lavoro e dalla disponibilità di servizi.
Questo processo ha interessato dapprima i paesi industrialmente più sviluppati, ma si è esteso via via e con sempre maggiore rapidità anche in quelli a basso tasso di sviluppo, tanto che oggi le maggiori concentrazioni di popolazione si verificano proprio in aree una volta caratterizzate da piccoli insediamenti diffusi, come il Sud Africa o il Sud-Est asiatico. Se oggi dall'alto dei nostri monti guardiamo verso la pianura, o se atterriamo di notte in un qualunque aeroporto del Nord Italia, ci rendiamo conto che tutta la piana è costellata con continuità da miriadi di piccole luci - un'immensa città di venti milioni di abitanti, con qualche piccolo buco nero di cocuzzolo o di bordo fluviale o di isola rurale che assume ormai una funzione di parco urbano nel contesto del continuo edificato.
Ma la città sta ora cambiando volto: da punto di concentrazione contrapposto alla campagna, nell'arco degli ultimi vent'anni essa ha iniziato un processo di vera e propria esplosione sul territorio, tanto che oggi è difficile definire che cosa è città e che cosa non lo è. La vertiginosa crescita di valore degli immobili centrali, unita alle condizioni ambientali e sociali sempre meno appetibili, ha spinto gran parte della popolazione urbana a cercare rifugio nelle borgate un tempo agricole dei dintorni; le migliorate condizioni di accessibilità e la moltiplicazione del parco automobilistico hanno reso possibile un pendolarismo lavorativo da zone sempre più ampie, determinando soprattutto nel Nord-Ovest - caratterizzato da grandi imprese industriali - una netta divisione tra funzioni residenziali e attività lavorative; mentre nel caso del Nord-Est la presenza di una piccola imprenditoria diffusa caratterizzata da industrie a conduzione familiare ha determinato una stretta commistione tra attività produttive, residenziali e servizi, sviluppati lungo gli assi di traffico a saldatura tra gli antichi insediamenti. Il risultato, in ambedue i casi, è di tipo simile: la città non ha più confini e giornalmente vediamo crescere come funghi volumi commerciali o palazzi residenziali apparentemente collocati al di fuori di ogni contesto urbanizzato. In realtà sono questi stessi impianti che colonizzano le aree ancora libere e ben presto attorno ad un grande magazzino nasce un'intera zona commerciale, ormai sganciata dalla tradizionale logica del negozio inteso come attrezzatura di quartiere, che anzi tende a sparire per la concorrenza delle grandi catene di discount. Acquistare-consumare è diventata una vera e propria occupazione del tempo libero, sciolta da ogni vincolo di necessità e promossa dalla nostra società ad attività ludico-ricreativa. I movimenti pendolari non sono più solo verso il centro città, ma anche verso i centri commerciali e le zone ricreative, determinando spesso veri e propri ingorghi di traffico anche fuori città, sulle tangenziali e sulle autostrade.
Questo quadro di
città diffusa
, che è ormai diventato un fenomeno di rilevanza europea, ha cambiato in modo fondamentale il tradizionale rapporto centro-periferia e deve farci riflettere anche sulla struttura insediativa del nostro territorio regionale.
Il fondovalle della Valle Centrale infatti, pur con qualche pausa tra un insediamento e l'altro (dovuta peraltro più ai limiti orografici che a un'organizzazione pianificata) ha seguito questa stessa evoluzione generale e si presenta ormai come un'unica città lineare, che raccoglie circa l'80% della popolazione regionale, scaglionata lungo il corridoio degli assi di traffico; mentre le valli laterali, caratterizzate da una struttura insediativa articolata per villaggi collocati a diverse fasce di quota in riferimento alle potenzialità agricole del territorio, hanno subìto nel tempo delle consistenti modificazioni in dipendenza della variazione della popolazione. Al censimento della popolazione del 1861, più del 40% della popolazione (allora di circa 86.000 unità su tutta la Valle) risultava residente nelle Valli laterali, contro l'attuale inferiore al 20%. Si è quindi avuta una forte concentrazione di popolazione nel fondovalle. Ma questa concentrazione non è andata uniformemente a discapito delle valli: in alcuni centri la popolazione è rimasta stabile, in altri è addirittura cresciuta. Bisogna quindi analizzare un po' meglio che cosa è successo.
