I SISTEMI NATURALI
Solo lo sviluppo di una seria, lungimirante e continuativa politica di filiera può permettere la valorizzazione dei legnami tradizionali delle nostre vallate alpine.
PRODUZIONE LEGNOSA DA TAGLIO
di Alessandro Nicoloso
Il rapporto fra l'uomo e l'ambiente ed in particolare, nel caso nostro, fra l'uomo e la foresta è oggi profondamente diverso dal passato. Il rispetto che c'era nella cultura contadina nei confronti della natura era tutt'uno con il senso di reale dipendenza da essa nel vivere quotidiano. La natura era provvidenziale in quanto contribuiva direttamente alla vita; senza di essa la vita sarebbe stata notevolmente più difficile e, forse, impossibile.
La foresta era sì bella, era certamente naturale, ma era soprattutto utile nel senso più semplice del termine (uti = usare). Da essa si ricavava il sostentamento quotidiano; energia per riscaldarsi, frutti, prodotti per l'agricoltura, legname per costruire oggetti e case, frasche per il bestiame, rifugio per la fauna selvatica, protezione dagli eventi calamitosi. Di questa percepita utilità si trova ampia traccia in diversi documenti monastici fin dall'inizio del secondo millennio quando si enunciano per la prima volta i rapporti fra monaci e la foresta; il bosco e le sue piante, sono percepite utili per la costruzione di oggetti (il legno del Cedro per esempio), per sostenere la vite (l'Olmo), per fare siepi impenetrabili (il Biancospino), per produrre estratti medicamentosi (Mirto) assumendo invece in altri casi significati più spirituali come nel caso dell'Abete o dell'Olivo.
Un rapporto di concreta utilità, se pure certamente meno spirituale, era anche quello percepito su un piano ed in tempi diversi dalla repubblica di Venezia che attingeva alle foreste venete per approvvigionarsi del legname necessario alla costruzione delle navi.
Entrambi, monaci camaldolesi e repubblica di Venezia, hanno codificato regole di gestione del bosco che hanno gettato le premesse per lo sviluppo delle scienze forestali.
Sulla base di questi presupposti è facile comprendere almeno due cose.
Il motivo che sta alla base del rispetto che i nostri avi avevano per la foresta è la sua utilità per l'uomo. Contrariamente a quanto comunemente si tenda a credere, infatti, il monaco non aveva una visione sacralizzata della natura, aspetto viceversa più proprio della cultura pagana. I monaci camaldolesi percepiscono cioè che la natura sia stata affidata all'uomo dal Creatore con il compito del "…buon governo" (Don Giuseppe Cicchi, monastero di Camaldoli), senza prevaricazione "…né dell'uomo sull'ambiente né dell'ambiente sull'uomo" (Padre Salvatore Frigerio, Storie antiche di monaci ed alberi. Il Codice Forestale Camaldolese).
Culturalmente questa è la base della selvicoltura e delle scienze forestali che, come si chiarirà oltre, sono di per sé stesse discipline che devono mediare fra innumerevole istanze e vincoli; di qui la loro modernità e la perfetta sintonia con quanto oggi va sotto la definizione di sostenibilità.
La limitatezza della foresta come risorsa, certamente più marcata in Italia rispetto ad altri paesi e nell'Europa continentale temperata rispetto ad altre regioni del pianeta, ha generato la necessità di comprendere le leggi che la governano, dando luogo alla nascita di regole per la gestione del bosco che sono poi sfociate nella moderna selvicoltura, nella dendrometria (misurazione degli alberi), nell'assestamento.
