I SISTEMI NATURALI
CiĆ² che l'uomo abbandona torna al dominio della natura ma i tempi e i modi di tale ritorno costituiscono un nuovo problema.
DALL'INCOLTO AL BOSCO
di Carlo Montanari
Introduzione
Uno dei problemi ambientali che molti paesi europei si trovano a fronteggiare ormai da decenni è quello della dinamica postcolturale. Come si intuisce, si tratta del problema della gestione delle aree agricole marginali che, in seguito all'abbandono delle coltivazioni che non sono più redditizie perché costano più del reddito che producono, sono lasciate a se stesse, cioè ritornano sotto il dominio dei fattori ambientali naturali, spesso dopo secoli o millenni di coltivazione. Ci si potrebbe domandare perché questo debba costituire un problema: se si ritorna ad ambienti che dipendono strettamente dal clima, dal suolo, dalla concorrenza tra specie diverse, che cosa c'è che non va? Non è forse l'ideale dal punto di vista naturalistico ed economico? Il fatto è che il passaggio da un tipo di equilibrio ad un altro non è mai indolore: un territorio in larga parte sotto stretto regime agro-silvo-pastorale, come quello che era diffuso ancora fino alla metà del XX secolo, basa il suo equilibrio su pratiche precise e collaudate nei secoli di prelievo ed uso delle risorse, in linea di massima attente a che le risorse stesse non si deteriorino o esauriscano. In certo modo, le pratiche colturali si sostituiscono ai fattori naturali quali l'influenza del clima, del suolo, degli animali selvatici e garantiscono un equilibrio che si può mantenere abbastanza costante per millenni. Con l'abbandono delle pratiche colturali (coltivazione, pascolo, selvicoltura, ecc...) i nuovi equilibri instaurati vanno in crisi: il campo non più arato e seminato è invaso da specie spontanee, il suo terreno riprende un'evoluzione propria in relazione alla pendenza, quantità e distribuzione delle precipitazioni, copertura vegetale, ecc...; il prato non più falciato per fare fieno o la prateria pascolata sono invasi da specie arbustive che in precedenza venivano tagliate, bruciate o non si sviluppavano per l'effetto del morso del bestiame o per l'arricchimento del suolo dovuto agli escrementi; il bosco, tenuto sgombro e spesso rado, con uno strato erbaceo sfruttabile per il pascolo, per la raccolta dei funghi e della legna da fascina, in larga parte ceduato ogni pochi anni per ricavare legna o carbone, si accresce in altezza, si arricchisce di un sottobosco con specie arbustive che ne ostacolano l'attraversamento, diventa oscuro e inadatto alla crescita dell'erba e dei funghi e facile preda del fuoco.
Questo, naturalmente è solo un quadro sintetico e generico, perché ogni ambito territoriale ha, anche sotto questo punto di vista, le sue caratteristiche specifiche. Tuttavia, è evidente che questi stadi di abbandono post-colturale sono quasi sempre poco gradevoli per una serie di ragioni che traspaiono chiaramente dal quadro delineato; inoltre, anche superata questa fase (che come vedremo può avere una lunga durata), non è detto che il nuovo assetto risulti soddisfacente, per diverse ragioni. Per esempio, in ambito alpino, un paesaggio colturale caratterizzato da praterie da fieno con la loro fioritura stagionale, le pratiche di sfalcio, asciugatura e raccolta del fieno, pascolo, spazi aperti innevati nell'inverno, sarebbe destinato ad essere riconquistato molto spesso dal bosco di caducifoglie al di sotto dei 1300 metri e da quello di conifere fino al limite superiore dei boschi, intorno ai 2000 m. Facciamo uno sforzo di fantasia ed immaginiamoci questo scenario per la Valle d'Aosta: potrebbe considerarsi il trionfo della natura, ma che ne sarebbe della tanto decantata biodiversità, dei paesaggi in cui l'attività dell'uomo si è integrata nei secoli fino a caratterizzarli profondamente facendoli diventare di per sé un valore ambientale e culturale? Sono di pochi secoli addietro le descrizioni, da parte di avventurosi viaggiatori, di selve oscure ed infide, infestate da animali selvatici e predoni (es. Des Ambrois, 1901). A parte le visioni pessimistiche o catastrofiche, ad oggi poco realistiche, è chiaro che il problema esiste ed è un problema al tempo stesso di scelte a lungo termine, di politiche di gestione ambientale, di conoscenza del territorio e dei suoi equilibri, di applicazioni di queste conoscenze alle scelte di politica ambientale.
