I SISTEMI NATURALI
I sistemi naturali sono in continua evoluzione, sia per l'influenza dell'uomo che per le proprie stesse leggi; la pianificazione deve valutare tali equilibri introducendo nuovi metodi di controllo.
PAESAGGIO IN MOVIMENTO
di Silvana Pellissier
Se guardiamo il paesaggio alpino in termini dinamici, l'ambiente naturale ci appare come un substrato continuo nel quale l'uomo da sempre ritaglia i suoi spazi abitativi e produttivi, creando forme e trame caratteristiche di ogni epoca. Il paesaggio che ne deriva è dunque un'estrema sintesi di tutti i fattori che partecipano alle dinamiche del rapporto tra uomo e territorio: da quelli propri dei sistemi naturali quali la morfologia, il microclima, le componenti della vegetazione e della fauna, a quelli determinati dalle attività umane: la storia, l'economia e la stessa cultura di un popolo. Tutti questi fattori si riflettono nella qualità del paesaggio in un equilibrio dinamico, in continuo ed inesorabile mutamento per adeguarsi alle variazioni di ogni singolo fattore. Le dinamiche sono del tutto analoghe a quelle ecologiche, che reggono l'evoluzione degli ecosistemi naturali: anche in questo caso ogni variazione interna al sistema produce mutamenti a catena fino al completo assorbimento degli effetti in un nuovo punto di equilibrio; nel caso del paesaggio dobbiamo aggiungere all'interno del sistema la presenza dell'uomo, alla stessa stregua di qualsiasi altro fattore ecologico. Inevitabilmente i mutamenti economici e sociali determinano trasformazioni imponenti nelle dinamiche del territorio e nel risultato visibile che si traduce nel paesaggio. Non sempre le trasformazioni sono individuabili in tempi brevi e ci accorgiamo degli effetti solo quando la perdita di elementi preziosi del territorio, in termini di paesaggio e di risorsa, fa scaturire la necessità di protezione. Così è avvenuto per le zone umide alle medie e basse quote e, prima ancora, per le superfici forestali; così sta avvenendo per alcuni ambienti agricoli tradizionali e per le radure prative di media montagna.
Spazi sempre più ampi sono lasciati all'evoluzione naturale, non soltanto aree improduttive d'alta quota ma anche terreni produttivi, quali pascoli e prati stabili, sono rapidamente colonizzati dalla vegetazione spontanea che arriva talvolta ad interferire direttamente con il paesaggio abitato. L'espansione del bosco è uno tra i fattori più importanti nelle variazioni recenti del paesaggio montano, con effetti percepibili in un arco di tempo non molto ampio: soltanto negli ultimi 20 anni si è verificata una riduzione significativa delle radure e una colonizzazione forestale diffusa lungo i margini fra bosco e terreni agricoli. Se fra una decina d'anni dovessimo aggiornare la carta delle aree boscate ai sensi della legge regionale 6 aprile 1998, n. 11, utilizzando gli stessi criteri, dovremmo inserire ampie superfici agricole nei territori soggetti ai vincoli che riguardano le aree coperte da boschi e foreste. In questa ipotesi non soltanto ampie superfici potenzialmente produttive verrebbero sottratte all'uso agricolo ma andrebbero definitivamente persi importanti elementi caratteristici del paesaggio tradizionale, soprattutto le radure che testimoniano la presenza dell'attività umana all'interno dei versanti boscati e rendono ospitale un ambiente dominato degli elementi naturali.
È questo un aspetto del tutto nuovo nel rapporto tra insediamenti umani e sistemi naturali. Per secoli, infatti, la tutela delle risorse naturali, soprattutto delle foreste, è stato un obiettivo necessario quanto difficile da raggiungere: la pressione per lo sfruttamento delle risorse era talmente forte da richiedere interventi, talora anche drastici, per evitare l'esaurimento delle naturali capacità rigenerative. In tempi recenti questo obiettivo di conservazione è divenuto una facile conquista: i prodotti diretti del bosco e del pascolo diventano sempre meno ambiti e le pressioni da contenere per la salvaguardia di questi beni sono ormai ridotte a pochi e localizzati interessi legati all'edificazione o alle infrastrutture.