Questa premessa, il cui maggiore scopo è quello di richiamare il fatto che la selvicoltura è disciplina antica con profonde radici tecniche e culturali e non materia giovane o banale, introduce gli aspetti attuali della gestione forestale. Quando entriamo in un qualsiasi bosco delle nostre alpi ci sentiamo in qualche modo immersi nella natura; ma è natura vera? No, non è natura vera, non è cioè il più delle volte l'esito di dinamiche solo naturali. Se siamo attenti vediamo infatti ovunque tracce dirette o indirette delle attività dell'uomo come per esempio ceppi tagliati, sentieri e muretti a secco, piccole opere di regimazione delle acque. Se siamo ancor più attenti ed un po' esperti notiamo piante con tronchi anormalmente ampi e chiome basse in confronto ad altre alte e slanciate; piante che portano segni di ripetuti tagli a pochi metri di altezza, ed altre in apparenza del tutto naturali; tronchi con tracce di incisioni e concrezioni di resina; singole piante o piccoli gruppi del tutto diversi da quelle prevalenti; notiamo boschi densissimi ed altri aperti e luminosi, talvolta inspiegabilmente del tutto radi; notiamo gruppi di piante o boschi interi che presentano una strana regolarità dimensionale ed altri magari molto irregolari. Tutto questo dice cose importantissime; dice che l'uomo agisce nel bosco e che, soprattutto, pur avendo agito per secoli il bosco c'è ancora, è li, pur con mille problemi, a svolgere le sue funzione.
Ma come viene gestito un bosco? La gestione di un bosco avviene applicando innanzitutto le tecniche proprie della selvicoltura e dell'assestamento forestale; la prima è la disciplina che si pone l'obiettivo di individuare le variabili che possono agire sul bosco riconducendole entro modelli di intervento conformi ai caratteri autoecologici (autoecologia: risposta specifica che ogni diversa specie ha nei confronti dei parametri ambientali come temperatura, umidità, natura geolitologica del terreno, ecc...) delle singole specie, alle dinamiche di competizione fra soggetti o gruppi di soggetti, ai meccanismi evolutivi dei popolamenti, alle modalità tipiche con le quali i boschi si rinnovano.
L'assestamento forestale è invece una disciplina che ha come scopo intrinseco che una foresta possa garantire una produzione di beni (per esempio legname) e/o di servigi (per esempio tutela idrogeologica, paesaggio, tutela per la fauna, ecc...) massima e costante. La selvicoltura ha subito negli anni delle profonde trasformazioni che in qualche modo risentono del clima culturale del proprio tempo; se nel passato, sotto l'influenza di una cultura illuminista e tecnicista, è stata per lo più basata su modelli piuttosto rigidi e semplificati che meglio si adattavano ad una visione pragmatica e produttiva, oggi tende piuttosto a considerare prioritariamente il complesso delle dinamiche ecologiche che caratterizzano un determinato bosco orientandone la gestione in modo da minimizzare lo scostamento da tali equilibri. Questo approccio va sotto il nome di selvicoltura naturalistica, termine largamente condiviso ma non esattamente codificato da alcuno. La gestione organica e sostenibile di un bosco, per essere tale, deve risultare pianificata; diversamente si può solo avere un controllo complessivo dell'andamento della risorsa forestale. In altre parole, nelle nazioni pur evolute e dotate di notevole know-how, dove la risorsa forestale è presente in larghissima abbondanza (per esempio Canada, USA) la gestione forestale è stata a lungo esclusa da una vera pianificazione, limitandosi lo Stato a controllare l'andamento complessivo delle proprie risorse. La meritoria tradizione di pianificare la gestione di singole foreste è invece propria delle aree ove la foresta è un bene limitato rispetto ai possibili prelievi cioè, in larga parte, il vecchio continente. Nel pianificare la gestione di un bosco il tecnico procede innanzi tutto a percorrerlo in lungo ed in largo per comprenderne la composizione e le problematiche generali; dopo questo primo inquadramento la foresta da gestire viene suddivisa in singole unità gestionali denominate