Una lettura dei dati demografici ci fornisce qualche informazione in più sulle migrazioni interne alla nostra Regione. Già tra il 1861 e il 1931 si era verificato un primo fenomeno di concentrazione attorno alle attività industriali che avevano trovato collocazione nel fondovalle; collateralmente, si era anche prodotto nelle valli un primo addensamento nei nuclei più forti, a scapito delle zone più periferiche e sfavorite dal punto di vista agricolo, soggette a un più intenso drenaggio di popolazione. Gli anni del dopoguerra, fino al 1961, hanno visto il rafforzarsi dei poli industriali e di servizi (Aosta, Châtillon, Saint-Vincent, Verrès, Hone, Pont-Saint-Martin) e la drastica diminuzione di popolazione dei centri di media valle, in particolare quelli collocati attorno ai 1000 metri di quota, troppo lontani per permettere movimenti pendolari rispetto al fondovalle e troppo soggetti al confronto con le nuove economie emergenti. Questo fenomeno perdura nei successivi vent'anni a scapito delle zone a carattere eminentemente agricolo, mentre un significativo incremento demografico si verifica nei comuni che hanno nel frattempo sviluppato un'economia basata sul turismo. Se tra il 1971 e il 2001 la popolazione di Aosta, di Châtillon o di Verrès si presenta fondamentalmente stabile, si verifica invece un'inversione di tendenza, seppur modesta, in comuni come Gressoney, Ayas, Valtournenche e, in maggior misura, Courmayeur. L'economia turistica porta infatti con sé una serie di attività commerciali e di servizio che forniscono occasione di lavoro e che alimentano anche di conseguenza la richiesta residenziale.
Ma recentemente il fenomeno della diffusione residenziale si è ancora accentuato. I valori immobiliari delle aree della cintura infatti, via via che la disponibilità di aree diminuisce, sono enormemente cresciuti; per trovare abitazioni a costi più ragionevoli si è quindi costretti a cercare sempre più lontano. La cintura di Aosta si sta sempre più allargando, arrivando a interessare comuni come Doues o Introd, che fino a pochi anni fa erano ancora decisamente esterni all'area di influenza del mercato immobiliare urbano. Analogo processo si sta verificando per i comuni turistici, nei quali il mercato residenziale non può reggere il confronto con quello stagionale; gli addetti al turismo cercano perciò alloggio nei comuni di media valle, un tempo abbandonati e nei quali invece oggi si assiste a una inversione, seppur ancora limitata, con tendenza al ripopolamento.
Questo fenomeno deve aiutarci a riflettere sulla possibilità di recupero della struttura insediativa diffusa dell'abitato tradizionale valdostano, e sulle chances che essa ci offre.
In effetti la maggior mobilità e, più ancora, la diffusione delle informazioni via cavo e via etere ha cambiato in modo decisivo il nostro concetto di centralità. La distanza è passata dall'essere misurata in funzione dello spazio ad essere misurata in rapporto al tempo d'accesso. Se ho bisogno di un'informazione non ho più bisogno di spostarmi, mi basta il telefono o il computer. Posso vedere un film o la partita senza bisogno di andare al cinema, consultare un libro senza muovermi da casa, scambiare dati o immagini con tutto il mondo senza muovermi dal mio tavolino. Posso lavorare da un computer a qualunque distanza dal mio ufficio. A questo punto posso teoricamente risiedere nella località più fuori mano senza che ciò mi faccia sentire un emarginato, godendo invece dei privilegi del vivere fuori della città tradizionale: aria più pulita, più verde attorno, un ambiente sociale più ristretto e sicuro. Proprio per questi motivi negli ultimi anni si sta verificando un altro fatto, per ora numericamente poco rilevante ma che sarà importante tenere d'occhio, perché potrebbe essere il segno una nuova tendenza: si assiste cioè al fenomeno che a fronte di una affluenza turistica caratterizzata da soggiorni sempre più brevi esiste anche una ristretta quota di turismo incentrato sulle seconde case, fortemente fidelizzato e che tende a utilizzare più stabilmente l'immobile trasferendosi a part-time dalla città (ad esempio week-end allungati) nei casi in cui ciò sia compatibile con l'attività lavorativa, o a trasferirvisi stabilmente una volta in pensione. Per questo tipo di utenza di origine cittadina l'ambiente montano, con i suoi valori ambientali e la piccola dimensione sociale, è spesso visto come un'alternativa positiva rispetto alla vita urbana, apparentemente più ricca di contatti e di occasioni ma di fatto spesso connotata dalla marginalità dei contatti umani, dall'insicurezza, dai disagi dei trasporti, dall'inquinamento ambientale, dal degrado sociale. Si assiste cioè ad un fenomeno di residenza part-time che cerca di fondere i vantaggi ambientali della montagna a quelli della cultura urbana (uso delle nuove tecnologie per il lavoro, l'informazione e la comunicazione).
Anche questo deve portarci a riflettere sull'avvenire dei villaggi. Da un lato dobbiamo evitare di guardarli con nostalgia romantica, immaginando una vita d'altri tempi come un'età dell'oro. Giustamente le persone anziane si scandalizzano di questo diffuso atteggiamento di rimpianto di una vita che hanno conosciuto come dura , faticosa e piena di disagi e di incertezze: chi ha vissuto quei tempi - ormai lontani anche nella memoria - non avrebbe nessuna voglia di tornare indietro, a vivere senz'acqua in casa, senza corrente elettrica, con un solo ambiente riscaldato. Che cosa c'è allora da rimpiangere? Eppure ci rendiamo conto che, insieme agli aspetti negativi, abbiamo abbandonato anche molte cose positive, che spesso emergono nei racconti del passato non solo come nostalgia, ma come scoperta che si è buttato via qualcosa di valore senza motivo e forse senza consapevolezza. L'apparente razionalità della nostra organizzazione sociale ha per così dire ingabbiato il flusso della vita, cambiando il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo.