Quale paesaggio "naturale"?
Per paesaggio naturale intendiamo comunemente quello determinato da fattori ambientali quali il clima, il suolo, gli organismi vegetali ed animali. Per avere un'idea di quale fosse il "paesaggio originale" in un certo territorio, possiamo ricorrere a fonti storiche, ad esempio i classici greci o romani che ci hanno lasciato descrizioni di un periodo in cui l'attività dell'uomo era molto meno pesante di oggi o del recente passato; in realtà, già in epoca preistorica e protostorica si erano sviluppate attività che avevano apportato modificazioni significative, specialmente con l'avvento dell'agricoltura, della selvicoltura, dell'allevamento, dell'estrazione di minerali. Per i periodi più antichi, per i quali non ci sono fonti scritte, le informazioni principali sono le tracce, soprattutto biologiche, che si sono conservate in ambienti idonei. Lo studio di micro o macroresti di piante quali polline, semi, frutti, legni, carboni, può fornirci un quadro abbastanza realistico della copertura vegetale di epoche più o meno remote e dei relativi paesaggi, sia naturali sia antropici. Se, quindi, pensassimo ad un ritorno ad una condizione naturale di un certo territorio, avremmo dei modelli, almeno approssimativi, di situazioni in equilibrio con i fattori ambientali locali. Il problema è che, nel frattempo, sono passate alcune migliaia di anni durante i quali la geomorfologia, il suolo, la composizione floristica della vegetazione e forse anche il clima sono almeno in parte cambiati: non è facile, quindi, tornare agli equilibri precedenti in quanto si parte da condizioni più o meno lontane da quelle del primo popolamento postglaciale. Si definisce appunto "vegetazione naturale potenziale" il tipo di copertura vegetale che si instaurerebbe in un certo territorio se venisse sospesa qualsiasi attività umana; dato quindi che la situazione di partenza è quella attuale che risente di una lunga storia di uso del territorio, si ammette che l'evoluzione naturale non riporterà necessariamente agli assetti preesistenti all'intervento dell'uomo e, comunque, non nei tempi relativamente brevi che sono sufficienti, per esempio, anche alla ricostituzione di una copertura arborea ben strutturata. L'abbandono improvviso delle pratiche di uso determina una evoluzione (successione secondaria) che segue tempi e modalità diverse - a seconda dei casi - verso un nuovo equilibrio dettato dalle condizioni ambientali presenti. Di queste fasi di transizione si occupa lo studio della dinamica postcolturale che ne descrive i tempi e i modi sia da un punto di vista teorico generale, sia per ciò che riguarda i singoli casi. Si possono individuare degli stadi o tappe che si susseguono nel tempo su una stessa area e che costituiscono complessivamente una serie; lo stadio finale in equilibrio si definisce tappa matura (che corrisponde a quello che oggi non si vuole più chiamare climax).
Nel caso della Valle d'Aosta, analisi polliniche svolte in anni recenti permettono di seguirne, a partire dalle ultime fasi glaciali, la storia naturale e le modificazioni progressivamente apportate dall'attività dell'uomo (Brugiapaglia, 1996; Menozzi e Montanari, 2002). Possiamo così valutare quale fosse il paesaggio vegetale quando erano solo i fattori della natura a determinarlo e quindi anche quanto oggi siamo distanti da quegli equilibri, tenendo conto delle variazioni soprattutto climatiche ed edafiche intercorse. Per periodi storici, si può fare ricorso ad una più ampia disponibilità di fonti (archeologiche, di archivio, di terreno, cartografiche, iconografiche, fotografiche, orali, ecc…) utilizzando i criteri dell'ecologia storica e dell'archeologia ambientale (ad esempio Moreno et al., in stampa).