particelle, le cui caratteristiche sono di presentare un buon livello di omogeneità interna per quanto attiene la composizione, il grado evolutivo, la possibile destinazione gestionale, i principali caratteri stazionali (geologia, litologia esposizione, pendenza, etc.). Le particelle che hanno simili caratteristiche vengono destinate ad una medesima classe economica; il termine risente delle antiche definizioni ma, in soldoni, significa che tutte le superfici che appartengono a tale classe sono accomunate da una medesimo indirizzo gestionale. Avremo così, per esempio, la classe economica della "Pecceta di produzione" - cioè boschi di Abete rosso senza gravi limitazioni gestionali nei quali si produrrà legname -, quella del "Lariceto di protezione" - cioè formazioni a Larice prevalente che per la loro localizzazione sono destinati prioritariamente alla protezione dei versanti -, quelli della "Faggeta di conversione" - cioè boschi di Faggio governati a ceduo che verranno indirizzati a formare delle fustaie - ecc... (con il termine fustaia e ceduo si indicano i due tipi di governo del bosco; la fustaia, o bosco d'alto fusto, è un bosco nato da riproduzione da seme; il ceduo è un bosco che si riproduce agamicamente cioè con l'emissione di nuovi getti direttamente dal ceppo dopo il taglio. Tutti i boschi di conifere sono fustaie mentre i boschi di latifoglie possono essere governati sia a fustaia che a ceduo).
Si tratta a questo punto di impostare la reale gestione del bosco. Si tratta cioè di rispondere ai seguenti quesiti: quanto posso prelevare dal bosco? Con quali criteri? Quando il bosco sarà da considerare maturo? Come farlo rinnovare? È possibile migliorare la qualità del legname che viene prelevato? Come posso migliorare la resa economica della gestione selvicolturale? Come posso ottimizzare, cioè rendere massimi e permanenti, la produzione di beni e di servizi che il bosco può produrre?
Non sono domande da poco perché è evidente a tutti che le esigenze da soddisfare sono talvolta non facilmente conciliabili. Le valutazioni iniziali, che come detto sono di natura prevalentemente qualitativa, vengono in questa fase integrate con analisi quantitative. È così che si procede in genere in ciascuna singola particella e, in forma riepilogativa, nel complesso di ciascuna classe economica, a stimare la provvigione (cioè i volumi di biomassa legnosa presenti nel bosco), l'incremento (cioè di quanto si sta accrescendo il bosco in termini medi, attuali e percentuali), l'altezza delle piante, l'età. Tutto ciò viene fatto con procedure molto diverse in relazione al tipo di bosco, ai costi sostenibili ed all'importanza ecologica o economica del popolamento etc. Per la stima della provvigione si può operare con rilievi integrali, che prevedono cioè la conta di tutte le piante, con criteri statistici ed eventualmente con metodi sintetici molto sommari. Oggi si tende a privilegiare l'approccio statistico, prevedendo l'impiego di rilievi totali o di criteri sintetici sommari rispettivamente in caso di boschi di elevatissimo significato ecologico e/o economico o, viceversa, di boschi di modesto significato gestionale (boschi di protezione, popolamenti molto giovani, ecc...).
I rilievi condotti permettono di avere, unitamente alle valutazioni qualitative su composizione, struttura, mescolanza, presenza di rinnovazione, informazioni sulla gestione passata, una fotografia molto esaustiva di ogni singola particella che caratterizza il bosco.
Sulla base di tutti questi caratteri, per ciascuna particella vengono fissati gli obiettivi selvicolturali, indicati gli interventi di miglioria da eseguire e i tagli consentiti, fissandone la ripartizione temporale nell'ambito del periodo di validità del piano (di norma 10 o 15 anni), la quantità prelevabile e i criteri esatti di prelievo sotto il profilo selvicolturale cioè, per esempio, se verranno prelevate prioritariamente le piante grandi o quelle piccole, se il taglio sarà per gruppi o distribuito su tutta la particella, su quali specie, in caso di boschi misti, si orienterà il taglio e per quale motivo.
