Due le parole solitamente associate alla Via Francigena nelle prefazioni alle guide turistiche dedicate a questo itinerario: “pellegrinaggio” e “medioevo”. Entrambe evocano un aspetto saliente del percorso, a cavallo tra materialità del tracciato e spiritualità del contesto, ingredienti che solo nella mente dell’uomo moderno possono essere considerati distinti, ma che per il viandante medievale erano due facce speculari della medesima esperienza.
L’atto di nascita della Via Francigena va ricercato nella sua stessa denominazione, che la identifica come un itinerario diretto e proveniente dalla Francia, intendendo per “Francia” un’area molto più estesa di quella attuale e corrispondente anche a tutto il bacino renano. Spesso infatti le strade medievali prendevano il nome da aspetti estrinseci al percorso, quali la presenza di particolari pericoli, la conformazione del paesaggio attraversato o la meta ultima e più autorevole: si intuisce bene dunque come ancora oggi il nome di “Francigena” si confonda spesso con quello di “Romea”, in quanto principale caratteristica di questo tracciato era quella di mettere in comunicazione l’area delle capitali nordeuropee con il massimo centro spirituale della cristianità, Roma.
Quello che fa della Via Francigena un percorso assolutamente unico è tuttavia la causa più profonda, se non della sua nascita, sicuramente del suo sviluppo: il fenomeno del pellegrinaggio. A partire dalla seconda metà del VII sec. d.C. infatti, nell’ambito di quel connubio politico- religioso tipicamente medievale, la pratica del pellegrinaggio, esistente in forme più o meno embrionali già dal IV d.C., inizia ad individuare un itinerario privilegiato nel sistema stradale diretto verso Roma, fino ad assurgere, dall’XI e poi più ufficialmente dal XIV secolo, a vero e proprio incrocio dei “cammini santi” diretti verso le tre grandi mete spirituali cristiane: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela.
Oltre che via di pellegrinaggio, la Francigena è anche a tutti gli effetti un itinerario “medievale”. Erede del sistema viario romano, in particolare della Via Consolare delle Gallie, che permetteva il veloce spostamento delle legioni e delle merci dalla penisola italica al cuore della Gallia e delle altre province settentrionali dell’Impero, la strada medievale è tuttavia profondamente differente da questa nelle premesse ideologiche e nella realizzazione materiale. Se il sistema stradale romano presupponeva tracciati militari di facile percorrenza, quello medievale ha come obiettivo il mettere in relazione tra loro tutti i centri abitati di una regione, anche a discapito della velocità del tragitto, finendo per creare una rete di percorsi più che una vera strada. Non un’unicità dunque, ma una pluralità di possibili vie, che di volta in volta il pellegrino o il mercante sceglieva a seconda della presenza di pericoli o dell’imposizione di gabelle. In questo contesto è dunque sbagliato, ma tipico della nostra mentalità moderna, il volere ridurre il complesso sistema viario che andava sotto il nome di Via Francigena ad un unico tracciato, operazione spesso giustificata sulla base del diario di viaggio redatto dall’arci - vescovo di Canterbury Sigerico che, giunto a Roma nel 990 d.C. per ricevere dalle mani di papa Giovanni XV il pallio arcivescovile, ritornava a Canterbury con un viaggio in 79 tappe, minuziosamente annotate a partire dall’Urbe fino all’imbarco nei pressi del Canale della Manica.
Alcune cifre e precisazioni
La lunghezza totale della Via Francigena si aggira attorno a 1600 km, di cui 97 ricadenti in territorio valdostano. Il tratto compreso tra Aosta ed il Gran San Bernardo misura poco più di 28 km, pari all’1,8% dell’intero sviluppo. Sulla base delle testimonianze desunte dai diari di pellegrinaggio redatti da Sigerico nel 990 e dall’abate benedettino islandese Nikolas de Munkathvera alla metà del XII secolo, sappiamo che una tale distanza era percorribile in due o tre giorni, facendo tappa oltre che ad Aosta presso Étroubles e Saint-Rhémy.
Quello che oggi viene considerato il tracciato ufficiale della Francigena corrisponde al percorso seguito da questi due importanti pellegrini, ma al viandante erano comunque date altre possibilità di passaggio della catena alpina. Per rimanere in territorio vallivo, la conca di Valpelline attraverso la Fenêtre de Durand e quella ciati conosciuti e praticati, così come la Valtournenche e la Valle d’Ayas che davano accesso attraverso il Col Collon ed il Colle del Teodulo al versante oggi in territorio svizzero. Un’ulteriore importante alternativa era offerta dal Passo del Moncenisio e dalla Valle di Susa, in Piemonte.