Fasi e tempi dell'evoluzione postcolturale
Per disporre di dati qualitativi e quantitativi definiti nello spazio e nel tempo non possiamo andare troppo indietro: conviene non risalire oltre i primi studi sulla dinamica della vegetazione postcolturale affrontati con metodologia quantitativa. Per la Valle d'Aosta, Peyronel e Dal Vesco (1973) ci hanno lasciato un'interessante indagine di questo tipo relativa alla valle di Cogne: vengono esaminati la composizione floristica, l'ecologia ed i tempi della successione spontanea che si avvia all'abbandono delle colture a quote comprese tra 1600 e 1800 metri. Risulta che le variazioni sono ben evidenti, nell'arco di una cinquantina di anni, con la progressiva scomparsa delle specie coltivate e anche di quelle spontanee legate ai diversi tipi di coltura: ad esempio, i fiordalisi e altre specie spontanee tipiche dei campi di cereali resistono per circa 10-15 anni, prima di essere sopraffatti da altre, proprie di praterie aride che si instaurano in relazione ai fattori naturali locali; il pino silvestre compare già nelle prime fasi di abbandono, ma occorrono più di 100 (150) anni prima che si possa tornare ad una pineta arida che dovrebbe essere il tipo di vegetazione in equilibrio con il clima attuale. Gli stadi intermedi consistono in una serie di praterie steppiche che tendono ad arricchirsi di arbusti di ambienti aridi (es. Ginepri, Artemisia campestre, Astragalo centroalpino, Crespino, Pino silvestre). Gli Autori osservano anche il fatto che durante queste fasi di transizione non si notano fenomeni di dissesto (es. erosione del suolo, crollo di terrazzamenti) e che, di conseguenza, i tempi lunghi della riforestazione spontanea non dovrebbero costituire un problema da questo punto di vista. Nel caso dei vigneti dei dintorni di Aosta, sono invece le specie tipiche delle siepi (Rose, Rovi, Crespino, Ligustro, …) ad invadere le coltivazioni in abbandono, come fasi di transizione verso un querceto xerofilo di Roverella, di lento sviluppo; su terreni smossi e a falda superficiale prevale invece l'Olivello spinoso (Filipello et al., 1985).
Si capisce facilmente, quindi, che sono proprio questi stadi intermedi di durata anche secolare che costituiscono il problema: non hanno apparentemente nessuna utilità, sono costituiti spesso da popolamenti arbustivi di specie spinose che impediscono il transito, il pascolo, la crescita e la raccolta dei funghi, qualsiasi fruizione del territorio che non sia la raccolta di frutti selvatici come le more; sono inoltre facile preda del fuoco e non hanno valore paesaggistico. Bisognerebbe allora ridurre al minimo i tempi di ritorno all'equilibrio e garantire che questi non si dilatino, invece, per es. in seguito ad incendi che riportano alla situazione di partenza, o più indietro ancora. Un'altra soluzione, più costosa ma collaudata, è quella di fare sì che le cure agricole tradizionali non vengano abbandonate, anche nelle aree in cui ciò non sia economicamente conveniente. Questo significa incoraggiare la prosecuzione del presidio territoriale operato prima di tutto da agricoltori e pastori, con incentivi specifici, come è stato fatto anche in altri Paesi; si tratta di una misura che può sembrare costosa, trattandosi di interventi a fondo perso, ma che, se servissero ad evitare o almeno a diminuire le conseguenze dei dissesti ambientali (per es. alluvioni, incendi incontrollati), si rivelerebbero comunque un buon investimento nel lungo periodo. Inoltre, in una regione a vocazione turistica, garantirebbero la sopravvivenza di paesaggi colturali caratteristici.