Da cosa dobbiamo difendere dunque le risorse naturali? Sempre più spesso ci troviamo nelle condizioni di doverle difendere dalle stesse dinamiche naturali.
Il mantenimento di un paesaggio alpino, con i suoi caratteri di tipicità siamo abituati ad apprezzare, deve inevitabilmente includere l'uomo nelle sue dinamiche. La completa sottomissione alle leggi naturali non conduce, infatti, ad un equilibrio accettabile con l'uso del territorio: un ambiente abbandonato e lasciato alla completa naturalità è sempre un ambiente inospitale, ben diverso da quello che l'immaginario comune associa ad un tipico ambiente alpino, talvolta addirittura isolato dalla presenza umana perché praticamente irraggiungibile.
Da una situazione in cui le attività umane permeavano completamente gli ambienti naturali si è passati rapidamente ad una situazione in cui la natura torna a riprendersi gli spazi sottratti ed instaura le proprie dinamiche evolutive su territori sempre più ampi. Le consistenti energie economiche destinate al mantenimento delle attività agro-pastorali hanno sicuramente rallentato il processo di abbandono ma non hanno potuto garantire un presidio stabile del territorio, possibile solo attraverso il rinnovamento delle pratiche di utilizzo estensivo delle risorse naturali.
Dovremo quindi sempre più spesso confrontarci con un territorio in via di rinaturalizzazione e con i problemi che esso pone in relazione alle esigenze insediative: la regimazione delle acque e la stabilità del suolo, la salvaguardia delle vie di accesso e la stabilità meccanica degli alberi in grado di minacciare direttamente le strutture.
Se dunque il paesaggio è la sintesi visibile di fattori in continuo cambiamento, la sua immagine attuale non è altro che una fotografia che fissa un istante di un'azione in corso di svolgimento. Un singolo fotogramma non è però sufficiente a definire il movimento.
Su quali basi dunque possono essere definite le scelte di pianificazione? Quale signifcato assume la conservazione degli ambienti naturali?
Veniamo da una cultura che ha imparato a proteggere i beni in rapido esaurimento ma non ancora a prevedere gli effetti delle dinamiche in atto e a regolarne per tempo l'intensità (lo dimostrano a scala planetaria i disaccordi del mondo scientifico riguardo ai cambiamenti climatici, durati per decenni fino all'evidenza dei fatti). Interagire con equilibri in continuo movimento è inevitabilmente un problema complesso, che richiede una conoscenza profonda dei fattori che interagiscono ed il controllo continuo degli effetti delle azioni per poterle adeguare tempestivamente alla reattività del sistema.
Di fronte a questa questione non posso fare a meno di ripensare ai concetti tratti dalla selvicoltura naturalistica, formulati dai fondatori di questa disciplina alla fine del XIX secolo. Sono probabilmente questi pensatori sul campo i precursori della pianificazione territoriale intesa in termini moderni: di fronte alla necessità di trarre dalla risorsa forestale la massima produzione possibile senza comprometterne l'esistenza e l'equilibrio, hanno dovuto confrontarsi con la necessità di controllare un equilibrio dinamico come quello della foresta e dei sistemi ecologici in genere. Il problema al quale hanno cercato di dare una risposta era precisamente quello di uno sfruttamento sostenibile della risorsa forestale, un concetto ormai molto comune ed esteso alla totalità delle attività umane che coinvolgono le risorse riproducibili. Scriveva E. Biolley nel 1929: "Lorsque nous disons que nous cherchons le maximum de la production, il s'agit de ce maximum dans l'espace et dans le temps; la production est donc liée à la conservation de tous les éléments de la fertilité, à la durée et à la régénération de la forêt". Il risultato della loro gestione, allora del tutto sperimentale, poteva essere verificato soltanto attraverso un metodo rigoroso, messo a punto da Gurnaud attorno al 1870: il "metodo del controllo", tuttora attuale ed applicato nella gestione forestale, prevede la comparazione dei dati sul capitale legnoso e sull'accrescimento della massa legnosa ottenuti in inventari successivi, in modo tale da ottenere un quadro preciso delle dinamiche in atto e sui risultati degli interventi effettuati.
