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L'importanza degli spazi "intermedi" nell'architettura.
DENTRO/FUORI
di Flaminia Montanari e Cristina De La Pierre
Valgrisenche.A dispetto di tutto il discorrere di "ambiente" che caratterizza il nostro momento storico, la cultura architettonica contemporanea soffre ancora di un atteggiamento culturale fondamentalmente manicheo, che contrappone "verde" e "costruito" come poli antinomici dello spazio in cui viviamo; così che spesso si parla di "qualità naturale" di un territorio come se il suo parametro di misurazione fosse l'assenza di azioni antropiche - così come si parla di "qualità urbana" solo in termini di aree verdi a disposizione, dimenticando che la qualità delle costruzioni non è fattore di minor peso nel determinare la vivibilità dell'ambiente insediato.
Gli architetti - che tali si possano dire - non si sono mai limitati a concepire spazi chiusi: non esiste edificio pubblico che non sia stato progettato in funzione della sua piazza e dei suoi percorsi (dentro o fuori del suo perimetro, preesistenti o no); non esiste sistemazione di nuovi quartieri senza viali, alberature, spazi verdi; non esiste villa senza parco o giardino, così come inevitabilmente non c'è fattoria senza campi.
L'architettura vive di questo rapporto tra ciò che è "dentro" e ciò che è "fuori", ed è in questo rapporto che essa si fa espressione visibile del rapporto culturale tra l'Uomo e la Natura. Il rinascimento ha proposto la sua visione dell'Uomo che organizza e vince la Natura nei suoi giardini geometrici, nel suo piegare la vegetazione ad essere essa stessa una prosecuzione dell'architettura; il manierismo e poi il barocco, con la voluta equivocità e reciprocità nel continuo allusivo scambio tra opera dell'Uomo e opera della Natura hanno costruito grotte e ninfei, padiglioni e giardini segreti, hanno popolato i parchi di ninfe e di fauni, emblematiche presenze a metà umane e a metà animali; mentre d'altro canto con curve e volute hanno forzato al movimento l'architettura, e l'hanno animata con elementi architettonici e decorativi naturalistici. Palladio ha fatto delle sue grandiose ville il centro dell'economia organizzativa dell'economia rurale del tempo, rappresentazione insieme della qualità di vita del proprietario terriero e della sua capacità di imprenditore; il romanticismo ha costruito una natura che finge d'esser naturale" e che nel contempo si popola di rovine e di segni di presenze umane scomparse...
Arvier.L'architettura tradizionale dei villaggi rurali è ricca di spazi di mediazione tra interno ed esterno, legati per lo più agli usi agricoli ed a un modo di vivere in cui il "dentro" e il "fuori" hanno un valore culturale e sociale molto diverso da quello che attualmente viviamo: il "dentro" è il rifugio, il riparo dal freddo, dall'inverno, ma la vita si svolge per la massima parte al di fuori della casa, nei campi o al pascolo. Questo contribuisce a dare da un lato ai volumi edilizi un aspetto chiuso e bloccato, mentre dall'altro lato introduce una grande varietà di spazi aperti annessi all'abitazione - spazi scoperti, come aie, cortili, orti cintati o protetti da muri, e spazi aperti ma coperti, come passaggi, legnaie, letamai, ricoveri per i carri, galetas e profonde balconate per l'essiccazione dell'erba grossa e dei covoni.
A questi spazi privati si aggiungono gli spazi "pubblici" - viottoli, aie comuni, spiazzi delle fontane e dei forni, passaggi coperti tra gli edifici -. così che il tessuto del villaggio risulta determinato più che dai volumi degli edifici stessi da questo sminuzzato parcellare di spazi che alternano il "dentro" e il "fuori", li intrecciano inestricabilmente in una trama del tutto omologa a quello che è l'intrecciarsi delle due componenti nella vita quotidiana.