Passo dopo passo
Pur disponendo di numerose varianti, il tracciato che segue l’odierna statale 27 ed attraversa i comuni di Saint-Rhémy-en-Bosses, Saint-Oyen, Étroubles, Gignod e Aosta può a buon diritto essere considerato una delle diramazioni principali e maggiormente utilizzate per tutto il periodo medievale grazie alla facilità e maggior velocità del percorso. Immedesimandoci in un pellegrino in viaggio verso Roma in occasione del Giubileo del 1300 indetto da papa Bonifacio VIII, il primo grande Giubileo della cristianità che contribuì ad elevare notevolmente il tasso di frequentazione della Via Francigena dando inizio ad un vero e proprio fenomeno di massa, proveremo a ripercorrere località per località la strada che scendeva dal valico alpino fino alla piana di Aosta, facendo attenzione a quegli elementi del territorio che per il viandante medievale erano essenziali per la buona riuscita del cammino. Svegliatisi di buon’ora e dopo una colazione frugale offerta dai canonici, ci apprestiamo a ripartire dall’ospizio posto al valico del Mons Iovis (Gran San Bernardo). Qui sorge la casa ospitaliera voluta, secondo la leggenda, dall’arcidiacono di Aosta Bernardo verso la metà dell’XI secolo, gestita dai canonici agostiniani, vero e proprio baluardo contro i venti, il gelo e le tempeste di neve che spesso affliggono questa località così vicina a Dio. La mattina è fredda pur essendo piena estate, come del resto è normale che sia a 2473 metri di altezza, ma ci sentiamo decisamente rinvigoriti al pensiero che la salita è ormai terminata e ci aspetta solo una, voglia Dio, rapida e sicura discesa verso la piana di Aosta.
Pur avendo avuto la possibilità di sperimentare con mano la grazia del Signore dormendo in questo ospizio, ci sono alcune cose che assolutamente non avremmo potuto osservare passando di qua nel 1300. Anzitutto l’attuale edificio risale al 1821-25 ed è quindi di ben cinque secoli successivo, mentre la chiesa che oggi sorge al valico presenta forme seicentesche. Non avremmo certo potuto visitare il museo archeologico dedicato ai ritrovamenti di eccezionale importanza effettuati al Plan de Jupiter, pertinenti ai resti di una stazione di sosta (mansio) edificata all’inizio del I secolo d. C. su un sito già conosciuto e frequentato da epoca preistorica, incluse le numerose tavolette votive offerte dai legionari e dai mercanti di passaggio a Giove Pennino, divinità eponima di questo luogo, per la grazia concessa loro nell’attraversamento di questi monti.
Infine non saremmo stati accolti dall’abbaiare dei cani San Bernardo oggi simbolo di questo passo, giunti all’ospizio solo nel XVII secolo. Cercando di non pensare al freddo, affrontiamo con i nostri compagni di viaggio (viaggiare da soli non è mai prudente) la strada che tramite grandi tornanti ci porta a perdere velocemente quota. Quello che ci colpisce è la qualità di questo tratto di carrareccia, che si presenta a volte tagliata in roccia, altre volte lastricata, caratteristiche che non abbiamo trovato spesso nel corso del nostro pellegrinaggio e che ci fanno immediatamente capire che deve trattarsi di una via di grande importanza. Uno dei nostri compagni ci spiega che questa strada venne costruita dagli antichi Romani, e che era una grande via di comunicazione tre le regioni cisalpine e transalpine; ammirati dall’ingegno di questo popolo capace di piegare la natura ai propri bisogni, proseguiaimmaginare che il pellegrino del XX secolo non avrebbe più potuto percorrere, se non per pochi tratti, questa straordinaria via di collegamento, modificata prima dall’avvento dell’esercito napoleonico all’inizio del XIX secolo e poi quasi definitivamente cancellata dall’odierna statale 27.
Pochi chilometri ed una pendenza mozzafiato ci conducono all’ospizio di Fonteinte, fondato dal vescovo Pierre de Bosses grazie alle donazioni del nobile Nicolas de Richard de Vachéry nel 1258. Veniamo accolti dal rettore che ci offre una pagnotta ed un buon bicchiere di vino, mentre ci spiega che la struttura di carità è aperta dalla festa di San Martino (11 novembre) alla Visitazione della Vergine (31 maggio), col compito di aiutare i pellegrini, servizio che dismetterà solo nel XVIII secolo (oggi trasformato in un moderno bed & breakfast). Dopo una benedizione nella piccola cappella, si riparte tra i pascoli, per giungere, proprio dove questi lasciano il posto alle conifere, al borgo citato nel diario di Sigerico come Sancte Remei, Saint-Rhémy, nome probabilmente legato al culto di San Remigio vescovo di Reims. Anche in questo borgo (l’antica Eudracinum romana), che ci appare subito decisamente florido dal punto di vista economico come testimoniano la qualità di alcune abitazioni e la presenza di mura a cingere il complesso abitato, è presente un luogo di ricovero per i viandanti con annessa una cappella dedicata a San Maurizio. Chiuso nel 1669, oggi non ne rimane traccia, ma nel 1300 è nel pieno della sua attività. Inoltre il paese pullula di pellegrini sulla via del ritorno, e la popolazione locale è organizzata per fornire un vero e proprio servizio come accompagnatori e portatori, i cosiddetti vectuarii (poi marronniers), indispensabile specie nei mesi più freddi dell’anno. Salutiamo alcuni nostri compagni, che hanno deciso di fermarsi qui per la notte, e proseguiamo fino all’abitato sparso di Bosses, dove ci colpisce in particolare la presenza di una massiccia costruzione fortificata a pianta quadrata: si tratta della residenza di una nobile famiglia, i signori De Bocza (oggi trasformata in centro informazioni). La chiesa, dedicata a San Leonardo, è invece decisamente piccolina (quella attuale è del 1860-61) ed il tempo, che sembra iniziare a guastarsi, ci spinge ad accelerare il passo in direzione del villaggio successivo, Sancti Eugendi (Saint-Oyen).