Lo spazio dei villaggi: la strada, la piazzetta, le aie comuni, la fontana: una volta luoghi di incontro, di scambio, di chiacchiere mentre si lavavano i panni, di gioco libero dei bambini; e anche di passaggio del bestiame per l'abbeverata o il rientro nella stalla, di incrocio di tutti i mestieri. Spazio comune che unisce e su cui si affacciano gli usci che segnano il confine della vita privata. Oggi la strada non unisce, ma divide l'abitato e gli abitanti; è proprietà dei veicoli, in transito o in sosta; è pericolosa per i pedoni, non solo all'interno dei villaggi, spesso attraversati dal traffico di scorrimento, ma ancor di più al di fuori: la dimensione pedonale del collegamento tra i diffusi piccoli insediamenti, anche quando potrebbe ancora rappresentare un'economia di tempo e di benzina, è ridotta al transito su un marciapiede - la macchina è padrona e l'uomo è costretto a camminare all'angolo, cercando di ripararsi dagli schizzi di fango e facendo respirare al bimbo in passeggino il gas di scarico delle automobili. Forse pensiamo con pena ai bambini di un tempo, costretti a fare chilometri a piedi magari anche nella neve per andare a scuola; ma si potrebbe discutere se sia davvero più bella o più sana la vita dei nostri piccoli, costretti ad attraversare una strada piena di traffico, trasbordati frettolosamente dalla macchina come pacchi postali dal chiuso della casa al chiuso della scuola, e poi altrettanto frettolosamente scaricati il pomeriggio in piscina o a fare ginnastica, nel tentativo di assorbire le energie che non possono più spendere giocando a guardie e ladri tra strade e cortili.
Il tempo dei villaggi: misurato sul passo dell'uomo e scandito dalla luce e dai colori delle stagioni; certo e misurabile. Non è elastico come il tempo urbano, marcato dagli sguardi all'orologio, fatto di minuti troppo lunghi allo sportello postale o alla fermata dell'autobus, di ore troppo corte per i rapporti umani, di luce di giorno e di notte, di ritagli di prato sempre appena falciati e di piante sempre così uniformemente verdi e polverose che viene d'istinto di strappare una foglia per sapere se sono vive o di plastica. O di fioriere magicamente variopinte in qualunque stagione. Una natura immobile come morta, contrapposta al movimento frenetico dell'accendersi e spegnersi di insegne luminose e allo scorrere incalzante delle informazioni e delle pubblicità elettroniche: il bus n. 153 arriva tra 5 minuti, 4 minuti, 3 minuti, 2 minuti, 1 minuto… il bombardamento di messaggi impedisce ai nostri pensieri di trovare un loro filo conduttore che ricolleghi, come il ritmo del passo, lo spazio col tempo.
Dobbiamo forse fare più attenzione a questi valori, e riscoprire attraverso i villaggi (o forse meglio recuperare, perché anche i villaggi si sono lasciati aggredire dalla sindrome urbana) l'equilibrio e il benessere che derivano dal rispetto della nostra dimensione fisica, di persone che conoscono se stesse misurandosi con lo spazio e col tempo. I villaggi possono ancora offrire in questo senso una qualità residenziale elevata, a patto che sappiamo cogliere le opportunità che ci presentano: prima tra queste la pedonalità, chiave di tutto il nostro rapporto con la terra su cui poggiamo i piedi. La viabilità pedonale dovrebbe essere un obiettivo primario dei piani regolatori, non solo per recuperare il pieno senso degli abitati storici, ma anche per rendere vivibili le zone di nuovo impianto. Come pure dovrebbe essere un obiettivo importante il mantenimento dell'agricoltura non solo per la conservazione delle
buone terre coltivabili
e quindi nella sua funzione propriamente produttiva ma anche per quelle valenze formative e ricreative che costituiscono una dimensione essenziale di quella qualità di vita che ancora è possibile nei centri minori. La possibilità di avere un piccolo giardino, un orto, una pianta da frutto o una pergola di vite davanti alla casa, è un bene di cui ci si rende conto solo dopo aver abitato in città. Seminare, veder germogliare, seguire lo sviluppo della pianta, i fiori, i frutti, la morte, il risveglio; il ciclo delle stagioni, il ciclo di ogni vita.
Ogni giorno parte di questo patrimonio scompare: le aie e gli orti vengono asfaltati per far posto alle macchine, le strade pedonali vengono sostituite dai marciapiedi. La nostra urbanistica è fatta per le auto più che per noi: e noi siamo diventati così schiavi che prendiamo la macchina per fare tragitti che faremmo a piedi in tempo minore. Anche questo fa parte di una cultura urbana che forse dovremmo rimettere in discussione; riflettere sulle qualità degli insediamenti tradizionali può essere una chiave per aprire la porta giusta.
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