Per quanto non siano più così semplificati e rigidi rispetto al passato, è indubbio che ancora oggi la gestione di un bosco venga operata sulla base di modelli colturali ben codificati; ciò garantisce la possibilità per esempio che due tecnici diversi possano trasmettersi informazioni sulla gestione attuata e che a distanza di molto tempo (un bosco quasi sempre dura assai più di un tecnico!) si possano giudicare i risultati con riferimento al modello adottato.
Volendo semplificare, esistono almeno due impostazioni gestionali di riferimento per i boschi d'alto fusto; il bosco coetaneo (o regolare, per i francesi) ed il bosco disetaneo.
Benchè in realtà tali due modelli siano entrambi più teorici che reali nella loro applicazione canonica e pur considerando che esistono diverse sfumature intermedie fra di essi, è indubbio che ad essi occorra fare riferimento ideale almeno in un primo approccio. Il bosco coetaneo, ben teorizzato dalla scuola francese dove si trova applicato soprattutto nei querceti di pianura, si caratterizza per avere particelle nelle quali le piante hanno in prevalenza grossomodo la stessa età. Ciò comporta che il bosco di ciascuna particella andando tutto insieme verso la propria fase di maturità ponga problemi legati alla contemporaneità del taglio di maturità in relazione agli aspetti paesaggistici, alla possibile induzione di dissesto idrogeologico, alla perdita di fertilità del suolo, ecc... A tale modello, si applicano nel concreto diversi schemi operativi che sostanzialmente si differenziano fra loro per le scelte inerenti l'innesco della fase di rinnovazione, l'età alla quale la rinnovazione è prevista e le tecniche selvicolturali applicabili al bosco nel periodo che va dalla sua nascita alla sua maturità. In questo periodo che, com'è facilmente comprensibile, dura almeno 70/80 anni, sul bosco vengono condotti interventi di riduzione della densità finalizzati alla regolazione della competizione; di fatto il selvicoltore, eliminando progressivamente un certo numero di piante anticipa quanto già la natura tenderebbe a fare con la progressiva morte dei soggetti che non hanno vinto la competizione entro il proprio popolamento. Questo tipo di intervento, chiamato diradamento o taglio intercalare imita la natura con la sola differenza che questa esprime tale selezione senza soluzione di continuità, mentre l'uomo la concentra ad intervalli di tempo più o meno regolari. Il diradamento serve pertanto a regolare la densità, la mescolanza fra le specie, eliminare i soggetti più deboli o che si presume possano offrire meno garanzie di raggiungere la maturità.
Il modello di bosco disetaneo (studiato innanzitutto dalla scuola slava) parte dal presupposto che in un bosco naturale la fase di rinnovazione avvenga in continuo sia nel tempo che nello spazio e che pertanto nel medesimo popolamento convivano piante mature, adulte, giovani e finanche gruppi di rinnovazione, secondo una distribuzione inversamente proporzionale alle dimensioni dei soggetti, grossomodo corrispondente ad un ramo di iperbole.
Ogni intervento che viene condotto in tali tipi di bosco deve comprendere pertanto aspetti di riduzione della densità, di induzione della rinnovazione, di tutela e potenziamento di quella esistente, di regolazione della composizione ecc... Questo tipo di modello gestionale presenta, accanto a elementi di maggiore naturalità, di migliore tutela idrogeologica e del paesaggio, problematiche legate alla rinnovazione, non tutte le specie infatti sopportano in egual misura la riduzione di luce data dalla presenza di piante grosse, ai danni legati al taglio dei soggetti più grossi localizzati nelle vicinanze di gruppi di rinnovazione, all'antieconomicità degli interventi selvicolturali che risultano distribuiti in modo casuale sulla particella.