La comunità del villaggio aveva infatti come motivo fondamentale di coesione la necessità di collaborare per il migliore sfruttamento del suolo dalle regole consuetudinarie per l'organizzazione e l'avvicendamento delle colture, alle corvées per la manutenzione dei sentieri e dei ruscelli di irrigazione, alle égances per la divisione dell'acqua, alle solidarietà in caso di malattia o di disgrazia, nel piccolo gruppo sociale si instauravano legami di interdipendenza che avevano lo scopo primario di assicurare l'autosufficienza alimentare cioè la sopravvivenza stessa della comunità. E' questa stessa interdipendenza che si fa sensibile nella struttura del villaggio, nei suoi diritti d'uso e di passaggio che legano privato e pubblico in un concetto per noi oggi difficilmente reinterpretabile. E infatti, quando oggi si pone il problema del recupero dei villaggi tradizionali, i primi a farne le spese sono, per la loro estrema fragilità, questi piccoli spazi di cui per lo più non si tiene alcun conto, mentre il mettervi mano rappresenta una delle operazioni più difficili e delicate della complessa problematica del restauro dei centri storici rurali. La pavimentazione delle vie, la trasformazione degli slarghi in parcheggi, la monumentalizzazione dei fontanili, la privatizzazione degli spazi - soprattutto aie e passaggi - una volta comuni, la recinzione e chiusura di luoghi un tempo aperti pur se di proprietà privata ha trasformato i villaggi molto più di quanto non l'abbiano fatto gli interventi edilizi.
Quando recuperiamo i villaggi, a questi gruppi di case manca una cosa essenziale: l'anima. Manca cioè la possibilità di lettura di quel rapporto tra dentro e fuori che costituiva il motivo e l'essenza stessa dell'esistenza del villaggio: rapporto tra l'insediamento e il territorio agricolo circostante - l'organizzazione dei campi, i prati, il pascolo, il bosco - e rapporto tra spazi aperti e chiusi, d'uso comune e d'uso familiare, all'interno del nucleo abitato. Sono dei bellissimi scenari, ma danno la sensazione di essere diventati i fantasmi di sè stessi, imbalsamati e infiorati per la breve stagione della kermesse turistica, pronti a ricadere nella solitudine e nell'abbandono per il resto dell'anno; mentre attorno, nei campi abbandonati, il bosco si fa ogni anno più invadente, pronto a stringerli nella sua morsa verde.
Da un po' di tempo ci stiamo rendendo conto dei limiti di questo modo di pensare "per settori", di questa monocultura turistica che non è in grado, da sola, di ridare una vita reale e di sostenere la manutenzione del territorio. Ci rendiamo conto che la monocultura è sempre un impoverimento di relazioni: manca l'integrazione delle funzioni, la varietà sociale, il rapporto tra le generazioni. Ci rendiamo conto che il turismo non vive senza l'agricoltura, perché è questa che fondamentalmente provvede al mantenimento e alla cura dell'ambiente attorno agli abitati, e senza agricoltura ci ritroveremmo a breve in mezzo a un ambiente inselvatichito e ostile, fatto di rovi e boschi impraticabili. Ci accorgiamo allora che "recuperare i villaggi" vuol dire ritrovare un equilibrio tra insediamenti e territorio, tra ambiente agricolo e costruito, che passa attraverso la ricostruzione - prima ancora che degli oggetti materiali - delle solidarietà sociali, dell'integrazione delle funzioni; ma soprattutto dal riconoscimento del ruolo primario della figura dell'agricoltore come reale custode della bellezza e della stabilità del paesaggio di montagna. Ma il problema degli "spazi di mediazione" tra interno e esterno non è circoscritto alla salvaguardia dei caratteri peculiari dei vecchi abitati: se in questi assistiamo alla loro scomparsa, è altrettanto vero che nel progettare opere nuove questi spazi non esistono del tutto. Oggi, il progetto di costruzione manca per lo più di un qualunque riferimento al suo intorno.