Naturalmente, tempi e modi delle successioni più o meno naturali dipendono da diversi fattori che sono tipici di ciascun territorio e che, in tempi lunghi, possono modificarsi a loro volta. Ciò significa che in genere possono cambiare con l'esposizione dei versanti, con l'altitudine, con il tipo di substrato geologico, ecc. La Valle d'Aosta, poi, possiede un clima continentale asciutto e lunghi inverni freddi che dilatano i tempi di evoluzione. Se ci spostiamo, per esempio, lungo la costa della Liguria, le cose cambiano sensibilmente: qui, in un regime climatico mediterraneo temperato, con quantità di precipitazioni doppie ed inverno mite, possono bastare 10-15 anni perché un vigneto abbandonato delle Cinque Terre diventi una macchia ad Erica arborea, Corbezzolo e Leccio e 20-25 anni perché su quei terrazzamenti si insedi una pineta d'alto fusto di Pino marittimo (AA.VV., 2002; Moreno et al, in stampa). Più o meno lo stesso tempo (25 anni) occorre ad un oliveto abbandonato nella Riviera di Levante per essere completamente sommerso e soffocato da Rovi e Vitalba ed avviarsi a divenire una boscaglia, frequentemente con latifoglie termofile come Roverella, Orniello o Carpino nero (Montanari, inedito).
Risultati e considerazioni simili si possono trovare in molti altri lavori (es. Piussi, 1994 e 2002; Pividori, 2000).
Considerazioni conclusive
I temi della dinamica della vegetazione rappresentano senza dubbio uno degli aspetti più affascinanti dell'ecologia di un territorio anche, o forse soprattutto, perché integrano una serie di conoscenze di base riguardanti molte discipline diverse in una dimensione temporale che spazia dal passato remoto, dominato dalle forze della natura, attraverso una lunga storia di "domesticazione", fino al presente in cui sembra inevitabile restituire una parte di territorio ai suoi equilibri naturali. Il futuro è legato alla convinzione che solo una buona conoscenza dei meccanismi dei fenomeni naturali e delle interazioni di questi con l'attività dell'uomo può fornire gli strumenti necessari per operare delle scelte di gestione ambientale razionali e lungimiranti, che vadano oltre le ragioni opportunistiche di una politica e di una economia di breve respiro. Ma è importante anche che le scelte politiche siano comprese e condivise dal singolo abitante di un territorio e ciò si ottiene solo con una corretta informazione sulle ragioni ed i costi sociali di una pianificazione ambientale scientificamente fondata.
Bibliografia:
Brugiapaglia E., 1996, Dinamique de la vegetation Tardiglaciaire et Holocene dans les Alpes italiennes Nord-Occidentales. These Université de Aix-Marseille III.
Des Ambrois L.F., 1901, Notes et souvenirs inédits du chevalier Louis Des Ambrois De Navache. Zanichelli. Bologna.
Filipello S., Sartori F., Terzo V., Gardini Peccenini S., 1985, Carta della vegetazione dei dintorni di Aosta. Atti Ist. Bot. E Lab. Critt., 4: 5-25.
Menozzi B.I. e Montanari C., 2002, La storia in una torbiera. Environnement, 20: 32-35.
AA.VV., 2002, Liguria. In "Patrimoni de mariades a la Mediterrània occidental. Una proposta de catalogaciò". (Prog. Eur. Raffaello - PATTER). pp. 139-173.
Montanari C., Distribuzione e dinamica degli oliveti in relazione alle caratteristiche dell'ambiente (inedito).
Moreno D., Cevasco R., Guido M.A., Montanari C., L'approccio storico-archeologico alla copertura vegetale: il contributo dell'archeologia ambientale e dell'ecologia storica. In: Caneva G. (a cura di) Biologia vegetale per i Beni Culturali. Vol. 2° - Conoscenza e valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali (in stampa).
Peyronel B. e Dal Vesco G., 1973, Effetti dello spopolamento della montagna sulla vegetazione: osservazioni su campi abbandonati in Val di Cogne (Aosta). Bull.Soc. Flor.Valdotaine, 27: 5-34.
Piussi P., 1994, Selvicoltura generale. UTET. Torino. pp. 365-370.
Piussi P., 2002, Rimboschimenti spontanei ed evoluzioni post-coltura. Monti e Boschi, anno LIII, 3-4: 31-37.
Pividori M., 2000, Analisi strutturale in popolamenti di neoformazione su terreni agricoli abbandonati. In Bucci G., Minotta G., Borghetti M. (a cura di), Atti del II Congresso SISEF , Bologna, 20-22 ottobre. Ed. Avenue Media, Bologna, pp. 504
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