Oggi nella maggior parte delle fustaie alpine si applicano modelli gestionali intermedi cercando di mediare fra i pregi e difetti di ciascuno dei due modelli canonici. In pratica l'indirizzo prevalente è quello di applicare il modello selvicolturale del bosco coetaneo su piccoli gruppi la cui distribuzione nella particella garantisce i rispetto di una disetaneità complessiva. Ciò garantisce una relativa facilità di approccio selvicolturale (il modello coetaneo è di più facile ed immediata gestione), la sostanziale permanenza di una copertura forestale, la possibilità di concentrare i tagli per piccole aree con conseguente miglioramento della resa economica rispetto al bosco gestito sulla base del modello disetaneo.
In fase di redazione del piano vengono fissati anche i limiti quantitativi di taglio. Il discorso qui porterebbe molto lontano e non è facile semplificare i concetti tecnici; basti dire che la ripresa, cioè la quantità di legname ammessa al taglio nell'ambito di un piano di gestione, è sempre largamente inferiore al ritmo di accrescimento della foresta e che ciò dà ampie garanzie circa la conservazione del bosco in termini di biomassa.
In conclusione sembra pertinente anche rispondere ad alcuni ulteriori quesiti che possono - auspicabilmente - nascere dalla lettura del presente articolo:a il bosco allora non si regola da solo secondo processi naturali? È possibile e utile usare di più del nostro legno? Perché non viene valorizzata questa sapienza accumulata nella gestione forestale? Siamo qui ai nodi del problema forestale italiano.
Il bosco, come tutta la natura, è governato da leggi e ritmi propri che non sono a priori né buoni né, tantomeno, cattivi; sono i suoi e basta. Se l'uomo scomparisse per incanto dalle vallate alpine il bosco vivrebbe indefinitamente secondo meccanismi di ciclicità. Su un'area nuda si svilupperebbe un popolamento arbustivo, dopo alcuni decenni si avrebbe un bosco, dopo un ciclo grossomodo secolare avremo un bosco maturo cui conseguirebbe una fase di regresso e, non di rado, di collasso; le piante morte cadrebbero nei torrenti, le piante sradicate darebbero luogo a erosioni, l'abbondanza di legname morto favorirebbe la propagazione di incendi accidentali etc. Poco alla volta il ciclo ripartirebbe dando nel complesso luogo ad una autoregolazione del sistema. In altre parole, così come non è negabile che ogni bosco abbia ritmi ed evoluzioni proprie, perfettamente regolate dalle leggi di natura, è altrettanto evidente che la stretta convivenza dell'uomo con la foresta, propria delle popolazioni alpine soprattutto, sia possibile solo senza che gli equilibri naturali della foresta si esplichino in contrasto con le esigenze delle popolazioni che ci abitano. Questo è quanto si può chiedere alla selvicoltura.
Com'è facilmente comprensibile, la gestione di un bosco, soprattutto di un bosco montano, ha dei costi rilevanti e spesso ormai il valore commerciale del legname da vendere non compensa nemmeno i costi che devono essere sostenuti per le sole operazioni di taglio, allestimento ed esbosco dei singoli tronchi. In termini tecnico-estimativi si dice che il bosco è a macchiatico negativo. Il legname che viene da foreste prive di rigorosi limiti gestionali, quello che viene da impianti artificiali che spesso sostituiscono i boschi originali o quello che viene da zone ove la manodopera ha costi infimi, contribuisce infatti a determinare la progressiva marginalizzazione economica dei nostri boschi ed il loro conseguente abbandono. L'uso economicamente sostenibile della risorsa forestale, che per lungo tempo ha dovuto essere limitato proprio con norme tecniche e legislative che ne garantissero la perpetuità, assume oggi un valore strategico per il mantenimento delle foreste medesime. Non è un caso che in Italia le regioni alpine dove più forte è stata la tradizione di utilizzo economico del bosco e di applicazione dei criteri selvicolturali e dell'assestamento forestale - per esempio il Trentino Alto Adige - siano anche quelle che dispongono