Il territorio è lo specchio del nostro modo di vivere, del nostro rapportarci alla natura, dei rapporti sociali che intessiamo sulla trama dello spazio; e proprio in questi "spazi di mediazione" tra interno ed esterno si esprime in modo esemplare il rapporto culturale tra l'abitante ed il suo territorio. La perdita di questi luoghi intermedi determina una rigida contrapposizione tra il "dentro" e il "fuori" degli edifici in cui il "fuori diventa solo, anche quando organizzato in giardino, la sistemazione dei distacchi pertinenziali. Dal paesaggio di queste nuove urbanizzazioni emerge solo la parcellizzazione, logica spaziale visibile dell'individualismo sotteso al nostro quotidiano: le nostre villette mono o bifamiliari denunciano una realtà sociale fortemente centrata sui singoli, in confronto al quale la società non ha più un ruolo di mediazione e composizione di interessi in un concetto (forse un po' astratto e illuminista, ma pur sempre riferimento etico collettivo) di "bene comune", ma assume invece il ruolo di mero controllore delle regole. Quello che noi vediamo è allora un paesaggio che rappresenta solo, per mezzo della densità visiva dei cubetti edificati scanditi dai 10 metri dei distacchi tra edificio e edificio, la regola edilizia che l'ha prodotto: un "paesaggio degli indici di fabbricazione" insomma. Inoltre, se guardiamo il panorama delle nuove urbanizzazioni, ci accorgiamo agevolmente che ciò che emerge alla vista, più ancora dei volumi stessi, sono le strade e i confini dei lotti: il nostro paesaggio non esprime il modo e la qualità della vita, ma evidenzia semplicemente sul territorio le infrastrutture e l'assetto della proprietà, cioè l'organizzazione del nostro rapporto tra "pubblico" e "privato": due sfere rigidamente distinte, divise da un cancello o una porta chiusa a chiave. Questa dissociazione tra i due ambiti ci porta a vivere in modo dissociato anche il nostro senso di responsabilità: la stessa persona che tiene ben pulito e ordinato il proprio giardino non si fa scrupolo se versa i rifiuti fuori dal cassonetto, vuota il portacenere dell'auto sulle piazzole di sosta, butta le cartacce dal finestrino del treno o della macchina in corsa: pronta però a guardare con disgusto il bordo d'immondizia lungo i binari e le autostrade.
Abbiamo la necessità di ritrovare - o forse meglio di reinventare - degli "spazi intermedi", che non siano semplicemente il praticello davanti a casa o l'aiola lungo strada; abbiamo bisogno di ritrovare, prima ancora degli spazi, gli usi che li qualificano. La pedonalità per esempio è uno di questi usi di cui cominciamo a capire il valore - come recupero di una funzione di incontro e non solo di transito, di una fruizione dello spazio e del tempo a una dimensione più umana. Ma la pedonalità viene troppo spesso vista solo come un modo di risolvere il problema delle aree storiche o centrali, assediate dal traffico e con strade insufficienti, mentre nelle zone di nuova edificazione questa dimensione non esiste del tutto: si può entrare con la macchina in casa, ma nella maggior parte dei casi non esiste alcun percorso percorribile a piedi in sicurezza per arrivare alla scuola o ai luoghi di lavoro e di servizio. E insieme al ritorno alla pedonalità, cresce l'esigenza di spazi di parcheggio, e anche qui viene da chiedersi se un parcheggio debba essere, per definizione, uno spiazzo brutto e inospitale: in fondo, quando entriamo in una casa, è proprio dall'ingresso che capiamo il modo di vivere del proprietario...
Progettare il recupero dei villaggi da un lato e garantire la qualità e l'integrazione ambientale della nuova edificazione dall'altro è allora il compito difficile e delicato che oggi i Comuni si trovano davanti; e questo compito non deve essere confuso con problemi tecnici o normativi: è un'operazione culturale di grande importanza, che esige non tanto e non solo la conservazione degli organismi edilizi ma soprattutto la riscoperta e conservazione della cultura ambientale e delle solidarietà sociali; in poche parole, è il progetto della società in cui vorremmo vivere.
Sta alla sensibilità delle Amministrazioni e dei progettisti recepire queste suggestioni che il paesaggio tradizionale ci comunica e cercare di integrarle in una visione contemporanea che non sia soltanto una riscoperta romantica o folklorica, ma che costituisca invece il fondamento di una reale prospettiva di sviluppo locale.
   
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