A passo spedito raggiungiamo il villaggio, dove cerchiamo immediatamente un posto per trovare riparo dall’inclemenza del tempo. Veniamo indirizzati verso una sorta di grangia, un complesso che sotto il nome di Castellum Verdunense (Château- Verdun) cela un’antica casa ospitaliera (gestita dai monaci del Gran San Bernardo dal 1337, anno in cui venne loro donata dal conte savoiardo Amedeo III, ed ancora attiva oggi all’inizio del XXI secolo). Mentre usufruiamo della carità offertaci, ascoltiamo racconti che parlano del passaggio per queste contrade persino di Carlo Magno, quasi sei secoli prima di noi, e ci sentiamo davvero immersi in un percorso dove ogni pietra trasuda storia e fede. Decidiamo di passare qui la notte e, dopo aver dedicato il vespro alla cura della nostra anima, concediamo alle membra il meritato riposo.
Il giorno successivo riprendiamo il cammino in direzione del borgo di Estruble o Restopolis (oggi Étroubles), così chiamato in una Cronica del 1130 del monaco belga Rodolfo di Saint-Trond. Poche miglia e veniamo accolti dal profilo tozzo e squadrato di una torre, che i locali chiamano Tour de Vachéry, un vero e proprio monolite a controllo della strada, come spesso ci è capitato di vederne nel nostro cammino. Affrontiamo le formalità e possiamo quindi entrare nel borgo fortificato, dove ci dirigiamo verso la chiesa dedicata all’Assunta, che verrà ricostruita nel corso del XV secolo e poi completamente riedificata nelle forme attuali nel XIX secolo. Nel 1300 non è ancora stato realizzato l’ospizio intitolato ai SS. Nicola e Maddalena, fondato nel 1317, ma il paese è già strutturato per fornire assistenza ai pellegrini, specie grazie al servizio di marronnaggio che, in seguito agli Statuti emanati da Casa Savoia nel 1273, è stato riservato ai soli abitanti dei borghi di Étroubles e Saint-Rhémy. Proseguiamo uscendo dal villaggio, dopo aver ammirato una seconda maestosa torre appena al di fuori dell’abitato, chiamata Tour d’Étroubles (oggi scomparsa), per giungere poco dopo in località Echevennoz e quindi all’antico ospizio di La Clusaz, esistente dal 1140 ed oggi trasformato in accogliente albergo-ristorante. Dopo una preghiera nell’adiacente cappella dei SS. Maria e Pantaleone, riprendiamo il cammino fino a Gignod, dove veniamo accolti dall’imponente mole della torre quadrata a controllo dell’accesso viario, che ben chiarisce, insieme alla casaforte della famiglia dei nobili Archiery, l’importanza commerciale e politica di questa statio, sorta già in epoca romana. Nel sito dove oggi sorge la chiesa di Sant’Ilario, nel 1300 è presente un castello, ed è quello che i nostri occhi possono ammirare mentre attraversiamo questa località dove confluisce il cammino proveniente dalla conca della Vallis Poenina (Valpelline), attraverso cui hanno accesso alla Vallis Augustana (Valle d’Aosta) i pellegrini provenienti dall’area elvetica orientale. Scambiando poche parole con alcuni di loro veniamo a sapere che anche quel tracciato è abbastanza agevole: si passano villaggi dove la presenza della Via Francigena è ben radicata, come testimoniano numerose cappelle lungo il tracciato, oltre a siti fortificati a controllo della strada, tra cui emerge la cosiddetta Tornalla presso il Castrum Agaciae (Oyace), insediamento già citato dallo storico romano Strabone nel I sec. d.C.. Dopo una breve sosta ci prepariamo a ripartire e, dopo poche miglia, finalmente la valle si apre lasciandoci scorgere in fondo la prossima tappa del nostro viaggio: Augusta (Aosta). È lì che passeremo la notte, prima di rimetterci in cammino alla volta della meta ultima del nostro pellegrinaggio: Roma, caput et fundamentum totius christianitatis.