L'efficacia di questo semplice metodo è possibile grazie a due parametri ben precisi su cui si fonda: la quantificazione del capitale legnoso e del suo accrescimento sono infatti sufficienti a definire se le dinamiche prodotte vadano nel senso voluto, ovvero rendano massima la produzione e consentano la sostenibilità della risorsa. Lo stesso principio può essere esteso alla totalità delle risorse naturali che compongono il paesaggio: anche in questo caso, se noi disponessimo di inventari successivi elaborati con metodi confrontabili, avremmo un'immagine ben chiara e quantificabile dei processi di trasformazione a seguito dell'azione (o della non azione) dell'uomo sul territorio. Quando si sostituisce all'ecosistema foresta il più vasto insieme degli ecosistemi che compongono il territorio diviene però più complesso stabilire quale sia l'equilibrio da ricercare per ottimizzare il rapporto fra le esigenze dell'uomo e la naturalità del territorio. Non è infatti proponibile la pura conservazione del paesaggio attuale, che implicherebbe non solo l'esclusione delle dinamiche socio-economiche ma anche l'impiego di enormi risorse per contrastare i processi di evoluzione naturale. I processi in atto, naturali e antropici, non possono che essere accettati ed inclusi nel sistema per poter essere diretti e controllati.
Se il paesaggio è un insieme di risorse ed è esso stesso una risorsa nella sua globalità, l'analogia con il caso specifico della selvicoltura ci porta a pensare che l'obiettivo della pianificazione possa essere la sostenibilità nel tempo delle singole risorse, attuali o potenziali, e la massimizzazione dei benefici che da esse derivano. Potrebbe sembrare un concetto utilitaristico ma non è così se si pensa che quello che siamo soliti definire paesaggio tradizionale è il frutto di un rapporto secolare fra uomo e territorio, che ha trovato nell'ambiente naturale le risorse necessarie ed ha costruito una specifica cultura fondata sulle modalità di sfruttamento delle risorse nell'ambiente alpino.
Ciò che cambia ora rispetto al passato non è altro che il concetto di valore delle risorse: i prodotti degli ambienti naturali continuano ad avere un valore solo quando contribuiscono alla creazione di prodotti legati territorio di origine, che ne rappresentano i caratteri di unicità. Ai benefici diretti si aggiungono o si sostituiscono elementi di valore legati alla salubrità ambientale, al turismo e al tempo libero, all'unicità dell'ambiente alpino. Si pensi a tale proposito al nuovo valore assegnato alle foreste dal protocollo di Kyoto che, nell'ambito dei programmi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, prevede che venga considerato e quantificato il potere di assorbimento della superficie forestale. Alle foreste viene in tal modo assegnato un preciso valore, legato alla loro funzione di stoccaggio del carbonio, che rende quantificabile e dà visibilità al loro ruolo ben noto di filtri dell'atmosfera.
Immaginando di estendere il concetto tratto dal "metodo del controllo" alla pianificazione degli ambienti naturali sarebbe dunque possibile, a partire dagli strumenti attuali, valutare in modo dinamico quanto le azioni pianificatorie hanno prodotto in termini di aumento/diminuzione del capitale naturale, quali benefici ne sono stati tratti, dove è più opportuno o necessario dirigere le energie per conservare e valorizzare le risorse.
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