del boschi più belli e della natura più ricca. È pertanto del tutto pertinente auspicare un maggiore utilizzo delle risorse forestali interne e locali in quanto ciò garantisce l'applicazione di modelli gestionali tra i più rigorosi e rispettosi al mondo (non si può dire lo stesso di tutti i legnami di importazione!), la riduzione dell'inquinamento inevitabilmente legato al trasporto del legname da zone lontane, il mantenimento di una tradizione forestale che, se persa, difficilmente può essere recuperata in tempi brevi, l'utilizzo di una risorsa effettivamente rinnovabile e ad inquinamento nullo. Difficilmente lo stato, l'ente pubblico in genere, può prevedere stanziamenti di risorse per operare tutti gli interventi gestionali previsti in tutti i boschi a macchiatici negativo; tale politica concentrata su una selvicoltura autoreferenziale ha nei decenni mostrato tutti i suoi limiti. Oggi la tendenza è pertanto quella di sviluppare un approccio di filiera con progetti nei quali l'attenzione viene posta sull'attivazione, il potenziamento ed il mantenimento di un legame commerciale foresta-legno quale premessa indispensabile per mantenere attiva una selvicoltura ed in piena efficienza i nostri boschi. Suscitano notevole interesse in particolare due strategie: il ritorno all'uso della biomassa forestale a scopi energetici e la certificazione forestale. L'uso energetico del legno è totalmente conforme al protocollo di Kyoto. La CO2 che viene liberata dalla combustione del legno è infatti la medesima che è stata fissata nell'ambito del processo di fotosintesi al massimo alcuni decenni prima; ciò, differentemente dall'impiego dei combustibili fossili che liberano CO2 fissata in ere geologiche, non comporta pertanto un apporto netto di CO2 nell'ambiente, mantenendo sostanzialmente in pareggio il bilancio entrate-uscite e contribuendo così a non aggravare l'effetto serra. In secondo luogo è importante notare che la risorsa forestale è inoltre una delle rare risorse primarie effettivamente rinnovabili per effetto di processi biochimici ed energetici unici. La certificazione forestale è invece un orientamento culturale e commerciale nato nei paesi anglosassoni che prevede la possibilità di garantire a terzi, tipicamente l'acquirente finale di un prodotto a base legno, che tale prodotto è stato realizzato con legname proveniente da foreste gestite secondo protocolli gestionali precisi e sostenibili che rispondono a principi e criteri generali nonché ad una serie di norme specifiche tipiche di ciascun protocollo. Si tratta di un processo del tutto innovativo e molto interessante per diversi motivi. Si tratta innanzi tutto di una operazione di marketing nella quale si stimola la volontà di scelta da parte del consumatore di prodotti per i quali sia garantita a monte una effettiva gestione sostenibile. In secondo luogo i migliori protocolli di certificazione impongono che le foreste certificate siano gestite secondo piani i cui caratteri tecnici sono in genere assai prossimi a quelli sopra esposti; è la prima volta cioè che si tenta di valorizzare in termini commerciali anche la qualità della gestione forestale. In terzo luogo si pone l'accento sulla necessità di valorizzazione gli aspetti produttivi connessi alla multifunzionalità del bosco. È interessante notare che i principali protocolli di certificazione forestale sono di tipo prestazionale che come tali non si limitano a codificare procedure (come per esempio nella certificazione dei modelli di sistema qualità) ma fissano diversi limiti e caratteri quali-quantitativi che vanno obbligatoriamente raggiunti e dimostrati per ottenere la certificazione stessa. Lo sviluppo di una seria, lungimirante e continuativa politica di filiera può permettere la valorizzazione dei legnami tradizionali delle nostre vallate alpine (per esempio il Larice per gli infissi esterni in sostituzione di Duglas o di Hemlock) con benefici effetti sui boschi, sull'occupazione e sul paesaggio.
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